Un documento fondamentale per gli approfondimenti,
tratto dalla più recente opera di Mons. Brunero Gherardini: "Quod et tradidi vobis" - La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa.
Si tratta del VII Capitolo: Tradizione e Postconcilio. Per gentile concessione
dell'Autore. Si rimanda all'intero volume della Casa Mariana Editrice, Frigento
2010.
Cap. VII
Tradizione e postconcilio
Son consapevole che l'esposizione dell'insegnamento conciliare sulla
Tradizione è stato troppo veloce, sintetico, forse anche parziale. Non era
facile metter a confronto in poche pagine tre Concili come il Tridentino ed i
due Vaticani, su un argomento di tale e tanta portata ecclesiale. Il limite
rientrava nella prospettiva del VI capitolo già mentre l'iniziavo.
Limite non è inganno, non manomissione, non contraffazione. Ciò che i detti
Concili formularono ed in modo autentico insegnarono sul concetto e la realtà
della Tradizione è stato riferito in misura certamente ristretta, ma fedele. Che
il Tridentino abbia superato la distinzione del "partim/partim" e si sia
concentrato sull'esistenza tanto d'una "fonte" scritta, quanto d'una "fonte"
orale, ambedue consegnate alla Chiesa di sempre da una "successione
ininterrotta", è assolutamente incontestabile.
Né è contestabile la ripresa di codesta dottrina da parte del Vaticano I, che
la innerva nella proposta magisteriale della Chiesa docente.
Né, infine, si potrà contestare che la pronunciata "reductio ad unum" del
Vaticano II non solo toglie di mezzo, almeno di fatto e nonostante le non poche
contorte dichiarazioni in contrario, la distinzione fra Rivelazione scritta e
Rivelazione orale, ma tende a confonder in questa anche il Magistero della
Chiesa, per la semplice ragione ch'esso è, relativamente alla Tradizione attiva
e passiva, l'autorità che propone e l'insieme delle verità proposte.
Non è mia intenzione di tratteggiare, neanche per sommi capi, una vera storia
del postconcilio; finirei alle calende greche. Dovrei analizzare, uno ad uno ed
ognuno nel proprio contesto, i singoli teologi che v'operarono; per intendersi,
quelli della c. d. nouvelle théologie che Pio XII aveva messo a tacere e che
Giovanni XXIII volle invece ai vertici delle commissioni conciliari,
praticamente consegnando loro il Concilio e permettendo che vi facessero il
buono e il cattivo tempo. E continuaron a farlo, purtroppo, anche a Concilio
ultimato. Mi soffermerò soltanto su qualcuno degl'indirizzi postconciliari, con
riferimento almeno implicito al problema della Tradizione.
Perché si comprenda meglio l'atmosfera nella quale vegetava e vigoreggiava il
complesso dei suddetti indirizzi, ricorderò che il Vaticano II era stato appena
chiuso e qualcuno già parlava di Concilio superato. Altri chiedevan l'immediata
indizione d'un Vaticano III nella speranza di portar alle conseguenze estreme la
declericalizzazione della Chiesa, all'insegna del "popolo di Dio" e del rifiuto
tanto della "christianitas" quanto della "societas perfecta". Il Concilio,
secondo i protagonisti del nuovo ed inarrestabile trend impresso alla
riflessione ecclesiale sulla Fede ed ormai ben al di là della stessa nouvelle théologie, doveva considerarsi un punto d'arrivo (senza ritorno) e di partenza:
una Chiesa era finita, un'altra era appena appena nata. Era finita la Chiesa
arroccata sul giuridicismo centralizzato di Roma, era nata la Chiesa profetica
dello Spirito; insomma, la struttura clericale della Chiesa era ormai morta e
sotterrata, sostituita da una Chiesa laicale, dialogica, ecumenica, immersa nel
mondo dal quale partiva, non al quale benignamente si volgeva. Libri ed articoli
si rincorrevan a vicenda nella difesa della novità; i titoli fan sorridere, ma
son indicativi: Fine della Chiesa costantiniana, Una Chiesa nuova, Una nuova
immagine della Chiesa, Una nuova autocoscienza ecclesiale, Il nuovo volto della
Chiesa, Una Chiesa per oggi, La Chiesa di domani. Più di venti secoli di storia
s'eran volatilizzati; un evento epocale, imprimendo la sua spinta in avanti alla
novità raggiunta, li aveva neutralizzati. Sui venti Concili ecumenici precedenti
il Vaticano II aveva passato un fatale colpo di spugna. E tutto questo fu detto
Tradizione vivente.
1 - Devianze postconciliari - E' possibile che il quadro sopra descritto in
termini decisamente non rosei lasci qualcuno non solo con l'amaro in bocca, ma
anche col tormento d'un ritornante interrogativo: e se le cose non stessero
esattamente così? L'amaro in bocca è effetto della grave situazione
determinatasi in misura ogni giorno crescente nell'era postconciliare; il tarlo
roditore del suddetto interrogativo nasce invece dal sapersi metter in crisi con
la domanda sulla verità delle cose e sulle loro cause sufficienti. Dunque, è
proprio vero che, col Vaticano II, si volle - o per lo meno qualcuno volle - far
punto e da capo?
Un'adeguata risposta a siffatta domanda può nascer da accurate ricerche nei
vari archivi specialistici, da analisi attente, da elaborati scientificamente
ineccepibili. In realtà, ciò è stato già fatto[1] almen in parte. E fatto in
modo egregio. M'atterrò quindi ad alcune delle conclusioni raggiunte.
1.1 - Nessuno pensi d'accedere non dico ai documenti del Vaticano II, ma allo
spirito che li anima e che sta alla radice delle devianze annunciate, senza
passar attraverso Karl Rahner. Del Concilio questo noto e celebrato personaggio
fu non dico il nume tutelare, ma il faro cultural teologico; come tale, ispirò
in misura massiccia gli elaborati di quasi tutte le commissioni e
sottocommissioni conciliari. La sua azione fu sinistramente geniale: ribaltò san
Tommaso con san Tommaso. Non ignorava, infatti, l'Angelico, ma ne dava
un'interpretazione in linea con il suo principio di fondo: "lo spirito" anima e
spinta propulsiva di tutta la realtà mondana ("der Geist in Welt") che, come
tale, conduce l'ermeneutica rahneriana di san Tommaso ad una "svolta
antropologica", riducendo la stessa metafisica a pura e semplice
antropologia[2]. Cioè, praticamente, annullandola.
Ora, se il principio d'immanenza è l'unica forza del divenire storico, e
quindi l'unico orizzonte sul quale s'inscrive ogni passo in avanti della scienza
e della coscienza umana, non c'è più posto, non può più essercene, per la
Tradizione, qualunque sia il suo ambito. Rahner fu molto sensibile al problema
dell'evoluzione del dogma e ne scrisse più volte. In una di queste s'espresse
significativamente così: "La storia dell'evoluzione del dogma è essa stessa (si
noti questo "essa stessa": non solo esclude la Rivelazione divina, ma si
sostituisce ad essa come una rivelazione in perenne divenire) svelamento
progressivo del suo mistero. Nella Chiesa la realtà viva della coscienza
della fede ritorna su se stessa progressivamente, a poco a poco, non in
una riflessione previa"[3]. Se le parole hanno un senso, le ultime escludon
perentoriamente perfino l'idea d'una tradizione. Rahner, tuttavia, crede di
poter metter d'accordo non dico una qualunque tradizione, ma il possesso della
verità salvifica da parte della Chiesa ed i suoi cangianti contenuti. Parla
anch'egli di conoscenza evolutiva, ferma restando la verità che non s'evolve se
non nella conoscenza progressivamente acquisita[4]. E, ciò dicendo, si fa eco
della dottrina classica sul progresso estrinseco del dogma e della Fede. Se non
che poco dopo aggiunge: "Le proposizioni che (noi), poggiati sul Verbo divino,
divenuto esso stesso «carne» in parole umane, enunciamo su di esse, non possono
esprimerle in maniera totale ed adeguata in una sola volta"[5] . Ciò comporta,
di conseguenza, che la verità salvifica non può esser pronunciata una volta per
sempre, ma è sottoposta a sempre nuove e più adeguate formulazioni. Non a caso
poco dopo si legge che "il mezzo d'appropriazione della rivelazione" è sempre ed
"in ciascun caso condizionato storicamente" e diretto "a trasformare le
proposizioni di fede, udite originariamente, in proposizioni che riferiscano
quanto si è udito alla situazione storica e spirituale dell'uomo che le
ascolta". In caso contrario - e contrario può esser solamente quello della
Tradizione ecclesiastica - "la proclamazione della fede sarebbe solo ripetizione
monotona delle frasi della Scrittura e forse anche di una limitata tradizione,
sempre materialmente le stesse"[6].
S'insinua qui l'idea d'una progressione viva della conoscenza che, in
concreto, l'uomo può aver della Fede. Rahner chiarisce il suo pensiero
ricorrendo all'esempio dell'amore. "L'amore progressivo vive dell'amore
originario, conscio sin da principio di se stesso e di ciò che da sé è diventato
mediante l'esperienza riflessa". Qualcosa d'analogo si verificherebbe anche per
il possesso della verità salutare. C'è un rapporto tra il "possesso originario,
conosciuto non in modo riflesso né espresso in proposizioni, e la conoscenza
riflessa della conoscenza originaria, articolata ed espressa in
proposizioni...La conoscenza riflessa affonda sempre le sue radici in una
conoscenza anteriore", mentre "la conoscenza originaria vive nell'attuazione di
sé costituita dalla conoscenza riflessa, per la quale essa stessa si è
arricchita. La conoscenza riflessa s'inaridirebbe in se stessa, se non vivesse
della conoscenza fondamentale più semplice, o la comprendesse totalmente. La
semplice conoscenza fondamentale s'offuscherebbe se si rifiutasse, perché più
ricca e più piena, di passare alla conoscenza riflessa"[7]. C'è, dunque, una
verità originaria, non tematica, non ancora ridotta in pensieri e proposizioni e
molto più ricca di tutta la sua futura e sempre nuova conoscenza riflessa.
Questa a sua volta arricchisce in qualche modo quella originaria, che ne riceve
una forma tematica. Sta qui, in questa progressiva dialettica di conoscenza e
d'esposizione più propria e più piena, la vita della rivelazione e della sua
verità. A tale vita anche altri si son poi appellati per superare la statica ed
ormai "fossilizzata" Tradizione ecclesiastica e da questa passar alla tradizione
vivente.
1.2 - Quanto ho sopra esposto potrebbe far pensare che K. Rahner abbia, per
così dire, solo sfiorato il problema della Tradizione, o l'abbia appena
intravisto da lontano, senza farglisi direttamente incontro per affrontarlo. Non
è così. Tra le trattazioni dirette figura la conferenza da lui tenuta il 10
febbraio 1963 alla Katholische Akademie - Bayern e poi pubblicata per ben due
volte ed in tempi ravvicinati[8]. La conferenza presenta il solito procedimento
rahneriano: dire e subito dopo o negare il già detto, o attenuarlo, o
introdurvi
il tarlo del dubbio. In effetti, riconosce che "tradizione significa
trasmissione", ma subito aggiunge che "questo concetto ha preso un senso
ristretto e non è detto che sia del tutto fuori discussione"[9]. Rhaner lo
discute sulla base dell'evento-Cristo, d'un Cristo atematico, del Cristianesimo
come farsi più che come esserci; tutt'è insomma ridotto ad avvenimento,
riconoscendo ch'esso è "la proclamazione della verità di Dio", ma precisando che
non si tratta d' "una verità universale, necessaria e astratta"[10].
Basta questa dichiarazione per azzerar ogni traccia di Tradizione nella
storia del Cristianesimo. Ma Rahner non si contenta di così poco. Al posto della
"verità universale, necessaria, astratta" pone l'avvenimento di Dio che,
liberamente e solo per grazia, entra in rapporto con l'uomo attraverso
l'evento-Cristo, ch'è insieme rivelazione e salvezza. Proprio perché tale,
"bisogna che quest'avvenimento...arrivi sino a noi...attraversando il tempo e lo
spazio che costituiscono l'ambiente dell'esistenza umana"; dove "fin a noi"
significa non soltanto umanità rigenerata, ma anche dimensioni spazio-temporali
del detto ambiente. Sottolineando intenzionalmente tali dimensioni, la logica
rahneriana prima ne deduce la paràdosis come realtà trasmessa, poi individua
l'oggetto della trasmissione non in un complesso di proposizioni, ma "nel dono e
nella comunicazione, insomma nella consegna di sé fatta dal Figlio di Dio,
incarnato, ...definitivamente trasmesso e consegnato di nuovo, dopo
l'avvenimento della Cena e della Croce, nella
celebrazione...dell'Eucaristia"[11]. L'equivoco, neanche troppo sotterraneo,
consiste nel giudicare semplici proposizioni le verità salvifiche rivelate[12] e
nel tacere le competenze ecclesiastiche in materia di paràdosis e del
correlativo Magistero.
a) Di ciò Rahner parla più tardi, quando la paràdosis che Gesù fa di se
stesso "nella sua realtà, nella sua azione e nella sua parola" vien recepita
dagli apostoli e dalla viva voce di costoro ritrasmessa ad altri, i quali in tal
modo ne fan "l'esperienza immediata presso i loro contemporanei". "Ed ecco, in
sostanza, ciò che costituisce la Chiesa...: la comunicazione" non solamente
della sua dottrina, ma "di Gesù Cristo stesso all'umanità....e della Chiesa in
quanto possiede al proprio centro Gesù Cristo, (è) la Chiesa degli apostoli ciò
che viene trasmesso e perpetuato...in tutto ciò che questa Chiesa è, in quel che
crede e quel che celebra, nei suoi sacramenti, nella sua vita concreta e nella
sua esperienza, nella sua Cena e nell'espressione riflessa di quel che ha udito"
dalla parola diretta degli apostoli[13].
Sì, qui si parla proprio della Chiesa, ma d'una Chiesa che compie la sua
paràdosis nella complessità d'ogni suo elemento di base, anzi della sua stessa
esperienza, e non di competenze specifiche, di cui sia stato insignito un suo
organo, p. es. il vertice del suo governo, comprensivo del c.d. Magistero
ecclesiastico. Almeno in questo contesto, K. Rahner ignora la specificità di
questo o d'altri organi, parla della "Chiesa primitiva nel senso proprio del
termine" come della "entità che deve trasmettersi all'avvenire" e solo questa
Chiesa primitiva riconosce come "entità normativa per tutti i tempi
ulteriori"[14].
b) La reticenza sull'organo di Magistero non appar immotivata. Al dotto e
riverito conferenziere interessava, infatti, porre le premesse per arrivar al
suo scopo: dichiarare che l'entità normativa "s'è oggettivata essa stessa,
riprodotta, rappresentata, espressa in ciò che chiamiamo Sacra Scrittura", con
la conseguenza che "la parola della Sacra Scrittura" è "sempre la parola
concreta e attuale della Chiesa viva,...tramandata al proprio avvenire da questa
trasmissione vivente che la Chiesa fa di se stessa, dalla testimonianza vivente
che la Chiesa dà nella propria tradizione". La trasmissione "della Scrittura
come scrittura di Dio stesso...resta, necessariamente e per una legge
strutturale, affidata alla tradizione vivente: solo l'essere vivente della
Chiesa, che possiede la Scrittura come libro proprio e lo porta con sé
attraverso i secoli, è capace d'attestare quali siano la sua essenza e la sua
estensione; quest'essenza e quest'estensione, infatti, per farsi conoscere non
hanno altro mezzo che la testimonianza vivente della Chiesa"[15].
Il fatto che la conferenza rahneriana alla quale sto richiamandomi (10 febbr.
1963), precede di ben due anni la promulgazione della Costituzione dogmatica
sulla divina Rivelazione (18 nov. 1965), dimostra a chiare note qual enorme
influsso esercitasse K. Rahner all'esterno ed all'interno del Concilio. La
"reductio ad unum" di Scrittura e Tradizione, come ben si vede, porta il suo
inconfondibile timbro ed appartien al suo copyright; a sua volta la Tradizione
vivente ebbe in lui uno dei massimi assertori.
c) Ma K. Rahner non era così sprovveduto di logica e di storia, da non
rendersi conto che il solo lemma tradizione richiama il Magistero della Chiesa.
Né era così sordo-muto, da non risponder al quesito se la Tradizione sia più
ampia della Scrittura e se l'una e l'altra rappresentino "due correnti parallele
ed indipendenti, che ci apportano contenuti di fede materialmente
differenti"[16]. Per predisporre la sua risposta, s'appella al Magistero
ecclesiastico come norma non sostituibile dalla Scrittura e senza la quale
"l'ispirazione e il canone della Scrittura non vengon più in alcun modo
garantiti"[17]. Queste parole parrebbero una decisa virata a favore e della
Tradizione e, soprattutto, del Magistero. Non lo sono. Chiesa e Magistero han
qui qualcosa di fatalistico e d'imprescindibile, costituiscon un "aut/aut": o li
affermi, o privi la tua fede del supporto che la garantisce. Nessun richiamo,
infatti, alla fondazione biblica del Magistero, reticenza assoluta
sull'istituzione della Chiesa da parte di Cristo, sulla "potestas clavium",
sulla missione che per divina disposizione caratterizzerà la storia e l'azione
della Chiesa nel mondo. Il sì alla Chiesa ed al suo Magistero è imposto dalla
necessità, ma non disposto ed istituito da Cristo.
Quanto poi all'annoso problema della sufficienza scritturistica, affermata o
per assorbir in essa la Tradizione o per non riconoscer a questa alcuno spazio
vitale e negarne quindi sia la compresenza normativa insieme con la Scrittura,
sia la possibilità stessa di dedurne nuovi contenuti dottrinali, Rahner non
ammette ondeggiamenti: tutto è Scrittura e tutto è in essa[18]. Ovviamente, per
dar la misura del suo acume critico, tale da suggerir il là perfin al divino
Direttore d'orchestra, non manca il suo "sì, ma": "se[19] Dio ha effettivamente
operato il miracolo di una ispirazione scritturistica e di una Scrittura divina,
egli non può sottrarre certe verità della Chiesa alla testimonianza della
Scrittura, ad eccezione della testimonianza concernente questo stesso miracolo,
dal momento che questa Scrittura egli l'ha ispirata precisamente perché fosse,
per le generazioni future, la testimone della verità della Chiesa
apostolica"[20]. Dopo una bella boccata d'aria per riprender quota, cerco di
capire: c'è un "sic/et non" che attanaglia anche la libertà di Dio; supposto che
la Scrittura sia opera sua a favore delle generazioni venture, sarebbe un
assurdo se Dio non ne avesse fatto il contenitore di tutta la verità; ma poiché
questa è destinata alle generazioni future, non è assurdo che manchi nella
Scrittura la testimonianza concernente il miracolo della Scrittura stessa. Sì,
cerco di capire, ma non ci riesco. Non capisco perché Dio avrebbe dovuto
affidare la verità salutare solamente alla Scrittura; non c'è bisogno
d'abbracciare la tesi di Karl Barth riguardante la divina libertà di rivelarsi
"in modo dissimulato, non invisibile ma indiretto", attraverso tante mediazioni,
perfino attraverso il comunismo ateo[21]; anche al di fuori di questi paradossi,
nessuno, nemmeno "il massimo ispiratore del Concilio" dovrebbe scandalizzarsi se
Dio avesse deciso di rivelarsi anche attraverso la Tradizione.
d) Considero una vera grazia, fatta dal Signore alla sua Chiesa, quella d'un
abbastanza diffuso movimento di ripulsa dell'eredità rahneriana. Il movimento
può vantar addirittura come una delle sue prime mosse quella che fa capo al
Pontefice f. r., il quale sconfessò nel 1978 l'acritica apertura rahneriana ad
ogni moderno giudizio contro i contenuti dottrinali della Tradizione[22].
1.3 - Dissonante non fu soltanto Rahner. E mi spiace di non poter fare una
completa rassegna delle dissonanze, se non altro per aprire gli occhi a chi li
avesse ancora chiusi. Fra i più "stonati", dagli anni del preconcilio a gran
parte di quelli postconciliari, dovemmo ascoltare il domenicano di Nimega, p.
Edward Schillebeeckx, recentemente scomparso. Chi ricorda il non felicemente
famoso Catechismo Olandese - un vento di fronda che agitò la vigilia del
Vaticano II e penetrò all'interno dell'aula conciliare scompaginando gli
orientamenti che con fatica andavan delineandosi - ricorderà pure la parte avuta
dal detto domenicano nella redazione di quel catechismo.
a) Tuttavia, per introdurre ed orientar un po' d'attenzione critica allo
sconcertante professore di Nimega, mi riferirò anzitutto ad un articolo di J.
Galot, dedicato almen in parte a lui [23], del quale per vario tempo fu molto
celebrato e contestato un saggio di cristologia sacramentale[24]. La cristologia
è infatti trattata in funzione della teologia sacramentaria. E non è una
cristologia tradizionale. Un'idea fortemente sottolineata è che l'uomo Gesù,
"intimamente unito al Padre per la sua dipendenza piena d'amore", abbia vissuto
"in una situazione d' allontanamento da Dio". Il fatto d'esser
carne (sarx)
escludeva in lui la presenza dello Spirito, "perché Pneuma e sarx sono in
conflitto"; ed è questa la ragione per la quale "durante la vita terrena di Gesù
«non vi era ancora lo Spirito - come dice Gv 7,39 - perché il Cristo non era
stato ancora glorificato»".Il chiarimento s'avrà sulla croce, quando, "dalle
profondità della situazione di sventura - de profundis clamavi a te, Domine -
risuonò il grido d'un uomo che si sa(peva) indubbiamente unito al Padre nel più
profondo del suo cuore umano in un amore intimo, ma che vive(va) in piena realtà
anche l'allontanamento da Dio...Egli deve passare attraverso l'importanza di
quest'allontanamento da Dio per andare alla glorificazione che Dio gli
darà"[25].
Mi fermo qui. I lineamenti cristologici qui delineati metton in evidenza lo
stridore tra l'immagine "schillebeeckxiana" di Cristo e quella del dogma
calcedonense e, con esso, di tutta la Tradizione cattolica. Nelle parole di
Schillebeeckx non si coglie più nemmeno una lontanissima reminiscenza del
Simbolo con cui Calcedonia sottolineò l'armonia dei due mondi - l'umano ed il
divino - nei quali Cristo si muove perfettamente a suo agio, e dichiarò
l'incarnato Verbo del Padre "perfectum in deitate, eundem perfectum in
humanitate, Deum verum et hominem verum, consubstantialem Patri secundum
deitatem et consubstantialem nobis secundum humanitatem". Nulla,
nell'allontanato da Dio, ritroviamo delle due nature "inconfuse, immutabiliter,
indivise, inseparabiliter" congiunte, secondo il dettato calcedonense,
nell'ineffabile mistero dell'unione ipostatica[26].
b) Ciò chiarito, dirò che pur in altre pubblicazioni di Schillebeeckx si
coglie con chiarezza inconfondibile il distacco dalla Tradizione, se non anche
il disprezzo di essa, perfino quando non ne parla direttamente. Volendo, in
effetti, far capire che l'allontanarsi dalla Chiesa come fatto sociologico e
statistico non è indice di scristianizzazione, ne scorge il motivo, che chiama
teologico, nella "non vivibilità" delle vecchie forme ecclesiastiche,
chiedendone l'aggiornamento[27]. A proposito d'aggiornamento, contro
l'insopportabile vecchiume auspica "una visione teologica continuamente
rinnovata, che rende possibile il libero e tuttavia ortodosso trattamento del
dogma". Auspica del pari tanta umiltà da parte della Chiesa da "riconoscere che
la teologia scolastica è responsabile della povertà di gran parte della
predicazione"[28]: la qual cosa, per un domenicano, è proprio il colmo. Ma il
colmo è pure quell'atteggiarsi a difensore della pura tradizione "dei dogmi, del
mistero inesauribile di Dio e del suo disegno di salvezza" mediante un "senso
illativo" della divina Rivelazione, da illustrare come dono a noi uomini d'oggi,
così come gli apostoli la illustraron ai loro contemporanei[29].
Con la Chiesa Schillebeeckx non è affatto tenero. La dichiara un cumulo di
peccati, specie "nella concreta forma in cui essa si manifesta (la Chiesa di
Roma)...responsabile d'ogni sorta d'errori, d'occasioni storiche perdute, di
mancanze di comprensione"[30]. Per questo vorrebbe che non si facesse "grande d'
un trionfale possesso della verità", quasi dimenticando che si è tutti, anche la
Chiesa, alla ricerca di essa; ciò nonostante, la Chiesa "ha fede, con timore e
tremore, nella sua indefettibilità dinamica, di cui la storia della Chiesa
sedimenta nel tempo gli elementi essenziali, che però son continuamente ripresi
in una problematica sempre nuova"[31]. Le parole, almeno qui, son chiare: non
c'è, nella storia e nell'attività della Chiesa, un nove con esclusione di
nova,
c'è il contrario: gli elementi sedimentati nella sua storia son generatori di
problematiche prima sconosciute, risolte non già dai valori della sua
Tradizione, analogicamente applicati, ma "dalla grazia di Dio che è remissione e
forza rinnovatrice a partire dall'interno"[32]. Pertanto, ad ogni svolta di
questo turbinio ch'è la storia, la Chiesa, pressata interiormente dalla grazia,
presenta sempre un volto nuovo. E' sempre una nuova realtà. Non il suo ieri, ma
il suo oggi che predispone il suo domani. "Può peccare di negligenza (più) che
di troppa fretta, d'aggiornamento troppo lento (più) che d'adattamento troppo
affrettato"[33]. Ma di per sé è novità.
La Chiesa, insomma, se nel metter mano all'aratro non drizza lo sguardo in
avanti (cf Lc 9,62), "corre il grave rischio di restar indietro, come uno strano
relitto d'un'epoca remota": il rischio di rifiutare la spinta della grazia a
reinventarsi, a "mettersi in sincronismo con i tempi", a "sbarazzarsi degli
anacronismi nella sua concreta manifestazione", insomma a "diventar
odierna"[34]. A tal fine occorre, secondo il celebrato e discusso ed
inqualificabile domenicano di Nimega, non già riportar a galla i relitti del
passato, anche se presentati come tradizione vivente, bensì dimostrare che
questa tradizione è davvero vivente solo se si rende "funzionante la Chiesa
nell'immagine odierna dell'uomo e del mondo, nella vita reale dell'uomo del
momento presente". Per chi non avesse capito, o fosse poco incline a lasciarsi
convincere da quanto sopra, ecco come - in modo cioè radicale ed esplicito -
Schillebeeckx disvela il suo pensiero: "Noi non dobbiamo immaginare (la Buona
Novella) come se la Chiesa avesse in custodia una precisa presentazione della
Fede, dipinta una volta per sempre, che ora dev'essere soltanto restaurata ed
incorniciata, per ragioni tattiche e pedagogiche, perché abbia una maggiore
forza d'attrazione". Al contrario, dev'esser "continuamente rinnovata, e nuova
nell'integro messaggio evangelico"[35].
Superflua ogni altra citazione.
1.4 - Un quadro di teologia contemporanea non può negar un po' di spazio
anche a colui che fu definito, non senza un'evidente esagerazione, l'enfant terrible de la Théologie catholique. Alludo a Hans Küng. Fin dal suo esordio con
Rechtfertigung del 1957 e soprattutto in seguito, ci fu chi lo portò alle stelle
e chi gli dette sulla voce[36]. La ragione è ch'egli incarna lo spirito
illuminista: gl' "illuminati" d'oggi l'adorano; gli altri gridan allo scandalo.
a) La sua posizione sul nostro problema di fondo è conseguente: nessun
sentimentalismo e nessun cedimento, se mai occhi aperti al "sol dell'avvenire".
Con un accorgimento, però: quello di tutt'i novatori: riscoprir il vero passato,
per "levigarlo" a dovere e farlo risplendere di luce nuova, attuale, libera da
tutte le pastoie della c. d. tradizione. Non si può dire ch'egli non conosca le
fonti; anzi, le ha ben presenti, ma per un unico scopo: emanciparle da "tutte le
costrizioni dottrinali della Chiesa". Tanto in Die Kirche[37], quanto in
Unfehlbar? Eine Frage[38] - ma sostanzialmente le posizioni eran già delineate
in precedenti pubblicazioni[39] - considera gl'interventi dottrinali della
Chiesa durante i secoli com'espressione di giudizi contingenti, culturalmente
datati e privi di validità universale nel tempo e nello spazio. La qual cosa
spoglia la Tradizione di normatività e gli stessi asserti dogmatici d'ogni
pretesa d'infallibilità. Küng li considera addirittura soggetti all'errore e
quindi riformabili e doverosamente aggiornabili.
Le conseguenze, con riferimento alla Tradizione ecclesiastica, son per così
dire automatiche: le sue fonti e le più antiche testimonianze non posson che
esser "interpretate, commentate, esplicitate ed applicate a partire dalle
diverse situazioni ecclesiastiche"[40]. Il non farlo espone la Chiesa al suo
fallimento come apparato di potere, come esaltazione d'un organismo
sclerotizzato dal suo stesso tradizionalismo, come difesa d'un vertice
gerarchico di stampo secolare, come riproposta d'un culto di tradizione barocca
nonché d'un ritualismo non-evangelico[41]. Si noti che l'attacco alla Tradizione
non è rivolto soltanto contro la Chiesa cattolica; coinvolge in pari misura
l'Ortodossia, le chiese protestanti e quelle "libere"[42]. Con la pretesa di
salvaguardar il puro Evangelo, H. Küng dà un colpo di grazia all'ininterrotta
trasmissione di esso.
c) Né si pensi che l'attacco si fermi alla Tradizione: va diretto al suo
contenuto principale ch'è anche il suo vero soggetto, il suo protagonista: il
Signore Gesù, la sua parola, la sua opera. Purtroppo, l'attacco è devastante.
Una negazione - fra le tante - dà inizio allo smantellamento cristologico: il
Cristo niceno-costantinopolitano contraffazione di quello del NT[43]. Secondo
l'evangelo, l'esser cristiani dipende dall'adesione non già ad un dogma o ad una
cristologia, ma alla persona di Cristo. E più precisamente a quell'uomo di
Nazareth, "che è l'effettiva rivelazione dell'unico vero Dio (die des einen
wahren Gottes wirkliche Offenbarung)". A chi si domandi come ed in che senso,
Küng risponde: "Non in senso fisico-materiale, ma nemmeno in un senso irreale,
bensì nello Spirito, nel modo d'esser presente dello Spirito (in der
Daseinsweise des Geistes), come realtà spirituale (als geistige
Wirklichkeit)[44]. E' di moda, oggi, l'uscire da una difficoltà dialettica
ricorrendo allo "Spirito" ed ovviamente tacendo "Santo": se ne ha qui un
esempio. Uno dei tanti, che forse son solo dei modi di dire. Pertanto, tutte le
dichiarazioni relative alla figliolanza divina di Cristo, alla sua
pre-esistenza, alla sua presenza creatrice, alla sua azione redentrice, per
questo osannato campione della teologia postconciliare son semplici espressioni
dell'unicità, originalità ed insuperabile qualità del messaggio di Cristo. Il
quale, dunque, non è Dio, non Figlio di Dio, ma suo rappresentante e suo
rivelatore[45]. In ultim'analisi, anche Küng, un po' come tutt'i campioni di
razza, ha una sua coerenza: nel suo Cristo è assolutamente irriconoscibile
quello niceno-costantinopolitano.
Non ci vuol molto a capire l'intento di questa reinterpretazione del Signore
Gesù. La parola di Dio orale e scritta l'aveva proposto alla Fede come vero Dio
e vero uomo; Küng lo spoglia d'ogni sua consistenza divina e lo presenta nella
sua nuda umanità[46]. Con Cristo, a farne le spese è pure la sua santissima
Madre, detta anche Madre di Dio solo per una discutibilissima e problematica
evoluzione storica[47]. In realtà, Maria è semplicemente la madre di Gesù e tale
maternità ne relega la verginità, fra l'altro estranea all'Evangelo[48], nel
mondo dei sogni. La reinterpretazione è tanto radicale e dimensionata sull'uomo
comune che Küng si chiede: è oggi ragionevole che un uomo voglia farsi Dio?[49]
Ed ecco, ancora, l'illuminista che bultmannianamente spiega come ciò possa esser
avvenuto: Cristo è solo il prodotto della prima comunità cristiana, non Dio
fattosi uomo ma un uomo che la Fede nascente innalza alle altezze di Dio e
consegna alla Tradizione ecclesiastica come una certezza inoppugnabile.
1.5 - Se volessi dire sia pur poco d'ogni novatore che abbia fatto strame
della Tradizione apostolica, dovrei non scriver una veloce e limitata rassegna,
ma riempire di scritti varie scaffalature d'una biblioteca. Devo perciò passar
sotto silenzio non pochi personaggi, anche importanti, per concluder con uno, a
mio avviso di calibro veramente superiore. Ciò non toglie che, p. es., un H. de
Lubac o un D. Chenu non reggan al confronto; la mia è una scelta che m'impedisce
di dir tutto di tutti; ma resta il fatto che tutti, ognuno a suo modo, si
rivelan legati ad un effetto comune: la disgregazione dell'identità cattolica,
dovuta ad un'insostenibile reinterpretazione delle fonti cristiane, con
conseguente alterazione dei dati storici, relativizzazione della parola di Dio
orale e scritta e una rilettura della Tradizione apostolica sullo sfondo dello
storicismo hegeliano e del relativismo dottrinale.
Concludo, dunque, la mia carrellata con uno sguardo ad un teologo e storico
della teologia indubbiamente innovatore, che peraltro ebbe sempre vivo il senso
della Tradizione e dedicò ad essa una delle sue opere più celebri: Y. M.-J.
Congar.
a) Si tratta del ben noto saggio storico La Tradition et les Traditions[50],
che va alla ricerca del concetto di Tradizione nelle varie epoche e confessioni
cristiane. Con un procedimento, al quale anche altri (p. es. Deneffe, Ranft,
Geiselmann, Beumer) si son ispirati, egli dà la misura del passaggio da un'idea
di Tradizione ad altre, attraverso un'analisi attenta anche alle sfumature ed
estesa alla patristica orientale ed occidentale, alla teologia medievale, alla
Riforma protestante nonché a quella cattolica, per poi portarsi fin alle
posizioni più nuove e moderne. Ossia, al problema della Tradizione, ch'è poi
quello d'un'eredità costituitasi oltre venti secoli fa e pervenuta ai nostri
giorni.
Quella di Y. Congar è l'opera d'un moderno, corifeo dell'avanguardia
conciliare, che tuttavia raddrizza le devianze dei suoi compagni di viaggio. A
me pare che abbia provveduto, forse solo in parte, al detto raddrizzamento,
ripristinando il dato inoppugnabile di verità salutari scritturisticamente non
documentate. Non importa se avessero ragione i teologi antichi ad usare traditio
solo per codeste verità, o abbian invece ragione i più moderni ad inserire nella
tradizione tutte le verità rivelate, prescindendo dal modo della loro
trasmissione. L'importante è il riconoscimento di due modi distinti.
Congar è convinto che proprio questo sia uno dei meriti del Tridentino, il
suo passaggio dal "partim/partim" all' "et/et": due prospettive, cioè, non
alternative in assoluto, ma ambedue in tanto valide in quanto testimoniano,
l'una e l'altra, un duplice manifestarsi della verità rivelata. Solo che,
credendo d'interpretar il Tridentino, alla teoria delle due fonti Congar
sostituisce quella dei due modi. Su una certa dualità, in ultim'analisi, i Padri
eran tutti d'accordo; Congar lo desume da vari indizi e soprattutto dal fatto
che, anche dopo la soppressione del "partim/partim", la posizione dottrinale del
Tridentino - si trattasse di due fonti o di due modi - restò inalterata. Anche
se convinto che la dottrina tridentina alludesse al passaggio della Rivelazione
attraverso due forme o modi distinti, si disse dell'avviso che, nell'estimazione
comune anche dopo il Concilio, le due fonti rimasero dottrina conciliare. Tant'è
vero che tale dottrina non solo non fu mai formalmente superata, ma, almeno
nella sua sostanza, restò inalterata in tutta l'epoca posttridentina ed arrivò
in pratica fin alla vigilia del Vaticano II. E' quanto han dimostrato tanto
Geiselmann quanto Tavard[51] oltre ad altri provati autori, sulla base
degl'interventi dei Padri tridentini e dei grandi teologi operanti dietro le
loro spalle[52].
Di non minor importanza, come rileva Y. Congar, è la giustificazione
teologica delle tradizioni che, sia durante sia dopo il Tridentino, si basava
sulla reticenza almeno materiale della Sacra Scrittura intorno ad alcune
verità[53]. Prendeva campo, intanto, uno spostamento d'accento e d'attenzione.
Stapelton, il Bellarmino, lo stesso sant'Ignazio di Loyola, cui si deve
l'espressione "Chiesa gerarchica"[54], avevan fatto scuola: lo spostamento
trasferiva l'attenzione dalla Traditio del passato, che ovviamente nulla perdeva
della sua importanza e normatività, all' attualizzazione di essa in ogni
autentico intervento del Magistero ecclesiastico[55].
b) Lo spostamento di cui sopra portava ad un concetto della Tradizione come
insegnamento del Magistero, anche se per secoli, da sant'Ireneo e Tertulliano in
poi, l'autorità della Chiesa era sempre stata collegata alla
ricezione-trasmissione del dato tradizionale. Il problema d'una
tradizione-soggetto affiorava dalla stessa tradizione-oggetto, ma né il
Tridentino usò la parola Magistero, né il papato, prima di Gregorio XVI e Pio
IX, aveva "esercitato il magistero attivo delle definizioni dogmatiche e della
formulazione costante della dottrina cattolica"[56]. Con F. Kattenbusch[57], Y.
Congar osserva la diversa situazione creatasi al riguardo, tra oriente ed
occidente, quando per l'oriente Tradizione significò presenza normativa dei
primi sette Concili ecumenici; per l'occidente significò pure l'autorità che
riproponeva qui ed ora quella normatività. Il fermento d'idee che metteva a
fuoco lati e sfumature sempre nuove d'un problema antico, era alimentato dai
rispettivi indirizzi di ben note scuole teologiche: il Congar non solo le ha
presenti, ma ne ricerca la genesi storica, l'ispirazione di fondo, le
metodologie e mette a confronto i risultati conseguiti fin alla fase antecedente
il Vaticano II[58]. Dall'accennata diversa situazione derivava, facendosi strada
sempre più decisamente, la distinzione fra traditio passiva (id quod traditur,
il sacro deposito) e traditio activa (quae vel qui tradit, l'autorità che
trasmette il sacro deposito). All'una si riferiva la "teologia positiva delle
fonti", all'altra "la teologia positiva del magistero"[59]. Congar accenna anche
ad una ben nota frase, tante volte equivocata e riferita con accentuazioni
aggravanti o attenuanti, che il beato Pio IX rivolse un giorno al card. Guidi:
"La Tradizione son io"[60]. Che il settarismo abbia usato questa frase a
giustificazione della sua lotta antipïana è un dato di fatto, ma è anche la
dimostrazione lapalissiana della sua ignoranza teologica. Dietro quella frase
c'era sia G. Perrone, sia la Scuola Romana alla quale il Perrone apparteneva e
che personalizzava nel Papa la traditio activa.
Un'ultima osservazione, che Y. Congar riprende da J. Salaverri[61], relativa
al rapporto fra Tradizione e Magistero: secondo il Tridentino, il Magistero ha
nella Tradizione (passiva, o oggettiva) il deposito da custodire, il limite ed
insieme la norma del suo insegnamento. A questo riguardo, con ampia conoscenza
delle fonti e della letteratura specifica, Congar dimostra che il Magistero non
può definire quanto non rientri nel deposito delle verità rivelate (scritte o
oralmente trasmesse), che queste costituiscono la regula regulans fidem
Ecclesiae, che il Magistero è invece la regula regulata dalla Tradizione
stessa[62] e che, pertanto, non ha autorità sul fatto della rivelazione, di cui
può solo custodire ed interpretar i contenuti scritti o orali.
Mi sembra proprio che l'analisi storico-teologica della Tradizione da parte
di Y.M.-Congar ridimensioni abbastanza le segnalate devianze e perfino le riduca
al silenzio. Per breve tempo. Nell'aula del Vaticano II ripresero il sopravvento
e lo stesso Congar vi si trovò coinvolto.
2 - La Fraternità di san Pio X - Si tratta d'un'istituzione talmente legata
al valore della Tradizione, che il tacerne in un'opera come la presente sarebbe
una colpevole "negligenza". La "diligenza" che ne parla, ovviamente, né comporta
né significa lo schierarsi a suo favore. Anche per me essa rimane quello che è e
quale la volle il suo fondatore, il ben noto Vescovo Marcel Lefebvre: una
pubblica contestazione di quasi tutte le innovazioni del Vaticano II, un
inquadramento irriducibile nei ranghi della Tradizione apostolica a difesa di
essa, un'espressione di sensibilità cattolica non solo in netta dissonanza con
la Chiesa cattolica ufficiale, ma da questa, almeno fin ad oggi, dichiarata
priva di giurisdizione e d'ogni riconoscimento giuridico all'interno della
Chiesa.
Così s'espresse il decreto della Congregazione dei Vescovi in data 21 gennaio
2009, con il quale S. S. Benedetto XVI rimosse la scomunica lanciata dal suo
predecessore nel 1988 contro quattro membri della detta Fraternità, ai quali
Mons. Lefebvre aveva conferito la consacrazione episcopale contro la volontà
della Santa Sede.
Così il 4 febbraio del 2009 aveva precisato una nota della Segreteria di
Stato: nessun riconoscimento giuridico.
E così lo stesso Pontefice Benedetto XVI ripeté nella lettera del 10 marzo
2009 ai vescovi della Chiesa cattolica[63], spiegando le ragioni dottrinali che
stanno alla base sia del suo provvedimento di clemenza, sia della situazione
disciplinare che il detto provvedimento non aveva minimamente cambiato. Bisogna
distinguere, diceva il Papa, "il livello disciplinare da quello dottrinale",
poiché da questo dipende se la Fraternità non ha una posizione canonica nella
Chiesa e non può, quindi, legittimamente esercitare nessun ministero
ecclesiastico. In altri termini, perché la Fraternità san Pio X sia a tutti gli
effetti Chiesa cattolica, occorre il ripristino della sua piena comunione con
essa. Se poi la mancanza d'un tale ripristino avesse per effetto il persistere
della Fraternità in quello stato di "scisma" che qualcuno collega con
l'illegittima ordinazione del 1988, allora si potrebbe pensare che tutt'i preti
ordinati dai quattro vescovi ora sollevati dalla scomunica son a loro volta non
scomunicati ma illecitamente ordinati e forse anche sospesi "a divinis". Più
ingarbugliata di così la situazione non potrebb'essere.
2.1 - Una delle ragioni per le quali la situazione è e rimane ingarbugliata
fu messa in evidenza da Giovanni Paolo II nel documento con cui scomunicava
Mons. Lefebvre: il "motuproprio" Ecclesia Dei afflicta che, al § 4, diceva: alla
base di "quest'atto scismatico" sta "una nozione incompleta e contraddittoria di
Tradizione...che non tiene nel debito conto il carattere vivente della
Tradizione"[64]. Dunque, qui il papa stesso parlò di scisma e riportò tutto al
comun denominatore della Tradizione vivente. Il giudizio non poteva esser più
pesante. Né con esso si concorse a far un po' di chiarezza.
Per documentare quale sia il vero concetto di Tradizione al quale S. E. Mons.
Lefebvre legò la sua Fraternità, bisognerà spender qualche breve parola su di
essa. Il suo scopo principale, secondo i suoi statuti del 1970, è la formazione
sacerdotale; non a caso nacque in quell'anno ad Ecône, la località svizzera che
dette il nome al primo e più famoso seminario della Fraternità[65]. I seminari
si son poi moltiplicati in tutt'il mondo e dovunque all'insegna d'un'unica e
medesima linea: "le sacerdoce et tout ce qui s'y rapporte".
Non pochi hanno interpretato codeste parole com'espressione d'integrismo. La
Fraternità, a sua volta, considera "ingiuriosa" una tale interpretazione[66].
Quasi ignorando l'ingiuria, la Fraternità continua l'opera formativa dei suoi
candidati al sacerdozio richiedendone effettivamente l'adesione a tutta la
dottrina e alla prassi liturgica in vigore prima del Vaticano II[67]. Una tale
adesione, se per un verso comporta una costante ed esclusiva dipendenza della
Fraternità san Pio X dalla secolare Tradizione della Chiesa, per un altro è un
no deciso ed irrevocabile alle innovazioni introdotte dal Vaticano II, o in nome
di esso, e giustificate dal loro inquadramento nella tradizione c. d. vivente.
Pertanto, quando papa Giovanni Paolo II contrappone alla tradizione vivente "la
nozione incompleta e contraddittoria di tradizione" della Fraternità san Pio X,
non condanna come anticonciliare soltanto la Fraternità, ma anche la Tradizione
cui essa s'ispira. Il che è già grave. Non meno dello "scisma" lamentato e
condannato. Ma più grave ancora è la voragine scavata all'interno della Chiesa
dalla pretesa d'imporre a tutti un Concilio che non fu e non volle esser
magisteriale e che di fatto, in forma non magisteriale, pose le premesse
d'alcuni sganciamenti dal magistero tradizionale - la cosa solleva non poca
meraviglia, perché in più d'un contesto il Vaticano II dichiara di collegarsi
con la Tradizione di sempre nell'atto stesso di proclamar innovazioni
inconciliabili con tale Tradizione -. Per quanto mi riguarda, son certo che se
si fosse evitata una tale radicalizzazione e si fosse promossa non la
superficiale ed acritica celebrazione del Vaticano II, ma un'approfondita
analisi storica, esegetica, teologica, liturgica, canonica dei suoi documenti,
non ci sarebbero state le divisioni che ci sono state e forse una pattuglia così
compatta com'è la Fraternità san Pio X avrebbe potuto esser un coefficiente di
crescita ecclesiale nella verità e nella comunione. Invece!
2.2 - Invece la voragine è sotto gli occhi di tutti e ci si chiede come
uscirne. Per uscirne, occorre conoscerne le cause. La Tradizione, che i figli di
Lefebvre avrebbero "incompleta e contraddittoria", è una di esse. Cerchiamo di
capirci qualcosa.
Introducendo una nuova edizione degli statuti da lui stesso redatti per la
sua Fraternità, Mons. Lefebvre il 20 marzo 1990 collegò la sua opera, in quanto
"oeuvre de restauration du sacerdoce catholique" e per questo "oeuvre d'Eglise",
ad un disegno della divina Provvidenza "afin de préserver les trésors que
Jésus-Christ a confiés à son Eglise, la foi dans son intégrité, la grâce divine
par son Sacrifice et ses sacrements, et les pasteurs destinés de ces trésors de
vie divine"[68]. Se si tenti d'inglobare le finalità sopra descritte in una sola
parola, l'unica che faccia al caso è "Tradizione".
In effetti, soltanto nella Tradizione l'opera sopra indicata può esser
"un'opera della Chiesa", capace di restaurar "il sacerdozio cattolico" in
conformità al suo statuto ontologico, che una concezione sociologica avrebbe
fatalmente compromesso, e di ripristinare l' "integrità della Fede", le fonti
della grazia - Sacrificio eucaristico e sacramenti - e l'autentico governo della
Chiesa secondo la sua triplice competenza dottrinale, santificatrice e
disciplinare. Una Tradizione, però, capace di codesta triplice finalità si
trova, nel giudizio di Mons. Lefebvre, contraddetta se non anche annullata dal
no oppostole dal Vaticano II e dal postconcilio. Contro un no che s'ammanta di
validità conciliare, l'anziano ma indomito presule formulò a nome di tutta la
sua Fraternità il suo Credo: "Nous adhérons de tout coeur, de toute notre âme à
la Rome catholique, gardienne de la foi catholique et des traditions nécessaires
au maintien de cette foi...Nous refusons par contre...de suivre la Rome de
tendence néo-moderniste et néo-protestante qui s'est manifestée clairement dans
le concile Vatican II et après le concile dans les réformes qui en sont
issues"[69].
Evidente, in questo giudizio, il contrapporsi di due "Rome": quella
cattolica
e quella neomodernista e neoprotestante. Chiedo: perché neomodernista e
neoprotestante? La risposta rimbalza immediata di libro in libro e di
dichiarazione in dichiarazione: perché l'autentico volto della Chiesa di Cristo
è stato sfigurato da un "grande tradimento": la resa a discrezione nelle mani
del liberalismo tante volte condannato ed ora purtroppo impalmato in un
diabolico connubio.
Non è la prima volta che si sente parlare di cattolicesimo liberale; tutta la
seconda metà del diciannovesimo secolo n'è piena. Oggi, il connubio fra il
diavolo e l'acqua santa s'è rinnovato. A dispetto di tutta la Tradizione, nel
giudizio della Fraternità, Concilio e postconcilio avrebbero snaturato l'in-sé
della Rivelazione cristiana e della Chiesa che l'ha in custodia, integrando
l'una e l'altra nella realtà mondana, nella sua cultura, nelle sue lotte, nelle
sue aspirazioni, nelle sue conquiste. In breve: facendone un'espressione
dell'ideale liberale[70]. Lefebvre n'era amaramente convinto. E' pertanto
opportuno che ci si chieda che cosa intendesse per liberalismo.
a) Un papa su tutti s'impone come una diga contro il dilagare limaccioso e
mortifero dell'idea liberale: il beato Pio IX. Discorsi occasionali, encicliche,
Sillabo: è un discorso univoco, nell'intento di bloccare l' "onda anomala" del
liberalismo cattolico, dal quale Pio IX vede travolti anche i buoni, ammaliati
ormai da un fascinoso ideale d'indipendenza, di progresso e di civiltà che
troverebbe un ostacolo insormontabile nella Tradizione della Chiesa. Una tale
Tradizione sarebbe, infatti, fissismo assoluto, intolleranza e confusione
intellettuale, là dove il liberalismo cattolico sarebbe esattamente il
contrario: apertura ideologica, tolleranza e libertà religiosa, compresenza
d'idee e di fedi. Se entro certi limiti, naturali e soprannaturali, il
riconoscimento d'alcuni diritti alle minoranze politico-religiose è un dovere di
coscienza, di carità e di prudenza, il porsi in qualunque modo contro la
prospettiva evangelica dell'universale salvezza (At 13,47), il rifiuto
teorico-pratico dell' "unum ovile et unus pastor" (Gv 10,16) dà ragione a chi
definì il liberalismo un peccato[71] con stravolgimento dell'ordine delle cose,
dei concetti, della verità: di quella naturale e di quella soprannaturale.
Considerato nel cattolico, il liberalismo assume, a detta di L. Billot, "una
sola nota caratteristica: quella della perfetta ed assoluta incoerenza"[72].
b) Mons. Lefebvre individua una tale incoerenza nel mancato rispetto della
Tradizione, al cui posto il cattolico liberale pone la filosofia relativista
della mobilità e del divenire, il soggettivismo o indipendenza dell'intelligenza
dal suo oggetto, della volontà dall'intelligenza, della coscienza dalla legge,
dell'anarchismo dal primato della ragione, del corpo dall'anima, del presente
dal passato, dell'individuo dalla società, "d'ou le mépris de la tradition"[73].
Sul piano soprannaturale, poi, Lefebvre rileva che il liberalismo oppone alla
Fede, alla scienza della Fede, al Magistero e alla sua Tradizione il
razionalismo, il naturalismo, il laicismo e l'indifferentismo[74]; e che, tutto
giustificando come fedeltà allo "spirito" del Vaticano II, o più esattamente
alla sua ispirazione pastorale, il liberalismo gli sacrifica lo "spirito
missionario", affogandolo nel "mare magnum" della ricerca e del dialogo,
esaltando i valori delle altre religioni e consegnandosi praticamente al
deprecato sincretismo religioso[75]. Infine, per dimostrare quanto lo "spirito"
del Concilio si sia allontanato dalla vera e duratura Tradizione, mette a
confronto alcuni enunciati che s'elidon a vicenda, traendoli dalla Quanta cura
del beato Pio IX e dai documenti del Vaticano II: dov'era risuonato il no del
preveggente Pio IX risuona oggi il si dei documenti conciliari. Lo stridore
delle due antitetiche posizioni è tale che perfino un Congar l'avvertì e ne
tentò maldestramente la composizione[76]; qualcun altro, nella riconciliazione
della Chiesa col mondo e coi diritti dell'uomo proclamati dalla rivoluzione
francese, vide addirittura un "Antisillabo"[77].
c) Tentando ora una sintesi delle posizioni difese dall'Ecc.mo Mons. Lefebvre
a favore della Tradizione, e senz'alcuna pretesa d'esaurirne il discorso, a me
pare che l'urto si stabilisca tra:
- una formazione sacerdotale che affonda i suoi principi nella Tradizione
ecclesiastica e nei valori soprannaturali della divina Rivelazione; ed una
formazione sacerdotale aperta al cangiante orizzonte della cultura in perenne
divenire;
- una liturgia che ha certamente un punto di forza nella c. d. Messa
tradizionale, passando però dalla Messa alla dottrina e da questa alla
riaffermazione della regalità sociale di N. S. Gesù Cristo; ed una liturgia
antropocentrica e sociologica, dove il collettivo prevale sul valore del
singolo, la preghiera ignora il momento latreutico, l'assemblea diventa l'attore
principale e Dio cede il posto all'uomo;
- una libertà che ripete la sua "liberazione" dal decalogo, dai precetti
della Chiesa, dagli obblighi del proprio stato, e che non può sottrarsi al
dovere di conoscere amare servire Dio; ed una libertà che omologa i culti, mette
il silenziatore alla legge di Dio, disimpegna i singoli e la società sul piano
etico e religioso e lascia alla sola coscienza la soluzione di tutt'i problemi;
- una teologia che attinge i suoi contenuti dalle sue fonti specifiche (la
Rivelazione-la Tradizione-il Magistero-la patristica-la liturgia); ed una
teologia che apre i suoi battenti, un giorno sì e l'altro pure, a tutte le
emergenze culturali del momento, anche a quelle in stridente antitesi con le
fonti predette, in una spasmodica autoriforma che lasci spazio al pluralismo
degl'influssi filosofici, conformandosi ora a questo ora a quello;
- una soteriologia strettamente collegata con la persona e l'opera redentrice
del Verbo incarnato, l'azione dello Spirito Santo applicativa dei meriti del
Redentore, l'intervento sacramentale della Chiesa e la cooperazione dei singoli
battezzati; ed una soteriologia che guarda all'unità del genere umano come
conseguenza dell'incarnazione del Verbo, nel quale (cf GS 22) ogni uomo trova la
sua stessa identificazione;
- un'ecclesiologia che identifica la Chiesa nel Corpo mistico di Cristo e
riconosce nella presenza sacramentale di Lui il segreto vitale dell'essere e
dell'agire ecclesiale, del suo ringiovanirsi nel trascorrere del tempo, del suo
irrobustirsi anche a fronte delle più cruente persecuzioni, del suo unificarsi
nonostante gli scismi e le defezioni, della sua santità santificatrice
nonostante il peccato dei suoi figli; ed un'ecclesiologia che considera la
Chiesa cattolica come una componente della Chiesa di Cristo, unitamente ad altre
componenti, che in questa fantomatica Chiesa di Cristo addormenta lo spirito
missionario, dialoga ma non evangelizza e soprattutto rinunzia al proselitismo
come se fosse un peccato mortale;
- una Messa-sacrificio espiatorio, che celebra il mistero della passione
morte e risurrezione di Cristo ri-presentandone sacramentalmente la redenzione
satisfattoria; ed una Messa dove il prete è solo presidente ed ognuno è parte
"attiva" del sacramento, grazie al fatto che la fede non si fonda su Dio che si
rivela, ma è una risposta esistenziale a Dio che c'interpella;
- un Magistero consapevole d'aver in custodia il sacro deposito della
Rivelazione divina con il compito d'interpretarla e di trasmetterla alle
generazioni venture mediante il Concilio Ecumenico e il successore di Pietro,
vertice e sintesi d'ogni istanza ecclesiale, nonché i successori degli apostoli,
purché legittimi ed in comunione col Romano Pontefice; ed un Magistero papale
che, lungi dal sentirsi voce della Chiesa docente, sottopone la Chiesa stessa al
collegio dei vescovi, dotato degli stessi diritti e doveri del Romano Pontefice;
- una religiosità che attua la vocazione comune al servizio di Dio e, per
amore di Lui, dei fratelli in umanità; ed una religiosità che sovverte
quest'ordinamento naturale, fa dell'uomo il suo "focus" e, almeno nella pratica
se non nella teoria, lo sostituisce a Dio.
2.3 - Da quanto precede si desume facilmente come la Fraternità san Pio X
intenda la Tradizione. Tradizione, infatti, è tutto il contrario di ciò che la
Fraternità nega e di ciò cui s'oppone. Direttamente o tra le righe, nega le
innovazioni dei documenti conciliari e s'oppone all'uso disinvoltamente
selvaggio che n'è stato fatto.
E' vero, negli scritti della Fraternità San Pio X non figuran frequenti
esplicitazioni del concetto di Tradizione, né una sua trattazione sistematica.
Ma che cosa essa intenda e che cosa auspichi non resta mai nell'ombra. Alla base
di tutto sta "la foi de toujours" a salvaguardia della quale la Fraternità è
sorta. Salvaguardia indica opposizione a qualcosa, presente o possibile, a
favore del suo contrario o in alternativa ad esso. La "fede di sempre" è il
valore che S. E. Mons. Marcel Lefebvre intese salvaguardare. Un valore
alternativo a tutte le sue attenuazioni, reinterpretrazioni, riduzioni e
negazioni dell'epoca conciliare e postconciliare. C'è, in quella "fede di
sempre", l'eco ben chiara dell'insegnamento agostiniano nella forma del
Lerinense: "quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est".
L'istituzione stessa della Fraternità, con la sua finalità primaria della
formazione sacerdotale, obbediva all'ideale e all'impegno dell'accennata
salvaguardia. Salvaguardare la fede e combattere l'errore.
Non entro nei particolari delle non facili relazioni tra Santa Sede e
Fraternità san Pio X: m'attengo al tema comune della Tradizione ed osservo che
"salvaguardare la fede e combattere l'errore" dovrebb'esser l'ideale e l'impegno
sia della Chiesa, sia d'ogni suo figlio. Alla luce di ciò, mi resta difficile
capire se il già citato rimprovero di "Tradizione incompleta e contraddittoria"
abbia un reale fondamento. Una cosa mi par di capire: non si fonda sullo
"spirito d'Assisi".
3 - La Tradizione vivente - Era questa la ragione addotta a conferma
dell'incompletezza e della contraddittorietà rilevate nell'idea di Tradizione
della Fraternità san Pio X ed a questa rimproverate: "...non tiene
sufficientemente conto del carattere vivente della Tradizione"[78]. In che cosa
consista questo "carattere vivente", lo dice - non cartesianamente - ogni
moderno teologo: la Tradizione è vivente se, ad ogni epoca, trasmette "l'oggetto
della fede biblica[79] in forma nuova e adeguata alla situazione storica e
culturale; solo attraverso di essa è possibile un sempre nuovo esser
interpellati e raggiunti da questo oggetto e, in tal modo (è possibile) anche un
effettivo comprendere il suo significato definitivo"[80]. Degno di nota è che
ogni "forma nuova" dipende non da una determinazione normativa dell'autorità
ecclesiastica, ma da "un processo assai laborioso di riflessione e di
ricezione", a prescindere dal quale si ricadrebbe in una tradizione pietrificata
e morta[81]. Degno di nota è pure il fatto che "vivente" dev'esser detta la
Tradizione non se nella sua attuale realtà è vivo e vitale il suo contenuto di
sempre, sia pur espresso in forme nuove, più esplicite e più comprensibili, ma
se questa sua attuale realtà è capace di far nascere dal vecchio tronco virgulti
sempre nuovi, perfettamente in linea con tutte le piante del moderno giardino
filosofico-progressista e costantemente annaffiati dalla rugiada del più
radicale e coerente razionalismo illuministico.
3.1 - Per oltre dieci secoli la teologia della Tradizione, ch'era passata
attraverso il vaglio dei vari Sant'Ireneo, Tertulliano e sant'Agostino ed era
stata per così dire codificata da san Vincenzo da Lérins nelle sue rigide
formule, aveva sorretto il lavoro di rifinitura di Padri, Pontefici, teologi e
canonisti[82]. L'evo moderno cambiò la sensibilità e la criteriologia teologica.
Quel che prima s'imponeva alla Chiesa stessa come Rivelazione divina delle
verità salutari, da lei stessa ufficialmente trasmessa e garantita dalla
successione apostolica, ora ha valore in base al suo stesso intervento. E' il
valore che deriva non solo dal livello - il vertice massimo - della suprema
autorità, ma anche dall'assistenza dello Spirito Santo, da Cristo promessa,
affinché definendo o proponendo una verità, la Chiesa sia immune da errore.
Prima la Tradizione era accolta perché proveniente dal Signore Gesù (traditio
dominica) o dagli apostoli ed immediati successori (traditio apostolica); ora è
la Chiesa a riconoscer o meno l'accennata provenienza, immedesimandosi nella
Tradizione in quanto tale, precisandone la natura come canale di trasmissione e
dichiarandone validità e limiti. Insensibilmente ma progressivamente il concetto
di Tradizione si dilatò ed arricchì il suo spettro semantico: non più soltanto
una Tradizione di verità da credere e di norme da rispettar in vista dell'eterna
salvezza (traditio passiva vel obiectiva), ma anche una Tradizione come proposta
(traditio activa). Nell'epoca posttridentina, anche se il Tridentino mai aveva
esplicitamente parlato di Magistero, si ha già una prima omologazione di esso e
della Tradizione[83]. Ed in epoca a noi più vicina, vent'anni prima del Vaticano
II, un ancor giovane P. Parente scrisse senza la minima esitazione: "C'è da
deplorare...la strana identificazione della Tradizione (fonte della Rivelazione)
col Magistero vivo della Chiesa (custode ed interprete della divina
parola")[84]. Peccato che poi, da Padre conciliare, si sia dimenticato di questo
precedente ed abbia attivamente partecipato alla "reductio ad unum" della DV.
Una tale "reductio" non era un procedimento gratuito. Dietro di sé aveva
quella "nuova autoconsapevolezza ecclesiale" che nasceva dalla considerazione
della Chiesa come "unità del genere umano". Tutto apparteneva alla vita della
Chiesa. Tutto ne era un vitale elemento. Ritornava in piena era conciliare quel
soffio romantico che aveva distinto l'ecclesiologia di Möhler. La Tradizione non
poteva che diventare vivente.
3.2 - La paternità dell'espressione non appartien al Vaticano II. E forse una
sua individuazione apodittica sfugge anche al più rigoroso ricercatore. Certo è
che l'aggettivo "vivus" non è assente dalla patristica; la qual cosa non
necessariamente riguarda il problema della Tradizione. E non tutte le volte ch'è
assente, la "vitalità" latita. Quando sant'Agostino scrive: "Hoc Ecclesiae
semper habuit, semper tenuit; hoc a maiorum fide percepit; hoc usque in finem
perseveranter custodit"[85], non c'è dubbio che volge la propria e l'altrui
attenzione alla vitalità della Chiesa, della sua fede ed alla proposta che della
fede ella farà sin alla fine del mondo, anche se è altrettanto indubbia la
reticenza dell'aggettivo vivente. La ragione è che la Chiesa non solo è
viva
perché è mistericamente Cristo, ma proprio in quanto tale non può comunicare che
vita, comunicando Cristo.
Di "viva traditio" si parlò frequentemente in ambito cattolico, a correzione
del principio scritturistico protestante. In realtà, il "sola Scriptura" fu,
attraverso il principio dell' "et/et", integrato da "evangelium vivum" e da
"vivum verbum" e quando il dibattito privilegiò il tema della "regula fidei", i
cattolici qualificaron "non animata" la regola protestante ed "animata" quella
cattolica[86]. Il modulo verbale combiava, non il significato. Insomma, di
Chiesa viva, di vivo Magistero ed evangelo vivo e Tradizione ugualmente
viva, in
un modo o nell'altro s'è sempre parlato. E che Scrittura e Tradizione sian non
due parallele sulle quali corre la Rivelazione cristiana, bensì due
sfaccettature d'un'unica realtà, formalmente diverse ma sostanzialmente
confluenti, l'una e l'altra, nell'unità d'una medesima funzione, non fu il
Vaticano II a dirlo per primo. Il grande J. Möhler sapeva bene che Sant'Ireneo
aveva formalmente riconosciuto la Tradizione nel "complesso della dottrina
ecclesiastica tramandata indipendentemente dalla Scrittura". Ma guardando più
profondamente nella sua realtà, costatò "che la tradizione non è separata dalla
linea dell'evangelo vivente nei fedeli...Né l'uso linguistico, né
l'approfondimento della realtà stessa può giustificare l'opinione di coloro che
presentan la tradizione come qualcosa a sé stante, indipendente dalla santa vita
della Chiesa,...(e) non come una realtà quasi fluente dall'animo, dominato dallo
Spirito"[87]. Anzi, proprio il richiamo allo Spirito Santo rende più chiara la
nozione möhleriana di tradizione vivente. Come "il cristianesimo viveva
nell'anima del Signore - e nell'anima dei suoi apostoli ripieni di Spirito Santo
- ancor prima di diventare concetto, discorso, lettera", così avviene per la
Chiesa santa e per ognuno dei suoi membri: "prima della lettera vi è lo Spirito
e chi ha lo Spirito vivificante comprenderà senz'altro la lettera che ne è
l'espressione".
E' qui evidente che lo Spirito, più e prima della lettera o del discorso, è
la tradizione vivente. Ne consegue pure ch'essa vive nella Chiesa e nei suoi
figli come riflesso della vivificante presenza dello Spirito. In effetti,
"quello Spirito che riempiva gli apostoli è proprio lo stesso Spirito che
riempirà in eterno la Chiesa; e solo chi da questa lo riceverà, potrà
riconoscerlo nell'insegnamento"[88] che la Chiesa, piena di Spirito Santo e dal
medesimo Spirito guidata, diffonde in ogni dove ed in ogni tempo.
Il "partim/partim" che già il Tridentino aveva parzialmente superato
accostando insieme l'insegnamento scritto ed orale, nella prospettiva
möhleriana, signoreggiata dallo Spirito, non ha più ragion d'essere: si è sempre
dinanzi all'azione del medesimo Spirito, che trasmette alla Chiesa l'unica e
sempre invariabile verità che salva. Non si può tacere, peraltro, il pericolo
insito in una tale prospettiva, che sembra annegar il compito della Chiesa
docente nei gorghi d'un vago spiritualismo soprannaturalistico. Pochi anni dopo,
il Möhler della Symbolik corresse il Möhler dell'Einheit[89]. Fece, sì, ricorso
al "Volksgeist" di provenienza idealistica, ma per riconoscerlo come Spirito
Santo che, nelle operazioni "ad extra" e secondo l'economia generale della
salvezza, rispetta la legge per la quale lo spirituale passa attraverso il
materiale, l'interiore attraverso l'esteriore. In armonia a tale legge, concepì
la Chiesa istituita da Cristo e governata dallo Spirito Santo coma una
"compenetrazione (Durchdringung) di divino e d'umano", "maestra ed educatrice"
mediante il tesoro di verità e l'alto insegnamento della "Tradizione", supremo
"giudice nelle cose di Fede", il quale, nell'emetter una sentenza sul contenuto
del suddetto tesoro, "interpreta in pari tempo Scrittura e Tradizione". Stante
codesta qualità di supremo giudice in materia di Fede, il Magistero è
"formalmente distinto" - dichiara con fermezza J. Möhler - dall'oggetto del suo
insegnamento, dalla Tradizione cioè scritta ed orale. La sua attività, infatti,
obbedisce esclusivamente alla comunione di tutt'il corpo ecclesiale, della quale
lo Spirito Santo è l'unico principio e per la quale tanto il supremo giudice
quanto i singoli fedeli "comunicano con lo spirito e col cuore di tutti"[90].
3.3 - L'insistenza sulla presenza dell'aggettivo vivente o del relativo
concetto ancor prima dell'odierna infatuazione per Tradizione vivente, potrebbe
trarre qualcuno in inganno: a tutto potevo pensare tranne che al solito "nihil
sub sole novum" (Cohelet 1,9). Ad un certo momento, infatti, nell'uso di vivente entran motivazioni effettivamente nuove ed il significato cambia. Ne ho parlato,
appunto, non tanto perché l'aggettivo già da tempo accompagnava il riferimento
ad evangelo, magistero. chiesa, tradizione, quanto perché il senso allora
datogli divergeva da quello oggi largamente in uso. Oggi, ma non di oggi.
Il cambiamento s'iniziò assai presto. Già prima del Möhler, ossia nella
"turbinosa Europa teologica"[91] del Fénelon e del Bossuet. Fu soprattutto il
primo che, influendo col suo quietismo sulla mistica romantica di Madame Guyon,
vide nella tradizione vivente il valore che tutela l'equilibrio fra libertà e
sicurezza comune, impresse nei cuori dei popoli. Il romanticismo tedesco,
intanto, aveva chiaramente superato ogn'individualismo a favore della concezione
organica della società e della Chiesa: un organismo vivente per ricondurre unità
nella diversità e nella molteplicità. Da posizioni nettamente diverse, i maestri
che dettero vita alla "Scuola di Tubinga" si ritrovaron più o meno d'accordo col
Fénelon. E proprio alla detta Scuola va ascritto l'uso "moderno" di Tradizione
vivente. Per il suo fondatore, J. M. Sailer († 1832) la Chiesa non è altro che
una vivente mediazione fra cristianesimo interiore e comunità. La Tradizione
vivente - specifica connotazione della teologia francese nel XVII e XVIII sec. -
è l'idea-guida verso un concetto di Chiesa, che alla parola vivente degli
apostoli dà un'efficacia sempre nuova e sempre più attuale[92].
Una sempre più decisa sterzata in tal senso venne impressa alla "Scuola di
Tubinga", e precisamente alla sua facoltà di teologia fin da quando vi fu
trasferita, nel 1817, da J. S. Drey († 1853). La sua idea di fondo si collega al
piano organico del Creatore ed al suo incessante sviluppo nel tempo, grazie ad
una forza immanente continua e necessaria, la forza dello Spirito Santo, che
riflette l'organicità del piano divino nell'organicità della Chiesa che lo
compie. Da una tale idea di fondo dipende la ragione per la quale la Chiesa va
concepita come un organismo vivente, dinamico, guidato e governato dallo Spirito
Santo, sempre presente in esso e sempre all'opera, per farne un'espressione viva
e vitale del Regno di Dio, l'organo della sua Rivelazione, l'imperituro canale
del dato rivelato. Drey ricorre, per illustrare la sua forte accentuazione del
valore vita, ad un'analogia: avviene nella Chiesa ciò che si verifica nella
pianta, una crescita silenziosa, misteriosa, quasi impercettibile[93]. E su di
essa, dopo che Sailer e Drey vi posaron il proprio sguardo indagatore, si
svilupparon le fortune della "Scuola di Tubinga" e del suo metodo teologico,
sempre legato al concetto di Tradizione vivente. Quelli che sopra ho chiamato
Maestri son nomi che i teologi conoscon bene: del grandissimo J. A. Möhler s'è
già detto qualcosa; qualcosa m'accingo a dir pure di altri.
Continuatori ed epigoni della detta Scuola, della sua opposizione al
razionalismo e deismo imperanti nel sec. XVIII, dettero alla Chiesa i connotati
d'una comunità di vita (Lebensgemeinschaft): d'una vita, intendo, dipendente da
due fonti e da esse alimentata: la grazia, di cui il principio è lo Spirito
Santo, e la verità rivelata, di cui il canale è la Tradizione vivente. Subì
l'influsso di Sailer J.B. Hirscher: rifiutando lo sterile annaspare della
scolastica nel XVIII sec., il ben noto moralista di Tubinga e di Friburgo
orientò ogni suo sforzo nella direzione della Chiesa come organismo vivente: a)
Regno di Dio realizzato nel tempo dalla storia della salvezza e dalle sue tre
tappe, distinte ma confluenti escatologicamente nella vita eterna; e b)
institutum salutis in quanto corpo mistico di Cristo che continua nel tempo e
nello spazio l'opera salvifica di Cristo.[94]
Anche F. A. Staudenmaier[95], un alunno dei grandi Maestri tubinghesi,
raggiunse sul piano liturgico lo stesso risultato che altri avevan raggiunto sul
piano storico-dogmatico: un'adesione, cioè, alle idee möhleriane sulla
Tradizione vivente, concorrendo egli pure al superamento in teologia del
positivismo e del liberalismo. Con lui altri pure dovrebbero esser qui recensiti
(J. G. Herbst, J. Kuhn, F. Probst, P. B. Gams, F. X. Funk, P. Schanz)[96], se
l'elenco potesse contenersi in poche righe. E' sufficiente dire che la "Scuola
di Tubinga" raggiunse i fastigi della più alata notorietà sia per il suo metodo
rigorosamente scientifico, sia per i contenuti teologici difesi e diffusi, fra i
quali spicca la Tradizione vivente.
3.4 - Un'altra scuola, con orientamento filosofico e teologico nettamente
diverso e con una linea metodologica che, congiungendo armonicamente l'indirizzo
positivo e speculativo con le esigenze irrinunciabili della Tradizione, del
Magistero e del lavoro scientifico, destituiva di fondamento la già serpeggiante
accusa di conservatorismo, s'era intanto imposta all'attenzione comune. E' la
"Scuola Romana", come la si definisce comunemente dopo che H. Schauf ne parlò in
tal senso[97].
Attuando la potenzialità di prodromi già in atto da tempo, la "Scuola Romana"
nacque in pieno XIX sec. e raccolse intorno a sé i gesuiti del Collegio Romano,
nonché altre eminenti personalità del clero secolare e regolare che operavan
all'Apollinare, a Propaganda Fide, alla Minerva ed in altri centri, anche al di
fuori dell'Urbe[98]. I suoi meriti, indubbi, non incontraron il plauso della
critica. Alcuni per ragioni e pregiudizi personali (p. es. J. Döllinger, J.
Friedrich, A. Rosmini), altri per una cieca e forse preconcetta opposizione
critica, soprattutto in direzione antitomista o anticuriale, la dipinsero con i
chiaroscuri d'una semplice ripetizione di dati magisteriali, priva d'effettivi
apporti scientifici ed eccessivamente dedita a preoccupazioni apologetiche[99].
Non potendo né volendo in questa sede parlar di tutt'i suoi rappresentanti, mi
limito a qualcuno di essi e sempre nella prospettiva della Tradizione
ecclesiastica.
G. Perrone (1794-1876)[100], della cui originalità e profondità non sembra
convinto Y. M.-J. Congar[101], accolse e sviluppò l'idea möhleriana della Chiesa
come continuazione sacramentale dell'incarnazione del Verbo, parlandone
ovviamente in termini analogici. Collegandosi ai "loci theologici" di M. Cano,
vide nella Chiesa e nel suo Magistero il "locus theologicus" o principio
trasmissivo della Fede non tanto in senso oggettivo, quanto come soggetto della
trasmissione stessa, e quindi come "regula fidei". Sotto questo profilo, il suo
concetto di Tradizione assorbì, fin a confondersi con esso, il Magistero vivente
della Chiesa. Un siffatto assorbimento - di per sé criticabile - dava al Perrone
la garanzia teologica della Tradizione, testimoniandola come fenomeno vivo della
Chiesa. Per questi motivi, definì la Chiesa come un sistema d'autorità,
divinamente infallibile, l'unico da Dio voluto e stabilito per la conoscenza
della verità salutare, e condivise con Möhler l'idea d'una Tradizione vivente
nel Cristo continuato e nella Chiesa che lo continua[102].
Ad un alunno del Perrone, Carlo Passaglia (1812-1887)[103], spetta la palma
del più qualificato e dotato rappresentante della "Scuola Romana". Se per gli
spiriti c. d. illuminati i suoi scritti sull'autorità della Chiesa e del Papa di
fronte all'assolutismo di stato ed al liberalismo sociologico posson apparire
datati e quindi non pienamente in linea con le grandi acquisizioni
contemporanee, nessuno dovrebbe permettersi di guardare dall'alto in basso la
sua idea ineccepibile di Tradizione vivente, alla quale rimase sostanzialmente
fedele anche dopo la sua rottura con le autorità romane (1861). Si può ben dire
ch'egli usò l'aggettivo vivente in relazione alla vita stessa della Chiesa,
distinguendo Tradizione e Magistero che Perrone aveva invece unificato, e
sottolineando l'eredità möhleriana e la sua continuità con essa con un'apertura
significativa della Tradizione vivente tanto al Magistero che l'ebbe per
disposizione divina in custodia, quanto alla comunità guidata dall'attuosa
presenza dello Spirito Santo[104].
Ad un attivo teologo del Vaticano I, Clemens Schrader (1820-1875)[105], che
non fu certamente l'ultimo della "Scuola Romana", non si può disconoscer il
merito d'aver concorso al concetto di Tradizione vivente soprattutto con
De Unitate Romana, che già nel titolo lega a Roma e al titolare della sua sede,
come alla sua "conditio sine qua non", il perenne permanere della Chiesa nella
sua inscindibile unità. Fu questa, ed è, l'autocoscienza che accompagna
l'incedere della Chiesa nella storia fin dai suoi inizi: quella del Romano
Pontefice come il principio dell'unità ed il criterio della fede cattolica[106].
Il teologo più d'ogni altro meritevole di menzione, specie per l'argomento
che c'interessa, risponde al nome di G. B. Franzelin (1816-1886)[107] che ebbe
come maestri Perrone e Passaglia. Fa testo il suo trattato sulla Tradizione e
non solo quello. Per lui, un intreccio di parola ed eventi e d' eventi che spiegan la
parola, son alla base della Rivelazione. L'evento nel quale la parola
s'identifica è l'incarnazione del Verbo: una concrezione di parole e di fatti.
Poiché il Verbo rivive nella Chiesa, questa pure è insieme parola ed evento: non
solo una proclamazione delle verità rivelate, ma anche di sé come segno che
indica e che garantisce l'avvenuta Rivelazione. La Tradizione, pertanto, è la
stessa attività magisteriale della Chiesa attraverso il suo corpo docente
(Perrone), mai disgiunto dall'autocoscienza di Fede della comunità cristiana
(Passaglia). E' la Chiesa in quanto parola ed evento di salvezza, non nel senso
che si confonda con l'incarnazione del Verbo, bensì in quello d'una sua
re-praesentatio - come noi oggi diremmo - sacramentalis[108].
Un errore nel quale comunemente s'incorre è quello di bloccare sul Collegio
Romano l'attenzione storico-critica alla "Scuola Romana", come se ad essa non
appartenessero che i professori gesuiti di quel Collegio e poi della Gregoriana.
La realtà è un'altra. Alla "Scuola Romana" appartengono teologi del calibro di
M. J. Scheeben, che non insegnò mai a Roma, ma che a Roma aveva ascoltato
Liberatore, Perrone, Cercia, Ballerini, Kleutgen, Franzelin e Passaglia. Le
appartengon, inoltre, ed alcuni con il ruolo d'iniziatori almeno remoti,
ecclesiastici insigni che concorsero a farla grande e gloriosa. Forse sarà
opportuno non dimenticare che alla richiesta tridentina d'incrementare
l'attività didattica avevan dato immediata risposta, insieme con i gesuiti,
anche somaschi, barnabiti e scolopi. Altrettanto era avvenuto nel XVII-XVIII
sec., quando teologi come R. C. Billuart e V. L. Gotti, religiosi come i
benedettini di Salzburg ed i gesuiti di Würzburg, e santi come Alfonso de'
Liguori promossero un vero progresso teologico sul piano speculativo e
positivo[109]. L'insegnamento appartiene infatti alla Chiesa e non ad una sua
istituzione, sia pure altamente benemerita. Fu proprio ciò che si verificò con
la "Scuola Romana", nell'atmosfera dell' "Aeterni Patris" di Leone XIII. I suoi
precursori s'individuano nel gruppo napoletano dei M. Liberatore (1810-1892) G.
Sanseverino (1811-1865), N. Signoriello (1820-1889) e soprattutto S. Talamo
(1844-1932), con altri non meno illustri. Ad essi devon aggiungersi due grandi
domenicani, T. Zigliara (1833-1983) e Z. González (1831-1894)[110].
Nel 1773, per la soppressione dei gesuiti, l'insegnamento di filosofia e
teologia passò al clero secolare con sede presso sant'Apollinare. Così
praticamente nacque l'Ateneo Lateranense, col quale, nel 1853, il beato Pio IX
mise in stretto collegamento il "Seminario Pio" da lui stesso fondato[111] .
Pertanto, unitamente ai valorosi gesuiti della "Scuola Romana", di cui sopra
s'è fatto qualche nome, altri personaggi, non men importanti, d'altre famiglie
religiose o del clero secolare, operaron all'interno della medesima Scuola.
Primeggia, tra costoro, S. Talamo (1854-1932), chiamato da Leone XIII
all'Apollinare e da lui nomimnato segretario dell'Accademia Romana di san
Tommaso[112]. Con lui, il domenicano A. Lepidi (1838-1922), restauratore degli
studi ecclesiastici in Francia e docente a Lovanio, poi rettore del collegio
"San Tommaso" a Roma e titolare della cattedra di teologia dogmatica. Dal 1897
fin alla morte, fu pure Maestro del Palazzo Apostolico[113]. Alunno di
Gioacchino Pecci a Perugia e poi collaboratore di lui, divenuto Leone XIII, fu
F. Satolli (1839-1915), professore di dogmatica all'Apollinare e a Propaganda
Fide e nel 1895 cardinale; fedele interprete del tomismo in filosofia e
teologia, è considerato una gloria della "Scuola Romana"[114]. Ancor un nome,
quello dell'illustre stimmatino R. Tabarelli (1851-1909), che insegnò filosofia
e teologia dogmatica all'Apollinare ed all'Accademia di san Tommaso d'Aquino,
opponendo l'Aquinate al pericolo modernista e destituendo efficacemente d'ogni
fondamento l'ontologismo, il positivismo e il razionalismo[115]. Non per motivi
di completezza, impossibile in questa sede, ma di giustizia, desidero ricordar
alcuni grandi maestri, coi quali io stesso fui in rapporti di discepolato, di
collaborazione e d'amicizia: C. Fabro (1911-1995) giustamente in prima linea,
perché di tutti il più grande; il card. P. Parente (1891-1986), insigne
dogmatico di Propaganda Fide e della Lateranense; A. Piolanti (1911-2001),
colonna della Lateranense come professore e come rettore, nonché rinomatissimo
professore di Propaganda Fide, cultore indefesso dell'Angelico e promotore
d'iniziative a raggio universale, come i Congressi Internazionali su san Tommaso
d'Aquino e varie riviste d'altissima levatura storico-teologica. Collegate,
infine, con la "Scuola Romana" sono pure due Accademie che operarono nel quadro
dei suoi interessi: la Teologica Romana e quella di san Tommaso.
Da modesto continuatore di sì insigne Scuola, ne ho segnalato per sommi capi
alcuni Maestri non perché "laudator temporis acti", ma perché essa stessa, con
il suo orientamento dichiaratamente tomista e la sua fedele adesione al
Magistero ecclesiastico, è come un faro che illustra della sua luce tutta la
storia della Tradizione e ne mette in risalto la perenne vitalità.
3.5 - Quest'ultima parola mi ricorda l'interesse del presente paragrafo per
la Tradizione vivente. Fin a qui, l'aggettivo vivente ha messo in evidenza un
dato positivo ed innegabile della vera Tradizione; potrei dire ch'essa è vera
solo se vivente ed in tanto vivente in quanto vera. Strada facendo, ho peraltro
ricordato che troppo frequentemente, dal Vaticano II in poi, ci s'appella alla
Tradizione vivente, dandole significati ben diversi da quelli per i quali essa è
veramente viva. Ho anche spiegato l'attuale concetto di Tradizione vivente: tale
essa è a condizione che il Magistero di sempre s'apra agli apporti del presente,
li assimili e li riproponga non solo come non antitetici rispetto alla
Tradizione delle origini, ma come suo attuale sviluppo, espresso ovviamente nei
termini che qui ed ora son più accessibili, anche se sostanzialmente diversi e
perfino contrari rispetto a quelli originari.
Ho fatto anche i nomi di coloro che sono stati, nella nostra epoca, gli
artefici del sostanziale passaggio da un concetto di vivente ad un altro: un
passaggio esiziale, portatore di morte. Rahner, Schillebeeckx, Küng: i capi
indiscussi. E poi la fungaia degli orecchianti e la mai soddisfatta Teologia
della liberazione.
Progressivamente si son assimilati in campo teologico, ma anche esegetico e
storico, principi e pensieri che, in origine o di per sé, nulla presentan
d'eccepibile[116], ma che in seguito, "sensim" e certamente non "sine sensu" s'introducon
nel vocabolario teologico, lasciandovi non solo il segno, ma anche il peso della
loro mortifera presenza, fin a stravolger il significato orginario della
Rivelazione e del dogma. Si parte sempre dall'ovvio: gli errori contro la Fede o
gl'interrogativi ad essa nascon in un determinato ambiente storico, di cui chi
risponde non può non tener conto. Il tenerne conto ha per effetto - com'è spesso
accaduto prima e dopo il Vaticano II - che le idee e gli strumenti offerti dalla
cultura del tempo, e specialmente da quella filosofica, diventan le idee e gli
strumenti della teologia, se non proprio del Magistero. La storicità è la
condizione e per alcuni addirittura il valore di fondo da cui necessariamente
parte la riflessione teologica. Tutto è nella storia: la Rivelazione, la Fede,
la teologia. La stessa Commissione Teologica Internazionale ritenne, nel 1972,
che il valore storicità fosse la condizione di fondo per la comprensione della
realtà e per una necessaria autoricomprensione della teologia nella storia[117].
La "svolta antropologica" ha fatto il resto. Oggi, in teologia, si parla quasi
sempre un linguaggio non più teologico, con la pretesa del suo adattamento,
insieme diacronico e sincronico, ai tempi che cambiano, alle filosofie che si
succedono o s'elidono, alle scienze umane in continuo movimento. Si teorizzan
tali adattamenti com'espressione insieme d'alta scientificità e di storicità,
con la certezza - non si sa da che cosa garantita - che anche chi non se ne
rendesse conto, sarà sempre debitore, nell'esprimer il suo credo teologico, al
sovrapporsi sul suo stesso Credo di forme e strutture socio-culturali come un
cumulo di tradizioni (cumulated traditions)[118]. Esse sarebbero, di quel
Credo,
d'ogni credo, il criterio euristico, la specificazione, l'integrazione, la
manomissione, il rinnovamento, l'annullamento. Mi chiedo se proprio questo
intendesse la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, inserendo nel suo
Instrumentum laboris del 2008 frasi come le seguenti: "...la Parola di Dio...è
in consonanza con la vita concreta delle persone del nostro tempo"[119], "le
Chiese particolari assumano il compito di accogliere la Parola di Dio in
relazione alla loro peculiare situazione"[120], la quale consente "oggi (di)
parlare di un approccio biblico differenziato in Europa, in Africa, in Asia, in
America, in Oceania"[121] perché la Parola di Dio "non è caduta direttamente dal
cielo, ma è propriamente una sintesi di culture"[122].
Una "sintesi di culture" è estranea e perfino contraria al processo
d'inculturazione evangelizzante; è il risultato finale delle cumulated
traditions, o più precisamente à quel pot pourri che, acculturandolo, si
sovrappone all'evangelo per fagocitarlo. Come sarà possibile, allora, una
Tradizione vivente che incorpora i fenomeni culturali destinati a snaturarla e
quindi a neutralizzarla? "Quae autem conventio Christi ad Belial" (2Cr 6,15)? Se
il sì neutralizza il no e viceversa, nessuno dovrebbe sottrarsi all'evidenza che
ne segue; e cioè che tutt'il pensiero filosofico dall'illuminismo in poi ha dato
vita ad una cultura o dichiaratamente atea, o deista com'esaltazione della sola
ragione e netta opposizione al concetto stesso di Rivelazione. Quando - si pensi
all' Anonimo di Wolfenbüttel ed a tutta la corrente razionalista che lo seguì -
lo stesso illuminismo volse il suo interesse a Cristo e produsse il risultato
d'una radicale dissoluzione razionalista della divina Persona di Gesù e dello
svuotamento totale del Cristianesimo d'ogni valore trascendente e
soprannaturale, s'ebbe la dimostrazione lapalissiana dell'irriducibilità fra
Fede cristiana e cultura moderna. Oggi, in una temperie culturale d'illuminismo
addirittura esasperato, l'estrema incoerenza o la strana dabbenaggine di chi è
"maestro in Israele" propone una Tradizione vivente, nella quale il sì della
verità da sempre trasmessa non elide il no dell'opposta dottrina, ma a questa
affida i propri contenuti per un' "autoricomprensione" di essi, nell' ambito
d'un pluralismo incolore ed insensibile allo stridore dell'antitesi. Non è un
paradosso, è l'assurdo, il logicamente contraddittorio, l'antitesi assurta a
validità esemplaristica ed ideale.
3.6 - Perché non si pensi ad un discorso astioso o prevenuto, faccio qualche
esempio concreto con riferimento, oltre che al Vaticano II, anche alle pretese
di trarne argomento per il nuovo significato di Tradizione vivente.
a) Inizio dal famoso "subsistit in" di LG 8/b. Il testo ricorre ad un'inutile
ed ingombrante circonlocuzione per non offendere gl'interlocutori del dialogo
ecumenico con un semplice "Haec unica Christi Ecclesia est Ecclesia catholica".
E' pur vero che, su quest'identificazione, la circonlocuzione non lascia dubbi,
ma il rispetto dei detti interlocutori espunse evidentemente la perentoria
formulazione della Professio Fidei Tridentina e del Vaticano I: "Sancta catholica apostolica Romana Ecclesia"[123] . LG 8/b lasciò più d'una porta
aperta ad un concetto di Chiesa inclusivo anche della loro presenza con la
proposizione concessiva "licet extra eius compaginem elementa plura
sanctificationis et veritatis inveniantur, quae ut dona Ecclesiae Christi
propria, ad unitatem catholicam impellunt". UR 3/b-d fece poi il resto:
riconobbe che fuori della Chiesa cattolica esistono "plurima et eximia bona,
quibus simul semptis ipsa Ecclesia aedificatur et vivificatur". Ovvia la
conclusione da trarre: la Chiesa di Cristo non è quella cattolico-romana, ma
questa concorre con altre - ossia con tutte quelle che dispongono dei "bona
plurima et eximia quibus ipsa Ecclesia aedificatur et vivificatur" - alla
costituzione della Chiesa di Cristo. In codesta Chiesa di Cristo, dunque, e
nell'insieme dei soggetti ecclesiali che concorrono a costituirla, sussiste la
Chiesa vera. Alla Chiesa cattolico- romana non resta che rassegnarsi ad esser
parte del tutto. Ciò significa che la preposizione in venne scelta ad arte per
operar il passaggio da un giudizio d'identità (Ecclesia Christi est Ecclesia catholica) ad un giudizio d'inclusione (la Chiesa di Cristo
include in sé quella
cattolica e tutte le altre dotate di beni salutari).
Sarei proprio grato a chi dimostrasse:
- che oltre alla Chiesa cattolica - fuori della quale, come si sa, non c'è
salvezza[124] - altre chiese, per disposizione di Cristo, son nell'economia
ordinaria della salvezza canali e strumenti di essa;
- che la Chiesa cattolica, pertanto, non può pretendere d'arrogarsi in
esclusiva la capacità salvifica;
- che la Chiesa cattolica, inclusa con altre nella Chiesa di Cristo, non
s'identifica con essa, ma tutt'al più concorre a formarla;
- che una tale inclusione è, insieme con quanto precede, la genuina dottrina
di sempre e da sempre trasmessa dalla Tradizione vivente.
b) Come secondo esempio, riporto l'affermazione di DH 2/a sul fondamento
della libertà religiosa: "Declarat ius ad libertatem religiosam esse revera
fundatum in ipsa dignitate personae humanae, qualis et verbo Dei revelato et
ipsa ratione cognoscitur". Una nota arranca da Giovanni XXIII a Pio XII, Pio XI,
Leone XIII, ma non dimostra né il fondamento naturale della libertà religiosa,
né la sua conoscibilità mediante la parola di Dio e la ragione umana. I
commentatori, invece, fan dire al testo conciliare più di quant'effettivamente,
benché oscuramente, esso dice. Per es., C. Riva[125] prima limita il fondamento
alla dignità della persona umana, poi mette in evidenza che tale dignità è
affermata dalla Rivelazione "coi fatti...e con le parole", per insinuar un
fondamento teologico accanto a quello ontologico [126]. Là dove, però, il testo
conciliare lo consente, il discorso del commentatore cambia. DH 9 dichiara
apertamente: "...haec dotrina de libertate radices habet in Revelatione". Non è
una scoperta contraddizione di quanto afferma DH 2/a, ma una sua esplicitazione.
Riconosce che manca una diretta ed esplicita affermazione biblica della libertà
religiosa, mentre è invece presente il riconoscimento della dignità della
persona, "il rispetto di Cristo verso "di essa, lo spirito ch'egli lascia alla
sua Chiesa perché tratti ogni uomo con il suo stesso amore. Riva coglie allora
la palla al balzo e conclude al fondamento teologico della libertà
religiosa[127].
Ognuno vede da sé che il fondamento è labile; tuttavia si continua a
ripeterlo, imperterriti. Inevitabile, allora, un'osservazione: la Rivelazione
oggi invocata a favore ed a supporto della libertà religiosa, fin ad ieri veniva
invocata a fondamento d'una sola libertà: quella di cercare conoscere amare e
servire Dio. E, di conseguenza, a condanna d'ogni suo uso abnorme, se non
proprio d'ogni altra libertà. Il beato Pio IX, nel Syllabus del 1864 - che
qualcuno in mia presenza, e quel ch'è peggio in una commissione di studio
nominata dalla Santa Sede, definì "pestifero" - proprio alla Rivelazione
s'appellò per proscriver affermazioni di questo genere: "Liberum cuique homini
est, eam amplectendi ac profiteri religionem, quam rationis lumine quis ductus
veram putaverit - Homines in cuiusvis religionis cultu viam aeternae salutis
reperire aeternamque salutem assequi possunt"[128]. Il medesimo Pontefice,
nell'enciclica "Quanta cura" che accompagnava il Syllabus, giustificò il suo
intervento sulla base della "sacrarum Litterarum, Ecclesiae Sanctorumque Patrum
doctrinam". Richiamandosi poi al famoso "deliramentum" del suo predecessore
Gregorio XVI[129], nonché alla "libertas perditionis" di sant'Agostino[130],
ripeté l'insostenibilità, su base biblica e razionale, che la "libertà di
coscienza e di culto fosse un diritto d'ognuno"[131]. Il Pontefice concludeva la
sua dichiarazione con un pensiero di san Gregorio Magno[132]: "Si humanis
persuasionibus semper disceptare sit liberum", mai, "ex ipsa Domini nostri Iesu
Christi institutione", questa libertà dovrà opporsi alla sapienza rivelata.
So bene che fra libertà di coscienza e libertà religiosa c'è differenza:
l'una è relativa all'intimo sacrario che solo l'io gestisce, l'altra al libero
orientarsi delle sue scelte religiose. Direi che la libertà religiosa nasce
dalla libertà di coscienza, ne fa parte e la specifica, anche se non mancan
dichiarazioni ufficiali sulla loro identità[133]. Ne parlo non per un'analisi
teoretica dei concetti, ma per un'osservazione sulla logica e la coerenza
d'alcuni pronunciamenti. Soprattutto di quello riguardante la fondazione della
libertà religiosa nella Rivelazione biblica.
Ora, la prima cosa da dire a tale riguardo è la grande diversità di
prospettiva fra il no di Pio IX ed il sì di DH: Pio IX s'opponeva
all'indifferentismo religioso e, quindi, al relativismo morale delle scelte in
materia di religione e di culto; DH, a tutela di quell'inviolabile sacrario ch'è
l'io personale, s'oppone ad ogni sua costrizione e ne difende la scelta
religiosa, qualunque essa sia. In astratto le due posizioni non s'ostacolano; in
concreto, l'incontrollata libertà delle scelte religiose porta fatalmente
all'indifferentismo temuto e combattuto dal beato Pio IX. Poiché le due
posizioni dichiaran la propria dipendenza dalla Rivelazione, la domanda sopra
già posta si specifica ora così:
- E' mai possibile che la Rivelazione chiusa dalla morte dell'ultimo
apostolo, e da allora ovviamente rimasta unica irriformabile ed irriformata,
dica su uno stesso argomento agli uni un sì e ad altri un no?
- Se ciò è stato reso possibile dalla svolta conciliare, significa forse che
s'è dinanzi al "nuovo concetto di Rivelazione", sul quale recentemente s'è
tornati a parlare?
- E se di fatto e di diritto s'è autorizzati a rifugiarci in un "nuovo
concetto di Rivelazione", c'è forse di ciò, e qual è, la giustificazione che la
Tradizione vivente riesce a suggerire?
c) Un terzo ed ultim'esempio, non perché non ce ne sian altri, ma per
fermarmi al numero perfetto: la collegialità episcopale. Su di essa son passati
i famosi fiumi d'inchiostro. Anche il mio. Sintetizzata, come si dice, in soldoni, essa consiste in un
duplice soggetto d'un unico e medesimo potere,
quello di governare, ammaestrar e santificare la Chiesa. Lo proclama LG 22/b
dove prima si legge che "Romanus Pontifex habet in Ecclesiam, vi muneris sui,
Vicarii scilicet Christi et totius Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et
universalem potestatem (uso il corsivo per meglio evidenziar il concetto) quam
semper libere exercere valet". Immediatamente dopo ci s'imbatte in quest'altra
proclamazione: "Ordo autem episcoporum, qui collegio apostolorum in magisterio
et regimini pastorali succedit,..subiectum quoque supremae ac plenae potestatis
in universam Ecclesiam (c. s.) exsistit, quae quidem potestas nonnisi
consentiente Romano Pontifice exerceri potest".
Il latino non è classico, ma è chiaro:
- una medesima potestà "piena suprema universale";
- un medesimo oggetto, la Chiesa;
- un esercizio differenziato;
- due distinti soggetti.
La presenza di due soggetti d'una medesima potestà, per analogia, richiama
alla mia mente un ben noto testo di san Tommaso che, discutendo sul "potere
meglio costituito", propende per quello del "capo supremo, dotato di virtù, che
abbia sotto di sé ministri o capi subalterni, promossi secondo i loro
meriti"[134]. Ho detto "per analogia", perché la Chiesa non è una società
qualunque, organizzabile secondo ordinamenti politici, avendo ricevuto dal suo
stesso Fondatore la propria costituzione e le sue caratteristiche essenziali. E'
anche da tener presente che san Tommaso non opta per un solo modello, ma per
tre, pur sottolineando quale di essi sia il migliore. E neanche in ipotesi
considera l'idea di due soggetti paritetici d'un'unica e medesima potestà. Il
testo citato, dunque, è solo un riferimento analogico. Ma non senza significato.
Lo si coglie in un testo dell'enciclica "Satis cognitum", essa pure ben nota,
nella quale, affrontando direttamente l'argomento del governo ecclesiastico,
papa Leone XIII scrive: "Illud praeterea animadvertendum, tum rerum ordinem
mutuasque necessitudines perturbari, si bini magistratus in populo sint eodem
gradu, neutro alteri obnoxio. Sed Romani Pontificis potestas summa est,
universalis, planeque sui iuris; episcoporum vero circumscripta finibus nec
plane sui iuris"[135]. Il testo leoniano assume un connotato ancor più rilevante
dal fatto che viene a conclusione di fondamentali considerazioni su ciò che Papa
e vescovi hanno in comune e ciò che invece li distingue nell'esercizio delle
loro mansioni. Appare ovvia, allora, la dottrina promulgata dalla "Pastor
aeternus" del Vaticano I in questi termini: il Romano Pontefice ha non soltanto
"officium inspectionis et directionis", ma "plenam et supremam potestatem
iurisdictionis in universam Ecclesiam non solum in rebus quae ad fidem et mores,
sed etiam in iis quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem
diffusae pertinent": ne discende che al Papa non competon semplicemente
"potiores partes", bensì "tota plenitudo huius supraemae potestatis", la quale
pertanto dovrà dirsi "ordinaria et immediata sive in omnes ac singulas
ecclesias, sive in omnes ac singulos pastores et fideles"[136] .
Lascio la conclusione al grande san Bernardo († 1153), "ultimus inter Patres,
primis certo non impar", il quale, rivolto a Pietro e ad ogni suo successore,
s'esprime in questi termini icastici: "Tibi universi crediti, uni unus. Nec modo
ovium, sed et Pastorum, tu unus omnium pastor. Unde id probem? Ex verbo Domini.
Cui enim, non dico Episcoporum sed etiam Apostolorum, sic absolute et indiscrete
totae commissae sunt"?[137]
Ho insistito sull'estensione universale della primazialità papale per
dimostrare che, nella Tradizione ecclesiastica, essa non ha mai fatto a mezzo
con quella dei vescovi, né tanto meno s'è ad essa abbinata ed in essa integrata.
Il mai in effetti esclude qualunque eccezione, anche quelle delle note addotte
da LG 22/b che non hanno un diretto riferimento alla collegialità.
Domande forse ingenue ma inevitabili:
- è allora la collegialità di LG 22/b a render vitale la Tradizione della
Chiesa, o è la Tradizione vitale a legittimare la collegialità?
- la risposta, qualunque essa sia, può dimostrare d'esser in continuità con
la traditio apostolica?
- Se, alla luce della costante traditio apostolica, tale continuità fosse
indimostrabile, è mai possibile che una novità non omogenea, qual è la
collegialità, diventi un coefficiente di vitalità ecclesiale ed un elemento
costitutivo, quindi, della Tradizione vivente?
- Con quali argomenti si sosterrà allora che la Tradizione è vivente non
quando le sue novità sian determinate da acquisizioni estrinseche e formali, ma
quand'insorgono dall'acritica assimilazione della contraddittorietà nel proprio
statuto ontico - alludo alla contraddittorietà fra la Rivelazione cristiana ed
il nuovo concetto di essa, fra la fede nel Dio personale, incarnato in Cristo e
vivente nella Chiesa e la cultura moderna dell'immanenza assoluta, oltre a
quella postmoderna del nulla - che non vita le conferiscono, ma morte?
[1] E' superfluo rimandare ad AMERIO R., Iota unum. Studio delle variazioni
della Chiesa cattolica nel sec. XX, Riccardi, Napoli 1985. Recentemente, quasi
in contemporanea, son apparse due nuove edizioni, l'una per i tipi di "Fede &
Cultura", Verona 2009 e l'altra edita da Lindau, Torino 2009. Non meno noto è il
volume di SIRI G., Getsemani. Riflessioni sul Movimento Teologico Contemporaneo, Fratern. della SS.ma Vergine Maria, Roma 1980. A queste opere son certamente da
aggiunger i due volumi di MARCHETTO A., Chiesa e Papato nella storia e nel
diritto. 25 anni di studi critici, L.E.V. Città del Vaticano 2002 e Il Concilio
Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, L.E.V. Città del Vaticano
2005. Ed io pure ho l'impressione d'aver fatto qualcosa in margine al Vaticano
II.
[2] Tale svolta ebbe una solenne stroncatura, che qualcuno giudicò eccessiva
ma non certamente infondata, da FABRO C., La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974; ID.,
L'avventura della teologia progressista,
Rusconi, Milano 1974; due anni prima aveva già scritto Il trascendentale
esistenziale e la riduzione al fondamento in "Giornale critico della filosofia
italiana" 4 (1972) 469-516. Quello che parve un discorso eccessivamente severo
altro non era che una consequenziaria analisi della pseudoteologia rahneriana,
colpevole d'aver acriticamente aperto le porte della teologia moderna al
principio dell'immanenza.
[3] RAHNER K., Sul problema dell'evoluzione del dogma, in "Saggi teologici",
edizioni paoline, Roma 1965, p. 265. I corsivi son miei. Lo scritto citato va da
p. 261 a p. 325. Ne segue subito un altro: Riflessioni sull'evoluzione dei
dogmi, ibid. p. 327-389.
[4] RAHNER K., Sul problema, cit., ibid. p.268.
[5] Ibid. p. 269. Il testo è quanto mai involuto e mi dispiace di non
disporre di quello originale, che forse potrebb'esser un po' più chiaro,
nonostante il pessimo tedesco di Rahner.
[6] Ibid. p. 275.
[7] Ibid. p. 304. Ho lievemente cambiato un periodo, per renderlo un po' più
chiaro, vista l'assoluta non chiarezza che lo distingue.
[8] In "Wort und Wahrheit" 18 (1963) 269-279 ed in Das zweite
Vatikanische Konzil. Studien und Berichte der Katholischen Akademie, Baviera, ed. K. Forster,
Würzburg 1963, p. 71-91.
[9][9] RAHNER K., Sacra Scrittura e Tradizione, in "Nuovi saggi", ed. paoline
Roma 1968, p. 179.
[10] Ibid. p. 180.
[11] Ibid. p. 180-181.
[12] Che diventano tali in seguito all'azione dogmatizzante della Chiesa.
[13] Ibid. p. 183.
[14] Ibid. p. 183. A p. 184 questa Chiesa apostolica o primitiva è definita
l' "unità di misura permanente, invariabile, normativa, che si trasmette a tutti
i secoli posteriori nella sua realtà e nella sua parola". I corsivi son miei.
[15] Ibid. p. 184.
[16] Ibid. p. 185.
[17] Ibid. p. 186.
[18] Nessun ondeggiamento, ma anche nessuna chiarezza. Giudichi il lettore:
Ibid. p. 194-195: "Quando proclamiamo di credere esplicitamente in un punto che
non si trova esplicitato nella Scrittura, noi non possiamo nemmeno ritrovare
esplicitamente questa verità (si noti, ciò che un rigo sopra è solo "un punto",
ora diventa "verità") oggi esplicita in quel che ci viene fornito dalla
tradizione dei primi due o tre secoli....la Scrittura è l'oggettivazione
normativa della fede normativa della Chiesa apostolica, ne consegue
rigorosamente (domando perché "rigorosamente": non potrebbe la conclamata
"oggettivazione" essere stata parziale? Chi può dire e provare il contrario? Il
"rigorosamente", come si vede, è insostenibile) che la Scrittura deve (ancor una
volta la necessità e la fatalità; nessuna prova, il fato non essendo tale)
possedere la sua piena sufficienza, se la parola ha ancora un senso (già, me lo
chiedo anch'io. Ma il colmo della ridicolaggine pseudologica arriva ora),
ovunque la natura stessa delle cose non postuli al contrario la sua
insufficienza". E questo è "il più grande ispiratore del Vaticano II!
[19] E' semplice ipotesi, o dubbio? "Ai posteri l'ardua sentenza"
[20] Ibid. p. 195.
[21] BARTH K., Die kirchliche Dogmatik I/1, Evang. Verlag A. G., Zollikon-Zurigo 19475, p.162-168.
[22] RATZINGER J., Vom Verstehen des Glaubens. Anmerkungen zu Rahners
Grundkurs des Glaubens, in "Theologische Revue" 74 (1978) 185: "Was mich mitten
in Ernst und Größe von Rahners Denken immer wieder stört, ist die allzu schnelle
Übernahme moderner Verurteile gegenüber überlieferten Aussagen". Oggi,
finalmente, un tomista tedesco, laico ma non per questo meno importante, DAVID
BERGER, direttore di "Theologisches", ha lanciato il suo grido "Abschied von
Rahner"; ed il grido è stato raccolto. Il medesimo Berger ha scritto vari
articoli a tale riguardo, p. es. Karl Rahner - Das Ende eines Mythos und seine
Apologeten, in "Una Voce Korrespondenz" 28 (1998) 67-90; ID., Abschied von einem
gefährlichen Mythos - Neue Studien zu K. Rahner, in "Divinitas" XLVI (2003)
68-89; ID, Gegen die Tradition oder im Licht der Tradition? Zu neueren
Interpretationen des zweiten Vatikanischen Konzils, in "Divinitas" XLVIII (2005)
294-316. Di rilievo è pure il volume a c. di p. Serafino M. Lanzetta, AA.VV.,
Karl Rahner. Un'analisi critica. La figura, le opere, la recensione. Teologia di
K.R., 1904-1984, Cantagalli, Siena 2007. E non va dimenticata la poderosa opera
di CAVALCOLI G., Karl Rahner, ed. Fede & Cultura, Verona 2009.
Sarebbe, però, un errore se si pensasse che il Mythos sia tramontato del
tutto: ci son ancora cattedratici rahneriani, vescovi rahneriani ed apologeti
come la filosofa Giorgia Salatiello, dell'Università Gregoriana, che non si
stancano di batter le mani al celebrato maestro. Su Rahner e gli altri
contemporanei che prenderò in esame, non mi sembra necessario fornire note
bibliografiche.
[23] GALOT J, Dove trovare il vero volto di Gesù? A proposito delle opere di
H. Küng e di E. Schillebeeckx, in "La Civiltà Cattolica" 126 (1975) 113-129.
[24] SCHILLEBEECKX E., Christus sacrament van de godsontmoeting, ed. H.
Nelissen, Bilthoven 19604. La prima ed. era del 1957 a seguito del grande
successo che aveva accolto la sua monumentale De sacramentele Heilseconomie,
Anversa 1952. Sintesi della sua teoria sacramentaria, Cristo, sacramento
dell'incontro con Dio fu dall'Autore stesso presentato come un'analisi della
"grazia, venuta in forma visibile" a dimostrazione "di una sacramentalità assai
più vasta, una sacramentalità dalle proporzioni cosmiche", Prefazione all'ed.
italiana, ed. paoline, Roma 1966, p. 9.
[25] Ibid. ed. italiana, p. 43-52. Al contrario di ciò, un altro sulla cresta
dell'onda, già mio alunno, ebbe la sfrontatezza di sostenere che solo sulla
Croce Gesù prese coscienza della sua messianità. Non merita che ne faccia il
nome.
[26] CONC. CHALCEDON., Actio V, 22 ott. 4521, Simbolo di Calcedonia, DS 301 e
303.
[27] SCHILLEBEECKX E., Il mondo e la Chiesa, versione it. di G. da Vetralla,
ec. Paoline, Roma 1969, p. 227.
[28] Ibid. p. 162. Peccato che il dotto Autore non abbia spiegato come il
trattamento libero - corsivo mio - del dogma sia, proprio perché tale, anche
ortodosso.
[29] Ibid. p. 163. Confesso di sentirmi disarmato di fronte a questo "senso
illativo". Non so infatti quale ne sia il significato. So che "illativo" è un
procedimento logico per dedurre una conclusione da alcune premesse: quale
conclusione? quali premesse? Se la comparazione fra gli apostoli che applicaron
la Rivelazione ai problemi dei loro contemporanei e coloro che l'applicano ai
nostri attuali problemi rientra nel "senso illativo", ciò vorrebbe dire che
anche in Schillebeeckx riecheggia la "Tradizione vivente", sempre riaffermata,
dalla Scuola di Tubinga in poi, ed entrata a vele spiegate nella teologia
contemporanea, ma soprattutto nel Vaticano II e nel postconcilio. E' allora per
esser "illativo" che Schillebeeckx s'impegnò fin all'inverosimile per far
assumere dalla Chiesa il pensiero ed in genere la cultura del momento.
[30] SCHILLEBEECKX E., La missione della Chiesa, versione it. di A. Pompei,
ed. paoline, Roma 1971, p. 31.
[31] Ibid. p. 33.
[32] Ibid. p. 33. Il corsivo è nel testo, dovrebbe risponder ad una
particolare intenzione. Io non l'ho scoperta e mi pare che qui le parole non
sian più chiare: di quale interno si parla? e se da questo si parte, chi
effettivamente si mette in moto? e verso dove?
[33] Ibid. p. 41-42.
[34] Ibid. p. 42.
[35] Ibid. p. 42.
[36] Qualche esempio: rilevaron inesattezze, imprecisioni e perfino una
qualche disonestà SCHUMACHER J., Der Glaube der Kirche. Neuinterpretierung oder
Auflösung, in "Münchener Theolog. Zeitschrift" 26 (1975) 186; WEBER J. J., in
"La Document. Catholique" 1970 (1975) 182; GERKEN A., in "Theolog.
Literaturdienst" 2 (1975) 18; SCHEFFCZYK L., in "Entscheidung" 61 (1975) ed in
"Esprit et Vie" 86 (1976) 337-349 parlò di "Cristianesimo sull'orlo
dell'autodistruzione"; AA.VV., Diskussion über Hans Küngs "Christ sein", Grünewald-Verlag, Magonza 1976, dove esprimon giudizi assolutamente o
parzialmente negativi, J. Ratzinger, W. Kasper, A. Grillmeier ed altri.
Pienamente favorevoli son T. Schneider, K. Lehmann, B. Stoekle.
[37] Herder-Freiburg-Basel-Wien 19682.
[38] Einsiedeln 1970.
[39] P. es. in Konzil und Wiedervereinigung. Erneuerung als Ruf in die
Einheit, Herder, Friburgo Br. 19637; Kirche im Konzil, Herder, Friburgo Br.
19642; Strukturen der Kirche, Herder, Friburgo Br. 19632;
[40] KÜNG H., Die Kirche, cit. p, 27: ""Alle anderen Zeugnisse kirchlicher
Tradition, auch die tiefsinnigsten und die feierlichsten, können im Grunde
nichts anderes tun als um dieses ursprüngliche Zeugnis vom Gotteswort kreisen,
diese Ur-Kunde interpretieren, kommentieren, explizieren und applizieren: aus
der je verschiedenen geschichtlichen Situation heraus".
[41] Ibid. p. 39.
[42] Ibid. p. 560-561: "Sie (die Katholiken) sind nicht allein damit. Auch
die Orthodoxen haben ihren Papst: die Tradition. Und auch die Protestanten: die
Bibel. Und schliesslich auch die Freikirchen: Freiheit. Aber wie das Papsttum
der Katholiken nicht einfach der Petrusdienst des Neuen Testaments ist, so ist
die Tradition der Orthodoxen nicht einfach die apostolische Überlieferung, so
ist die Bibel der Protestanten nicht einfach das Evangelium, so ist die Freiheit
der Freikirchen nicht einfach die Freiheit der Kinder Gottes"
[43] KÜNG H., Christ sein, Piper & Co. Verlag, Monaco 1974, p. 124.
[44] Ibid. p. 468.
[45] Ibid. p. 439-440.
[46] Si veda a tale riguardo la conferenza Che cosa deve rimanere nella
Chiesa, Queriniana, Brescia 1973.
[47] Ibid. p. 450.
[48] Ibid. p. 446.
[49] Ibid. p. 433.
[50] Ed. Arthème Fayard, Parigi 1940, tr. it, di G. Auletta, ed. paoline,
Roma 1961.
[51] GEISELMANN J. R., Das Konzil von Trient über das Verhältnis der Heiligen
Schrift und der nichtgeschriebenen Traditionen: Die mündliche Überlieferung, ed.
M. Schmaus, Monaco 1957, p. 163, 168ss; TAVARD G., Holy Writ or Holy Church. The
Crisis of the Protestant Reformation, Londra 1959, p. 285-304.
[52] CONGAR Y. M.-J., La Tradizione e le tradizioni, ed. italiana, cit. p.
296-297.
[53] Ibid. p. 302-316.
[54] RAHNER H., Servir dans l'Eglise. Ignace de Loyola et la genèse des
Exercices, Parigi 1959.
[55] CONGAR Y. M.-J., La Tradizione, cit. p. 315-316.
[56] Ibid., p. 318-319.
[57] Lehrbuch d. vergl.Confessionskunde, Friburgo Br. 1892, p. 271-175.
[58] CONGAR Y.M.-J, La Tradizione, cit., p. 328-376. Le Scuole indicate son
soprattutto quella di Tubinga e quella Romana.
[59] Ibid. p. 366-367 e soprattutto nota 101. Cf AUBERT R., Le Pontificat de
Pie IX (1846-1878, Parigi 1852, p. 354.
[60] Ibid. p. 371.
[61] S. Theologiae Summa, I/3: De Ecclesia Christi, Madrid 1950, n. 805-806.
[62] Mi permetto d'osservare che ciò ha senso solo limitatamente al Magistero
passivo, in rapporto con la traditio passiva, perché il Magistero
impersona anche la Traditio activa
[63] BENEDETTO XVI, Lettera del 10 marzo 2009 ai vescovi della Chiesa
cattolica, in "Document. Catholique" 2421, p. 319-320.
[64] GIOANNI PAOLO II, Motuproprio Ecclesia Dei afflicta, § 4, in "Document.
Catholique" 1967, p. 788.
[65] Lettre à nos frères prêtres, 42 (2009) 2.
[66] Ibid. L'occasione di questa reazione fu appunto l'uso "ingiurioso" d'
"integrista" da parte de "La Croix" (30 maggio 2009).
[67] "Bien evidemment, qui dit formation sacerdotale et séminaire, dit
logiquement ordinations - a dir il vero la "logica" in questo caso dovrebbe
collegare le ordinazioni non al solo seminario ed alla sola formazione
sacerdotale, ma anche alla vigente statuizione canonica -. C'est pourquoi,
depuis 1970, se déroulent au sein de la Fraternité Saint-Pie X des ordinations,
depuis la tonsure jusqu'au sacerdoce, en passnt par les ordres mineurs, le
sous-diaconat et le diaconat puisque, rappelons-le, la Fraternité Saint-Pie X
célèbre la liturgie traditionnelle qui connait ces divers degrés vers le
sacerdoce", ibid.
[68] Cit. da PFLUGER N., Le principe et le fondement de notre combat, in
AA.VV., L'Eglise d'aujourd'hui, continuité ou rupture?, Parigi 2009, p. 260, n.
10.
[69] Dichiarazione del 21 nov. 1974, dopo una visita canonica di Roma; cf
PFLUGER N., Le principe, cit., p. 261.l
[70] C'è un libro di Mons. LEFEBVRE M, Ils l'ont découronné. Du libéralisme à
l'apostasie: la tragédie conciliaire, ed. Fideliter, Escurolles 1987, che dedica
al Liberalismo conciliare e postconciliare la seconda, la terza e la quarta
parte, da p. 109 a p. 251. E' un atto d'accusa "mozzafiato", che va dal "grande
tradimento" alla "mentalità cattolico-liberale", dal "complotto
satanico-liberale" al "trionfo del liberalismo cattolico", dal "liberalismo
suicida" al suo rimedio: "instaurare omnia in Christo" e riedificare la
cittadella cattolica".
Non si pensi a frasi sporadiche ed isolate: le ritrovo in altre pubblicazioni
di Mons. Lefebvre, p. es. in Homélies: Eté chaud, ed. Saint-Gabriel, Martigny
1976; Le coup de maître de Satan: Ecône face à la persécution, ed.
Saint-Gabriel, Martigny 1977; J'accuse le Concile, ed. Saint-Gabriel, Martigny
1976; ed inoltre una serie lunghissima di discorsi e di prediche.
[71] Mons. Lefebvre, Ils l'ont découronné, cit. p. 111 rimanda a DOM SARDA Y
SALVANY, Le libéralisme est un peché, che a p. 257-258 cita a sua volta una
lettera pastorale dell'episcopato equadoregno (15 luglio 1885) in cui si legge
che "nell'ora presente il liberalismo è l'errore capitale delle intelligenze e
la passione dominante del nostro secolo... un'atmosfera infetta che avvolge
d'ogni lato il mondo politico e religioso...nemico gratuito, ingiusto e crudele
della Chiesa...che falsa le idee, corrompe i giudizi, adultera le coscienze,
indebolisce i caratteri, alimenta le passioni".
[72] Cita da LE FLOCH P., Le card. Billot, lumière de la théologie, p. 57, in
LEFEBVRE M., Ils l'ont découronné, cit. p. 110.
[73] LEFEBVRE M., cit. p. 13-19. E' una fotografia: nessuno può negarne la
realtà raffigurata.
[74] Ibid. p. 21-29.
[75] Ibid. p. 171-181.
[76] Disse cioè, stando a Georges de Nantes che lo riferisce in CRC, n. 113,
p. 3, che la dichiarazione conciliare della libertà religiosa "ne dise
matériellement autre chose que le Syllabus de 1864, et même à peu près le
contraire des propositions 16, 17 et 19 de ce document". In realtà, né DH ripete
quanto fu detto dal Syllabus del 1864, né il riconoscimento in essa d'un
Antisillabo appartiene a Georges de Nantes. Teologi di ben altro calibro si pronunciaron in tal senso.
[77] Ibid. p. 183-185.
[78] GIOVANNI PAOLO II, Motuproprio "Ecclesia Dei afflicta", § 4, in DC 1967,
p. 788.
[79] La restrizione insita in quest'aggettivo è significativa: non c'è fede
se non dalla Bibbia!
[80] KEHL M., La Chiesa. Trattato sistematico d'ecclesiologia cattolica, tr. it. di A. Maffeis, ed. paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, p. 39.
Sorprendente: l'autore a questo punto rimanda a Gadamer!
[81] Ibid. p. 154. Cf RAHNER K., Trasformazione strutturale della Chiesa come
compito e come chance, Queriniana, Brescia 1973; BISER E., Die
Galaubensgeschichtliche Wende. Eine theologische Positionsbestimmung, Graz 1986.
Agl'inizi del 1900 BAINVEL J, in De magisterio vivo et traditione, Parigi 1904
spostava l'aggettivo "vivente" dalla Tradizione al Magistero; ma a quell'epoca
quasi tutti facevan altrettanto. Peraltro, all'epoca delle discussioni
ecclesiologiche precedenti l'enciclica "Mystici corporis", RANFT J. parlava un
linguaggio già "conciliare" in La Tradition vivante. Unité et dévéloppement,
contributo a L'Eglise est une, Miscellanea a Moehler, a c. di P. Chaillet,
Parigi 1939, p. 102-126.
[81] Cf CONGAR Y. M.-J, La Tradizione , cit. p. 318 con documentazione a p.
398-409.
[82] Il fenomeno probabilmente fu facilitato dal fatto che, dopo
l'integrazione dei "barbari" nel proprio seno, la Chiesa di Roma irrobustì la
coscienza della propria autorità; più tardi, quando il gallicanesimo tentò
d'indebolirla sottoponendola al rispetto dei "sacri canoni" e delle tradizioni,
l'autorità discrezionale della Chiesa s'identificò, per così dire, con quei
canoni e quelle tradizioni.
[83] PARENTE P., Nuove tendenze teologiche, in "L'Osserv. Romano" 9-10
febbraio 1942. Poco dopo gli faceva eco SALAVERRI I., Sacrae Theologiae Summa,
I/III: De Ecclesia Christi, BAC, Madrid 1950, n. 805-806: espone e spiega perché
la Tradizione non s'identifica col Magistero. Del resto, anche S. PIO X., nel
decreto "Lamentabili" 3 luglio 1907, DS 3404 e 3405 sembra distinguere tra
l'azione esplicatrice e propositiva del Magistero ecclesiastico e il complesso
delle verità rivelate e trasmesse. Identica distinzione in PIO XI, Encicl.
"Mortalium animos", 6 genn. 1928, in AAS 20 (19289 12-14.
[85] S. AGOSTINO, Serm. 176, 2, 2 PL 38,950.
[86] Cf CONGAR Y. M.-J., La Tradizione, cit. p. 340-341, con varia
documentazione, p. es., PIGHI A., Traditio viva Hierarch. Eccl.cae assertio,
Colonia 1538; HOSIUS che, secondo POLMAN P., L'élément historique dans la
controverse religieuse du XVI siècle, Gembloux 1932, p. 307, parla di "evangelo
vivente"; S. PIER CANISIO, Meditationes seu notae in evangelicas lectiones, pars
I (1598), ed. Friburgo 1939, p. 184: "...non modo verbum scriptum...sed etiam
verbum viva dumtaxat voce traditum".
[87] MÖHLER J., L'unità nella Chiesa. Cioè il principio del cattolicesimo
nello spirito dei Padri della Chiesa dei primi tre secoli, tr., introd. e note
di G. Corti, Città Nuova ed., Roma 1969, p. 314. Per questo, a p. 315, poteva
così proseguire: "Non vi è che una sola tradizione, nella Chiesa, continua,
ininterrotta, dal tempo degli apostoli fin ad ora; in essa conosciamo l'identità
della nostra coscienza cristiana con quella di tutt'i tempi, perché noi possiam
confrontare la nostra tradizione attuale con quella dei primi secoli".
[88] Ibid. p. 34.
[89] Cf CONGAR Y. M.-J., Note sur l'évolution et l'interprétation de la
pensée de Möhler, in "Rev. de Scienc. Philos. et Théolog." 27 (1938) 205-212.
[90] MÖHLER J., Symbolik, cit. primo libro, cap. 5, §§ 36-43, p. 328-395.
[91] PETROCCHI M., Fénelon François de Salignac de la Mothe, in EC V, c.
1147. La voce va da c. 1146 a c. 1149.
[92] SAILER J. M., Grundlehren der Religion, Monaco 1805, p. 363; WIDMER J.
(a c. di), Opera omnia, 41 voll., Salisburgo 1830-1845; Cf GEISELMANN J. R., Von lebendiger Religiosität zum Leben der Kirche, J. M.
Sailers Verständnis der
Kirche geschichtlich gedeutet, Stoccarda 1952; ID., Chiesa e spiritualità nei
movimenti spirituali della prima metà del sec.XIX, in "Sentire Ecclesiam", tr.
it., II. Roma 1964, p. 123-220.
[93] DREY J. S., Dissertatio historico-theologica de origine et vicissitudine
exomologeseos in Ecclesia catholica, Ellwangen 1815; ID.,Vom Geist und Wesen des
Katholizismus, in "Theologische Quartalschrift" 1 (1819) 8-28, 192-210, 369-391,
559-574; ID., Ideen zur Geschichte des katholischen Dogmensystem: Geist des
Christentums und Ktholizismus, a c. di J. R. Geiselmann, Magonza 1940; cf
GEISELMANN J. R., Die Glaubenswissenschaft der kathol. Tübinger Schule in ihrer
Grundlegung durch J. S. Drey, ibid. III (1930) 49-117; ID., Die lebendige
Überlieferung als Norm des christlichen Glaubens, Friburgo Br. 1959.
[94] HIRSCHER J. B., Über das Verhältnis des Evangelium zur theologischen
Scholastik, Tubinga 1823; ID., Katechetik, Tubinga 1831 e 1842; ID.,
Die
kirchliche Zustände der Gegenwart, Tubinga 1849; cf GHEISELMANN J. R.,
Lebendiger Glaube aus geheiligter Überlieferung, Magonza 1842.
[95] Che Geiselmann, in Lebendiger Glaube aus geheiligter Überlieferung,
cit., studia unitamente ad A. Berlage e J. E. Kuhn, sostenendo la loro
dipendenza nella dottrina sulla Tradizione da quella di Möhler.
[96] LAGRANGE J.-M., Le sens du Christinanisme d'aprés l'exégèse allemande,
Parigi 1918; LEUBE M., Geschichte des Tübinger Stifts, Tubinga 1921-1936;
parziali indicazioni sparse anche in RICCIOTTI G., Vita di Gesù Cristo, Milano
1940, p. 207-246.
[97] SCHAUF H., Carlo Passaglia und Clemens Schrader. Beitrag zur
Theologiegeschichte des 19. Jahrhunderts, Roma 1938 (cf introduzione).
[98] Lo ricorda anche P. SEMERIA G., I miei ricordi oratorî, Milano-Roma
1927, p. 101-104, dove vengon fatti alcuni nomi, tra i quali quello insigne del
card. F. Satolli. Ma fra quelli non rigorosamente romani non bisognerebbe
dimenticare valorosi pensatori, teologi e storici come H. Hurter, J.
Hergenröther, M. J. Scheeben, H. Denzinger ed altri ancora. Cf NEUFELD K. H.,
"Römische Schule". Beobachtungen und Überlegungen zur genaueren Bestimmung, in
"Gregorianum" 63/64 (1982) 677-699.
[99] Ciò nonostante esiste sulla "Scuola Romana" ed i suoi campioni
un'ingente bibliografia, ora favorevole se pur con riserve, ora fortemente
critica. Si veda fra gli altri FILOGRASSI G., Teologia e filosofia nel Collegio
Romano dal 1824 ad oggi, in "Gregorianum" 35 (1954) 512-540; VILLOSLADA R. G.,
Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della
Compagnia di Gesù (1773), Roma 1954; ARÉVALO C. G., Some aspects of the thology
of the Mystical Body of Christ in the ecclesiology of G. Perrone, C. Passaglia
and C. Schrader, Roma 1959; KASPER W., Die Lehre von der Tradition in der
Römischen Schule, Friburgo Br. 1962; VERGANO G., La forza della grazia. La
teoria della causalità sacramentale di L. Billot, Cittadella ed., Assisi 2008,
sp. p. 23-82.
[100] Queste le sue opere più importanti: PERRONE G., Praelectiones
theologicae, 9 voll. Ratisbona 1854-185521; De immaculato B. V. Mariae conceptu
an dogmatico decreto definiri possit disquisitio theologica, Milano 1852; L'idea
cristiana della Chiesa avverata nel cattolicesimo, Genova 1862; Il
Protestantesimo e la regola di fede, 3 voll. Genova 1862; Praelectiones
theologicae de virtutibus fidei, spei et caritatis, Ratisbona 1865; Index
alphabeticus analyticus rerum quae in universa theologia Ioannis Perrone
continentur, Torino 1868.
[101] Cf "Handbuch der Dogmengeschichte" (a c. di M. Schmaus, J. Geiselmann e
A. Grillmeier), Friburgo Br 1951ss, III, 3d, 93.
[102] Tra i molti che si son interessati a G. Perrone, un rilievo speciale
spetta a KASPER W., Die Lehre von der Tradition, cit., sp. p. 29-181; CAVALLERA
F., Le document Newman-Perrone et le developpement du dogme, in "Bulletin de
Littérature Ecclesiastique" 47 (1946) 132-142, 208-225 (ricostruisce un momento
di particolare importanza sul discusso tema, strettamente legato alla
Tradizione, del progresso dogmatico, sul quale aveva già scritto LYNCH T., The Newman-Perrone Paper on developpement, in "Gregorianum" 16 /1935 / 402-477; e
sul quale scriverà poi anche WILLAN F. M., John H. Newman and G. Perrone, in
"Newman Studien", Norimberga 1954, p. 120-145. Nel lungo elenco di coloro che
parlaron di G. Perrone non va dimenticato l'interesse dimostratogli da E.
Hocedez, R. Aubert, A. Antón e, specialmente, da POTTMEYER H. J., Unfehlbarkeit
und Souveranität. Die päpstliche Unfehlbarkeit im System der ultramontanen
Ekklesiologie des 19. Jahrhunderts, Magonza 1975, sp. p. 285-290.
[103] Fra i suoi scritti, numerosissimi, si ricorda: PASSAGLIA C.,
Commentarius de praerogativis beati Petri apostolorum principis auctoritate
divinarum litterarum comprobatis, Regensburg 1850; ID., Conférences prononcées
dans l'Eglise du "Gesù" pendant le Carême de 1851, Roma 1852; ID.,
De Ecclesia Christi commentariorum libri quinque, 2 voll. Regensburg 1853-1856
(importantissimo anche per il nostro argomento); scrisse non poco anche di
politica.
[104] Sul Passaglia cf KASPER W., Die Lehre von der Tradition, cit., p.
185-230; POTTMEYER H. J., Unfehlbarkeit, cit. p. 298-329; SCHAUF H., Carlo Passaglia und Clemens Schrader. Beitrag zur Theologie des 19. Jahrhunderts, Roma
1938; ANTÓN A., El Misterio de la Iglesia. Evolución histórica de las ideas
ecclesiológicas, BAC, II. Madrid 1987, p. 297-308.
[105] SCHRADER C., De Unitate Romana commentarius, 1. Friburgo Br 1862; II.
Vienna1968; Theses theologicae : serie 1-7. Vienna 1861-1869; serie 8, Poitiers
1874; De triplici ordine naturali, praeternaturali, supernaturali, Vienna 1864;
De Deo creante, Poitiers 1875. In difesa del Syllabus fu parte dirigente nella
stesura dei cinque fascicoli su Der Papst und die modernen Ideen, Vienna
1864-1867. SCHAUF H., oltre cinquant'anni fa, ripubblicò le sue Tesi
ecclesiologiche: De corpore Christi mystico sive de Ecclesia Christi theses.
Ekklesiologie des Konzilsxtheologen Cledmens Schrader, Friburgo Br. 1959.
[106] Su Schrader si può vedere SOMMERVOGEL C., Bibliothèque de la Compagnie
de Jésus, 9 voll., Bruxelles-Parigi 1890-18002, con aggiunte successive di E.-M.
Rivière ed altri, vol. VII, p. 912-914; STEINHUBER A., Geschichte des Collegium
Germanicum, II: Friburgo Br. 1906, p. 511ss.; SCHAUF H., Carlo Passaglia u.
Clemens Schrader, cit.
[107] Fra la sua ingente e validissima produzione spiccano: FRANZELIN G. B.,
De Eucharistiae sacramento et sacrificio, Roma 1868; De Sacramentis in genere,
Roma 1868; De Deo trino secundum personas, Roma 1869; De divina Traditione et
Scriptura, Roma 1870; De Deo uno secundum naturam, Roma 1870; ID., De Verbo
incarnato, Roma 1870; ID., Theses de Ecclesia Christi. Opus posthumum, Roma
1887. Si tratta di manuali per la scuola, altamente scientifici, tutti onorati
da molteplici edizioni.
[108] Sul Franzelin, si veda COURTADE G., J. B. Franzelin. Les formules que
le Magistère de l'Eglise lui a empruntées, in "Recerch. de Scien. Relig." 40/II
(1952) 317-325; GAAR F., Das Prinzip der göttlichen Tradition nach J.B.
Franzelin, Regensburg 1973; ANTÓN A., El Misterio, cit. p. 313-317. Cf inoltre
SOMMERVOGEL C., Bibliothèque, cit., III, 950-951; BONAVENIA G., Raccolte di
memorie intorno alla vita dell'em.mo card. G. B. Franzelin, Roma 1887;
FILOGRASSI G., La realtà oggettiva delle specie eucaristiche secondo il card. Franzelin, in "Gregorianum" 19 (1937) 395-409
[109] PARENTE P., Teologia, in EC XI, 1963.
[110] Vi accenna BOGLIOLO L., Il problema della filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia 1959, p. 166-173.
[111] Cf BELLAMY J., La théologie catholique au XIXe siècle, Parigi 1904; MASNOVO A.,
Il neotomismo in Italia. Origini e prime vicende, Milano 1923; EHRLE
F., Die Scholastik und ihre Aufgabe in unserer Zeit, Friburgo Br. 19332; FABRO
C. Scolastica, in EC XI, 122-140; PIOLANTI A. (a c. di), La Pontificia
Università Lateranense. Profilo della sua storia, dei suoi maestri e dei suoi
discepoli, Roma 1963; ID., Pio IX e la rinascita del tomismo, Vaticano 1974.
[112] CORDOVANI M., Commemorazione di Mons. Salvatore Talamo, Roma 1933; PIOLANTI A., Talamo Salvatore, in EC XI, 1709-1710; ID., La filosofia cristiana
in Mons. S. T., ispiratore dell' "Aeterni Patris", Vaticano 1986; ID. (a c. di e
con sua introduzione), Salvatore Talamo: il rinnovamento del pensiero tomistico,
Vaticano 1986.
[113] SOLERI C., Lepidi A., in EC VII, 1188-1189; SESTILI G., Il p. A. L. e
la sua filosofia, Torino-Roma 1930; avversò l'ontologismo, come riconobbe anche
Talamo, che pur gli preferiva Zigliara, cf PIOLANTI A., S. Talamo: il
rinnovamento, cit. p. 106.
[114] IGNUDI S., Card. F. S., in PIOLANTI A. (a c. di ), La Pont. Univ.
Lateranense, cit. p. 104-105; DE CAMILLIS M., S. F., in EC X,1964.
[115] FABRO C., P. R. Tabarelli, CPS, in PIOLANTI A (a c. di), La Pont. Univ.
Lateranense, cit., p. 108-112: ID., T. R., in EC XI,1675-1676; GRABMANN M., Die
Geschichte der scholastischen Methode, 1. Friburgo Br., 1909, p. 23.
[116] Un solo esempio: GARDEIL A., Le donné révélé et la théologie, Parigi
19322, p. I, cap. III-V.
[117] Cf COLOMBO G., La ragione teologica, ed. Glossa, Milano 1995, p. 182.
[118] Cf SMITH C., The end and meaning of religion, New York 1964.
[119] SEGRET. SINODO D. VESCOVI, Instrumentum laboris, Città del Vaticano
2008, p. 4
[120] Ibid. p. 3.
[121] Ibid. p. 9.
[122] Ibid., p. 73. Frasi come queste, prima del Vaticano II, avrebbero fatto
i conti con l'allora Sant'Uffizio; oggi assurgon al livello di Magistero
ufficiale!
[123] Cf DS 1862, 1868 e 3001.
[124] Cf DS 802; S. CIPRIANO, Ep. 73, 21 CSEL 3/II,795; PL 3,1169 A: "Salus
extra Ecclesiam non est"; PIO XII, Ep. S. Officii ad archiep. Bostoniensem,
8.Aug. 1949, DS 3866.
[125] RIVA C., Aspetti generali della libertà religiosa, FAVALE A. (a c. di),
La libertà religiosa nel Vaticano II, Torino-Leumann 19672, p. 174.
[126] Nel medesimo commento a c. di Favale, J. Hamer riporta il giudizio del
relatore E. J. De Smedt contrario, per esigenze di dialogo, ad un esplicito
fondamento teologico oltre a quello ontologico o naturale: "Per soddisfare il
desiderio d'alcuni Padri, questa dottrina è stata esposta prima fondandola
unicamente sulla dignità della persona umana, poiché quest'argomento può esser
accettato da tutti, compresi i non-credenti. Nel paragrafo seguente, poi, tutta
l'argomentazione è stata ripresa in maniera più radicale, insistendo sulla
relazione dell'uomo con Dio", ibid. p. 92. Si noti bene, "relazione - sia pur
radicale - dell'uomo con Dio", non significa fondazione biblica.
[127] Ibid. p. 219-222.
[128] PIO IX, Syllabus, 8 dic, 1864, proposizioni 15 e 16, DS 2915-2916.
A chi si permise di qualificare "pestifero" il Syllabus di Pio IX, ricordo il
pensiero di un "malpensante. Domenico Giuliotti (1877-1956) che, nel suo
capolavoro, parlò del "cristianesimo vero, quello della Chiesa, la cui ultima
voce più potente esplose col "Sillabo", in GIULIOTTI D., Pensieri di un
malpensante, Roma 1984, n. 1613
[129] GREGORIO XI, Encicl. "Mirari vos", 16 ag. 1832, n. 1613
[130] S. AGOSTINO, Ep 105 (166), 2, 9 PL 33,399.
[131] Significativo il fatto che l'edizioni postconciliari del Denzinger non
riportano questa parte della "Quanta cura", evidente essendo il suo stridore con
la dottrina del Vaticano II e soprattutto con la sua esasperazione
postconciliare. Il testo però si trova nelle precedenti edizioni, p. es. in
DENZINGER-HUMBERG, Herder-Barcelona 1951, 1689-1690.
[132] S. GREGORIO MAGNO, Ep. 164 (133), 2 PL54,1149 B.
[133] CCC 2105, poi cit. da PONT. CONSIGLIO D. GIUST. E D. PACE, Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, LEV-Città del Vaticano 2004, n. 422 p. 229.
[134] S.TOMMASO, I/2, 105, 1: "Optima ordinatio principum est in aliqua
civitate vel regno, in quo unus praeficitur secundum virtutem qui omnibus
praesit; et sub ipso sunt aliqui principantes secundum virtutem".
[135] LEONE XIII, Encicl. "Satis cognitum", 28 giugno 1896, DS 3309. Cf PIO
XII, Encicl. "Mystici corporis" 29 giugno 1943, in AAS (1943) 212: "Episcopi non
plene sui iuris sunt, sed sub debita R. Pontificis auctoritate positi, quamvis
ordinaria iurisdictione fruantur, immediate sibi ab eodem Pontifice Summo
impertita". Da notare a questo riguardo il cambiamento operato dal Vaticano II,
che fa dipendere dall'ordinazione episcopale anche la giurisdizione, non però il
suo esercizio: Nota praevia, n. 2: "In consecratione datur ontologica
participatio sacrorum munerum...Ut vero talis expedita potestas habeatur,
accedere debet canonica seu iuridica determinatio": un modo diverso per ripetere
"non plene (plane) sui iuris". Va infine osservato che l'affermazione della
sostanziale differenza fra la potestà del Papa e quella dei vescovi, sia pure
collegialmente considerati, affonda le sue radici nel primato del Romano
Pontefice e nel Magistero della Chiesa: cf CONC. FLORENT., Decr. "Pro Graecis et
Armeniis", 6 luglio 1439, DS 1307: "...Romanum Pontificem in universum orbem
tenere primatum...totius Ecclesiae caput et omnium Christianorum patrem ac
doctorem exsistere". E' l'eco di quanto già il CONC. LUGDUNENSE II del 1274 DS
861: "...summum et plenum primatum et principatum super universam ecclesiam
obtinet", al quale "potest gravatus quilibet super negotiis ad ecclesiasticum
forum pertinentibus appellare et in omnibus causis ad examen ecclesiasticum
spectantibus ad ipsius iudicium recurri".
[136] CONC. OECUM. VATIC: I, costituzione "Pastor aeternus", 18 luglio 1870
DS 3064. Il noto PALMIERI D., Tractatus de Romano Pontifice, Roma 1887 (in IV
ed. riveduta e corretta da G. Filograssi, 1931) difende la pienezza della
potestà primaziale nel senso non solo positivo, d'un potere cioè che "per suo
diritto ordinario s'estende a tutto nei confronti di tutti", ma anche esclusivo
d'una pienezza che "o formalmente o virtualmente comprenda ogni potestà con cui
la Chiesa vien governata e che pertanto è la sorgente immediata della
giurisdizione episcopale", p. 207-210.
[137] S. BERNARDO, De consider. 2,8 PL 182, 751