Fede, verità, tolleranza. Un’intervista
a Ratzinger
Intervista a cura di Antonio Socci. Il libro: Joseph
Ratzinger, “Fede, verità tolleranza. Il cristianesimo e le religioni nel
mondo”, Cantagalli, Siena, 2003, pagine 298, euro 17,50
Eminenza, c’è un’idea che si è affermata nella cultura alta e nel
pensiero comune secondo cui le religioni sono tutte vie che portano verso lo
stesso Dio, quindi l’una vale l’altra. Cosa ne pensa, dal punto di vista
teologico?
Direi che anche sul piano empirico, storico, non è vera questa concezione
molto comoda per il pensiero di oggi. È un riflesso del relativismo diffuso,
ma la realtà non è questa perché le religioni non stanno in un modo statico
una accanto all’altra, ma si trovano in un dinamismo storico nel quale
diventano anche sfide l’una per l’altra. Alla fine la Verità è una, Dio
è uno, perciò tutte queste espressioni, così diverse, nate in vari momenti
storici, non sono equivalenti, ma sono un cammino nel quale si pone la
domanda: dove andare? Non si può dire che sono vie equivalenti perché sono
in un dialogo interiore e naturalmente mi sembra evidente che non possono
essere mezzi della salvezza cose contraddittorie: la verità e la menzogna non
possono essere allo stesso modo vie della salvezza. Perciò questa idea
semplicemente non risponde alla realtà delle religioni e non risponde alla
necessità dell’uomo di trovare una risposta coerente alle sue grandi
domande.
In diverse religioni si riconosce la straordinarietà della figura di Gesù.
Sembra non sia necessario essere cristiani per venerarlo. Dunque non c’è
bisogno della Chiesa?
Già nel Vangelo troviamo due posizioni possibili in riferimento a Cristo. Il
Signore stesso distingue: che cosa dice la gente e che cosa dite voi. Chiede
cosa dicono quelli che Lo conoscono di seconda mano, o in modo storico,
letterario, e poi cosa dicono quelli che Lo conoscono da vicino e sono entrati
realmente in un incontro vero, hanno esperienza della Sua vera identità.
Questa distinzione rimane presente in tutta la storia: c’è una impressione
da fuori che ha elementi di verità. Nel Vangelo si vede che alcuni dicono:
“è un profeta”. Così come oggi si dice che Gesù è una grossa
personalità religiosa o che va annoverato fra gli avataras (le molteplici
manifestazioni del divino). Ma quelli che sono entrati in comunione con Gesù
riconoscono che è un’altra realtà, è Dio presente in un uomo.
Non è confrontabile con le altre grandi personalità delle religioni?
Sono molto diverse l’una dall’altra. Buddha in sostanza dice: “Dimenticatemi,
andate solo sulla strada che ho mostrato”. Maometto afferma: “Il signore
Dio mi ha dato queste parole che verbalmente vi trasmetto nel Corano”. E
così via. Ma Gesù non rientra in questa categoria di personalità già
visibilmente e storicamente diverse. Ancora meno è uno degli avataras, nel
senso dei miti della religione induista.
Perché?
È una realtà del tutto diversa. Appartiene ad una storia, che comincia da
Abramo, nella quale Dio mostra il suo volto, Dio si rivela come una persona
che sa parlare e rispondere, entra nella storia. E questo volto di Dio, di un
Dio che è persona e agisce nella storia, trova il suo compimento in quell’istante
nel quale Dio stesso, facendosi uomo Lui stesso, entra nel tempo. Quindi,
anche storicamente, non si può assimilare Gesù Cristo alle varie
personalità religiose o alle visioni mitologiche orientali.
Per la mentalità comune questa “pretesa” della Chiesa - che proclama
“Cristo, unica salvezza” - è arroganza dottrinale.
Posso capire i motivi di questa moderna visione la quale si oppone all’unicità
di Cristo e comprendo anche una certa modestia di alcuni cattolici per i quali
“noi non possiamo dire che abbiamo una cosa migliore che gli altri”.
Inoltre c’è anche la ferita del colonialismo, periodo durante il quale
alcuni poteri europei hanno strumentalizzato il cristianesimo in funzione del
loro potere mondiale. Queste ferite sono rimaste nella coscienza cristiana, ma
non devono impedirci di vedere l’essenziale. Perché l’abuso del passato
non deve impedire la comprensione retta. Il colonialismo - e il cristianesimo
come strumento del potere - è un abuso. Ma il fatto che se ne sia abusato non
deve rendere i nostri occhi chiusi di fronte alla realtà dell’unicità di
Cristo. Soprattutto dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo non è un’invenzione
nostra europea, non è un prodotto nostro. È sempre una sfida che viene da
fuori dell’Europa: all’origine venne dall’Asia, come sappiamo bene. E si
trovò subito in contrasto con la sensibilità dominante. Anche se poi l’Europa
è stata cristianizzata è rimasta sempre questa lotta tra le proprie pretese
particolari, fra le tendenze europee, e la novità sempre nuova della Parola
di Dio che si oppone a questi esclusivismi e apre alla vera universalità. In
questo senso, mi sembra dobbiamo riscoprire che il cristianesimo non è una
proprietà europea.
Il cristianesimo contrasta anche oggi la tendenza alla chiusura che c’è
in Europa?
Il cristianesimo è sempre qualcosa che viene realmente da fuori, da un
avvenimento divino che ci trasforma e contesta anche le nostre pretese e i
nostri valori. Il Signore cambia sempre le nostre pretese e apre i nostri
cuori per la Sua universalità. Mi sembra molto significativo che al momento l’Occidente
europeo sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo, proprio perché
lo spirito europeo si è autonomizzato e non vuole accettare che ci sia una
Parola divina che gli mostra una strada che non è sempre comoda.
Riecheggiando Dostoevskij mi chiedo se un uomo moderno può credere,
credere veramente che Gesù di Nazaret è Dio fatto uomo. È percepito come
assurdo.
Certo, per un uomo moderno è una cosa quasi impensabile, un po’ assurda e
facilmente si attribuisce ad un pensiero mitologico di un tempo passato che
non è più accettabile. La distanza storica rende tanto più difficile
pensare che un individuo vissuto in un tempo lontano possa essere adesso
presente, per me, e sia la risposta alle mie domande. Mi sembra importante
allora osservare che Cristo non è un individuo del passato lontano da me, ma
ha creato una strada di luce che pervade la storia cominciando con i primi
martiri, con questi testimoni che trasformano il pensiero umano, vedono la
dignità umana dello schiavo, si occupano dei poveri, dei sofferenti e portano
così una novità nel mondo anche con la propria sofferenza. Con quei grandi
dottori che trasformano la saggezza dei greci, dei latini, in una nuova
visione del mondo ispirata proprio da Cristo, che trova in Cristo la luce per
interpretare il mondo, con figure come San Francesco d’Assisi, che ha creato
il nuovo umanesimo. O figure anche del nostro tempo: pensiamo a Madre Teresa,
Massimiliano Kolbe... È un’ininterrotta strada di luce che si fa cammino
della storia e una ininterrotta presenza di Cristo e mi sembra che questo
fatto - che Cristo non è rimasto nel passato ma è stato sempre contemporaneo
con tutte le generazioni ed ha creato una nuova storia, una nuova luce nella
storia, nella quale è presente e sempre contemporaneo, fa capire che non si
tratta di un qualunque grande della storia, ma di una realtà davvero Altra,
che porta sempre luce. Così, associandosi a questa storia, uno entra in un
contesto di luce, non si mette in rapporto con una persona lontana, ma con una
realtà presente.
Perché, secondo lei, un uomo del 2003 ha bisogno di Cristo?
E’ facile accorgersi che le cose rese disponibili solo da un mondo materiale
o anche intellettuale, non rispondono al bisogno più profondo, più radicale
che esiste in ogni uomo: perché l’uomo ha il desiderio - come dicono già i
Padri - dell’infinito. Mi sembra che proprio il nostro tempo con le sue
contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in
scorciatoie come la droga, manifesti visibilmente questa sete dell’infinito
e solo un amore infinito che tuttavia entra nella finitudine, e diventa
addirittura un uomo come me, è la risposta. È certo un paradosso che Dio, l’immenso,
sia entrato nel mondo finito come una persona umana. Ma è proprio la risposta
della quale abbiamo bisogno: una risposta infinita che tuttavia si rende
accettabile e accessibile, per me, “finendosi” in una persona umana che
tuttavia è l’infinito. È la risposta della quale si ha bisogno: si
dovrebbe quasi inventare se non esistesse…
C’è una novità nel suo libro a proposito del tema del relativismo. Lei
sostiene che nella pratica politica, il relativismo è il benvenuto perché ci
vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. È il giudizio che la Chiesa ha
sempre dato sulla politica?
Direi proprio di sì. È questa una delle novità essenziali del cristianesimo
per la storia. Perché fino a Cristo l’identificazione di religione e stato,
divinità e stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo stato. Poi l’islam
ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero
che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità. In
realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è
di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha
divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un
potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che
convince, dell’amore che attrae. Egli dice: “attirerò tutti a me”. Ma
lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e
Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà
critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo stato.
Quindi non c’è potere o politica o ideologia che possa rivendicare per
sé l’assoluto, la definitività, la perfezione…
Questo è molto importante. Perciò sono stato contrario alla teologia della
liberazione, che di nuovo ha trasformato il Vangelo in ricetta politica con l’assolutizzazione
di una posizione, per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare
progresso… In realtà, il mondo politico è il mondo della nostra ragione
pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade.
Bisogna lasciare proprio alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e
non assolutizzare lo stato. I padri hanno pregato per lo stato riconoscendone
la necessità, il suo valore, ma non hanno adorato lo stato: mi sembra proprio
questa la distinzione decisiva. Ma questo è uno straordinario punto d’incontro
tra pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. Io penso che la visione
liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che
ha diviso i due mondi, così creando pure una nuova libertà. Lo stato è
importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La
distinzione tra lo stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in
cui una persona può anche opporsi allo stato. I martiri sono una
testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello stato. Così è
nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal democratico ha
preso le sue strade, l’origine è proprio questa.
I sistemi comunisti europei sono crollati. Ma lei, nel suo libro, non
esclude che il pensiero marxista possa comunque ripresentarsi in altre forme
nei prossimi tempi.
È una mia ipotesi, ma mi sembra cominci già a verificarsi perché il puro
relativismo che non conosce valori etici fondanti e quindi non conosce
realmente neanche un perché della vita umana, anche della vita politica, non
è sufficiente. Perciò per un non credente che non riconosce la trascendenza,
resta questo grande desiderio di trovare qualcosa di assoluto ed un senso
morale del suo agire.
I sommovimenti noglobal di questi anni sono di nuovo una trasposizione
della sete d’assoluto in un obiettivo politico?
Direi di sì. È sempre questa sete, perché l’uomo ha bisogno dell’assoluto
e se non lo trova in Dio lo crea nella storia.
Sempre a proposito del tema del relativismo. Tutti gli usi e i costumi e le
civiltà debbono comunque essere sempre rispettate a priori oppure c’è un
canone minimo di diritti e doveri che deve valere per tutti?
Ecco, questo è l’ altro aspetto della medaglia. Prima abbiamo constatato
che la politica è il mondo dell’opinabile, del perfettibile, dove si devono
cercare con le forze della ragione le strade migliori, senza assolutizzare un
partito o una ricetta. Tuttavia è anche un campo etico, la politica, perciò
non può alla fine comportare un relativismo totale dove, per esempio,
uccidere e creare pace hanno la stessa legittimità. Abbiamo in diversi
documenti della nostra Congregazione sottolineato questo fatto, pur
riconoscendo totalmente l’autonomia politica.
Dunque non tutto è permesso…
Abbiamo sempre detto che neanche la maggioranza è l’ultima istanza, la
legittimazione assoluta di tutto, in quanto la dittatura della maggioranza
sarebbe ugualmente pericolosa come le altre dittature. Perché potrebbe un
giorno decidere, per esempio, che vi sia una “razza” da escludere per il
progresso della storia, aberrazione purtroppo già vista. Quindi, ci sono
limiti anche al relativismo politico. Il limite è delineato da alcuni valori
etici fondamentali che sono proprio la condizione di questo pluralismo. E sono
quindi obbligatori anche per le maggioranze.
Qualche esempio?
Sostanzialmente il Decalogo offre in sintesi queste grandi costanti.
Torno a un altro aspetto del “relativismo culturale”. Anche fra i
cattolici c’è chi considera la missione quasi una violenza psicologica nei
confronti di popoli che hanno un’altra civiltà.
Se uno pensa che il cristianesimo sia solo il suo proprio mondo tradizionale
evidentemente sente così la missione. Ma si vede che non ha capito la
grandezza di questa perla, come dice il Signore, che gli si dona nella fede.
Naturalmente, se fossero solo tradizioni nostre, non si potrebbero portare ad
altri. Se invece abbiamo scoperto, come dice San Giovanni, l’Amore, se
abbiamo scoperto il volto di Dio, abbiamo il dovere di raccontare agli altri.
Non posso mantenere solo per me una cosa grande, un amore grande, devo
comunicare la Verità. Naturalmente nel pieno rispetto della loro libertà,
perché la verità non s’impone con altri mezzi che con la propria evidenza
e solo offrendo questa scoperta agli altri - mostrando cosa abbiamo trovato,
che dono abbiamo in mano, che è destinato a tutti - possiamo annunciare bene
il cristianesimo, sapendo che suppone l’altissimo rispetto della libertà
dell’altro, perché una conversione che non fosse basata sulla convinzione
interiore - “ho trovato quanto desideravo” - non sarebbe una vera
conversione.
Di recente è venuto alla luce sulla stampa un fenomeno doloroso: la
conversione di tanti immigrati che provengono dall’islam, e che - oltre a
trovarsi in pericolo - si ritrovano soli, non accompagnati dalla comunità
cristiana.
Sì, ho letto e mi addolora molto. È sempre lo stesso sintomo, il dramma
della nostra coscienza cristiana che è ferita, che è insicura di sé.
Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma
tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi
cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se
siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non
dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in
libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.
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