L’ASSEMBLEA DI GRAZ: 
SPECCHIO
 DELL’ATTUALE SITUAZIONE ECUMENICA

   Se paragonata a quella precedente di Basilea, la seconda assemblea ecumenica europea di Graz è stata priva dello slancio tipico di una nuova partenza. Mentre a Basilea fu fatto almeno il tentativo di riunire le chiese per dare una testimonianza comune circa i grandi problemi del nostro tempo, per Graz le aspettative furono fin dall’inizio più modeste. Si ripeteva continuamente che l’assemblea doveva servire all’incontro e allo scambio reciproco, ma che il tempo per una nuova partenza non era ancora venuto. Prima di ogni altra cosa sembrava urgente acquisire insieme un’immagine più chiara sulla situazione delle chiese in Europa.

Il cuore di parecchi responsabili delle chiese non pulsava veramente per il buon successo della conferenza. La preparazione fu portata avanti con il minimo di spese. Certo, ne scaturì un documento preparatorio che alla fine si poté leggere. Ma minore energia fu posta per elaborare prospettive comuni. Soprattutto i rappresentanti ufficiali della chiesa cattolica fecero in modo da impedire che l’assemblea giungesse a risultati comuni vincolanti. Lo status dell’assemblea ricevette così un grado per quanto possibile basso.
 
   Basilea era stata un avvenimento dai molteplici livelli. Vi presero parte non solo i delegati ufficiali, ma anche gli esperti e soprattutto i rappresentanti di numerosi movimenti e gruppi ecclesiali. Si realizzò un’osmosi tra i diversi livelli dell’assemblea. In verità anche l’assemblea di Graz era composta in modo simile. Di nuovo erano presenti in grande numero i rappresentanti dei movimenti e dei gruppi ecclesiali. Ma la loro voce riuscì a farsi ascoltare in misura molto minore. I delegati furono riservati nelle loro dichiarazioni e decisioni. Certo fu formulata e approvata tutta una serie di risoluzioni. Ma già pochi mesi dopo l’assemblea fu chiaro che non erano state poste le premesse per una realizzazione comune delle proposte. Soprattutto da parte cattolica si prestò grandissima attenzione affinché non si giungesse a iniziative che limitassero sia pur in misura minima l’autorità della chiesa cattolica. Perciò Graz resterà con tutta probabilità un avvenimento isolato.

   Al contrario di Basilea, l’assemblea di Graz ha fatto sorgere l’immagine di una chiesa che si occupa di se stessa. I grandi problemi che scuotono l’Europa furono certo enumerati, ma non furono veramente discussi. L’attenzione dei delegati fu monopolizzata dalle relazioni o meglio dalla mancanza di relazioni costruttive tra le chiese. Una volta di più fu evidente che le chiese dell’Europa sono lontane, oggi come un tempo, da una comprensione comune del compito ecumenico.
Dichiarano di aderire al movimento ecumenico, ma ognuna cerca di far avanzare la sua concezione.
Nei giorni immediatamente precedenti all’inizio dell’assemblea, si registrò anche un contrasto tra la chiesa cattolica romana e la chiesa ortodossa orientale. 

L’assemblea inoltre fu strumentalizzata allo scopo di allargare le sfere d’influsso «ecumeniche», divenne un fatto spettacolare, di cui i mass media s’impadronirono con piacere. Invece di ricevere un messaggio comune, l’opinione pubblica vide uno spettacolo di discordia e di lotte di potere «ecumeniche» tra le tradizioni religiose dell’Europa. In una risoluzione l’assemblea di Graz avanzò la richiesta che fosse elaborata una specie di «Charta ecumenica» [poi firmata a Straburgo nel 2001 -ndR]. Si doveva redigere un documento sui «diritti e doveri ecumenici fondamentali». La formulazione è caratteristica. Al centro dell’attenzione non sta la comunione delle chiese in vista di una testimonianza comune, bensì un codice di comportamento, che regoli alla meno peggio i rapporti reciproci. I primi passi, avviati dopo Graz per la realizzazione di questa risoluzione, sono tutt’altro che incoraggianti. La proposta sembra semplicemente tendere al fatto che le chiese circoscrivano ciascuna la loro posizione e strategia nell’ambito del movimento ecumenico. Il dovere di «non ingerenza» nelle questioni interne delle chiese sembra stia particolarmente a cuore ad alcuni partecipanti al dialogo.

   Da cosa dipende che il movimento ecumenico sia giunto ad un tale punto morto? Come mai l’assemblea di Graz ha sprigionato finora così poche nuove energie? Il blocco ha motivazioni, che secondo la mia opinione, fino al momento attuale non sono state ancora colte e articolate in modo sufficiente. 

1. La forza della storia 

   La situazione ecumenica si è notevolmente complicata dopo il 1989. Le chiese dell’Europa orientale si erano potute presentare solo in misura limitata nell’assemblea di Basilea. Ma dopo la caduta del muro di Berlino la realtà è cambiata. Si sono svegliate energie che un tempo erano nascoste. A Oriente, come pure in fondo anche in Occidente, è diventata necessaria una nuova determinazione delle reciproche posizioni. Il movimento ecumenico ha dovuto in un certo senso cominciare di nuovo. Quello che era timidamente cresciuto in seguito alla fondazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) e con il concilio Vaticano II, d’un sol colpo era messo in discussione e doveva essere ripensato in modo nuovo.

   Lo sconvolgimento che fece tremare l’Europa ebbe conseguenze anche per le chiese. Conflitti dimenticati, ma in realtà non ancora risolti, scoppiarono con nuova forza e le chiese vi furono coinvolte. Riflessi che si credevano morti ripresero vita. La comunione, cresciuta tra le chiese fino a quel momento, non bastava più per concordare risposte comuni. Mentre a Basilea si erano potuti cogliere con una certa libertà i grandi problemi del nostro tempo, ora i rapporti tra le chiese venivano oscurati da nuovi pesi, da nuove forme di aggressività confessionale da una parte, e da sfiducia dall’altra.
 
   Chi aveva creduto che la separazione confessionale fosse sostanzialmente superata, dovette constatare che le sue radici andavano molto più in profondità di quello che si era supposto nel movimento ecumenico. Soprattutto si è manifestata in modo nuovo l’opposizione tra Occidente e Oriente. L’antichissima linea di separazione tra la chiesa occidentale e il mondo dell’Ortodossia si è resa nuovamente visibile, dopo che il suo significato era stato nascosto per lungo tempo a causa del conflitto tra le superpotenze.

   L’assemblea di Graz avrebbe potuto dare il suo contributo per una chiarificazione di questa nuova situazione solamente sulla base di una analisi comune coerente. Non si è posto mano a tale impresa: nel momento decisivo, sia nella progettazione come nello svolgimento della conferenza, sono mancati i punti di appoggio capaci di sostenerla. 

2. Divergenze non risolte 

   L’assemblea di Graz ha fatto vedere quanto poco solida sia ancor oggi la base comune delle chiese. Si giunse continuamente a situazioni di blocco. Le discussioni mostrarono in particolare come fosse poco ovvia, oggi come ieri, la comprensione tra cristiani di Occidente e di Oriente. Si fece sentire il peso dello sviluppo separato dell’Est e dell’Ovest europei dopo la seconda guerra mondiale, nel caso della Russia addirittura dopo il 1917. Numerosi temi che nelle chiese occidentali sembravano discussi a fondo, oppure di cui si pensava che si fosse iniziato a discutere sufficientemente, si dimostrarono nuovamente controversi. Al contrario non fu percepita veramente l’urgenza dei temi che occupano i cristiani dopo la caduta del comunismo. Temi come la valutazione del processo di modernizzazione, il rapporto tra libertà e giustizia sociale, il ruolo della chiesa nella vita della nazione, la solidarietà col popolo ebraico, soprattutto il rapporto con le altre religioni sono visti oggi in modo così diverso che lo scambio dei pareri incontra continuamente ostacoli. Il dialogo tra Est e Ovest è chiaramente ancora agli inizi.

   Incidenza ancora maggiore per il movimento ecumenico hanno i temi che vengono considerati tabù dalla chiesa cattolica. A Graz non si è potuto discutere su temi che per molti cristiani sono d’importanza esistenziale. Costa caro oggi il fatto che i dialoghi bilaterali, intrapresi dalla chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano II, si siano limitati, visti nel loro insieme, ai dissensi dei secoli passati, escludendo le divergenze attuali. Quello che il magistero della chiesa cattolica ha da dire sulla sessualità umana, sulla protezione della vita non-nata, sui problemi della popolazione mondiale, non è mai diventato finora oggetto di dialogo e quindi non può figurare all’ordine del giorno di un’assemblea multilaterale. Solo controvoglia la chiesa cattolica si lascia coinvolgere in dibattiti circa il ruolo della donna. Specialmente il problema dell’ordinazione della donna al sacerdozio è un punto nevralgico che viene evitato per quanto possibile.
 
Certo un accordo su questi delicati problemi non si può aspettare nel prossimo futuro. Ma si deve veramente raggiungere un accordo, prima che sia possibile parlare di questi problemi in una assemblea? Una mèta importante del dialogo ecumenico consiste non soltanto nello stabilire e mantenere un consenso, ma anche nel mettere a fuoco le divergenze. La comunione viene già fatta avanzare, se i partner riescono ad articolare insieme dove si differenziano uno dall’altro (agree to disagree). Ogni comunione che non riesce ad esprimere elementi decisivi poggia su basi vacillanti. Per questo motivo Graz è stata per molti un’esperienza frustrante. 

3. Basilea - Rio de Janeiro - Graz 

  Nell’assemblea di Vancouver (1983) il CEC chiamò le chiese cristiane a impegnarsi in un processo di obbligo reciproco per la giustizia, la pace e la salvaguardia della creazione. Subito non si ebbe risposta. Il CEC impiegò diversi anni per dare forma e contenuto al movimento proposto. La difficoltà maggiore consisteva nello spiegare in modo convincente come questi tre concetti dovevano essere compresi e soprattutto in quale rapporto uno con l’altro si debbano vedere. In sostanza la formula si riferiva ad un triplice pericolo che minaccia il futuro: lo sfruttamento economico con le sue conseguenze disastrose per larga parte dell’umanità, i conflitti bellici e la progressiva distruzione delle condizioni della vita sul pianeta Terra. Come si possono affrontare questi tre pericoli nello stesso tempo? Come si può raggiungere un ordine in qualche misura giusto, senza spingere all’estremo lo sfruttamento delle risorse? Oppure all’inverso: come si può aver cura delle risorse della terra, senza mantenere per sempre l’ingiustizia sociale?

   Il CEC si era occupato di questo dilemma già nei primi anni Settanta. L’assemblea generale di Nairobi (1975) dichiarò come una delle sue priorità la lotta per una società giusta e sostenibile (sustainable), e pochi anni dopo (1979) una grande Conferenza internazionale trattò il problema di quale influsso dovessero avere la scienza e la tecnologia sulla società futura. Per quanto tempo si può contare sulla crescita economica, senza che la qualità della vita sia danneggiata? Come si può evitare che venga sacrificata la parte dell’umanità senza dubbio già debole economicamente? Diventava sempre più evidente che l’attuale corso della società non poteva essere mantenuto. Il movimento per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato era il tentativo di portare all’interno delle chiese questa visione.
 
   L’assemblea di Basilea diede a tale movimento una spinta in avanti inaspettata. Per diversi anni la proposta fu considerata senza giungere a conclusioni concrete, ma ora di colpo fu posta al centro dell’attenzione. Sia il messaggio come i resoconti dell’assemblea dicono con incoraggiante chiarezza che è necessario un nuovo orientamento. Il messaggio è costruito proprio sulla parola-chiave «conversione». È vero che a Basilea non fu compiuta una accurata analisi, ma si creò un clima in cui con una certa naturalezza si parlava dell’urgenza di un cambiamento molto ampio. Il tempo urge! Un impegno responsabile per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato non può essere rimandato.

   Tre anni dopo (1992) ebbe luogo a Rio de Janeiro la Conferenza dell’ONU sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED). Sotto molti aspetti può essere considerata come un corrispondente laico all’assemblea delle chiese a Basilea. La problematica era grosso modo la stessa. La Conferenza rispose al dilemma con il concetto di «sviluppo sostenibile» (sustainable development), cioè uno sviluppo che tenga conto dei diritti delle generazioni future e che tuttavia rimanga vincolato al dovere di vincere la miseria e la povertà qui e ora. La Conferenza formulò la cosiddetta «Dichiarazione di Rio», una serie di orientamenti, che dovevano servire come guida per lo sviluppo ulteriore. Furono approvate due convenzioni sul cambiamento del clima e sulla bio-diversità e si presentò un piano dettagliato per i passi successivi, la cosiddetta «Agenda 21». Sappiamo tutti che cosa sono diventati gli impulsi di Rio. Per quanto in linea di principio siano stati accolti positivamente da ogni parte, dopo cinque anni il senso della loro urgenza si è perduto.
 
   Non sarebbe stato lecito aspettarsi che l’assemblea ecumenica europea di Graz diventasse il portavoce delle intenzioni di Rio? Non c’erano sufficienti punti di appoggio derivanti da Basilea, per cui Graz otto anni dopo avrebbe potuto prendere la parola su questo argomento e ammonire con approfondita conoscenza di causa? In realtà, a questo riguardo, ciò avvenne solo in misura minima. L’assemblea era troppo occupata con se stessa, per potersi aprire a questa sfida. Si accontentò di alcune poche risoluzioni, in cui le chiese vengono richieste di occuparsi di questa problematica in modo ancor più coerente. Alcuni mesi dopo Graz si può già riconoscere che anche queste risoluzioni finiranno presto nel dimenticatoio.
 
   Perché questo atteggiamento riluttante? La spiegazione si trova anche qui in una profonda differenza che divide le chiese. Mentre la salvaguardia della creazione è diventata un tema prioritario per i membri del CEC, chiese ortodosse comprese, la chiesa cattolica persiste, almeno a livello ufficiale, in una strana indifferenza, per me inspiegabile. Non hanno avuto alcun successo tutti i tentativi fatti, a partire dagli anni ’80, per ottenere che la chiesa cattolica desse ufficialmente una testimonianza comune per la salvaguardia della creazione. La chiesa cattolica ha rifiutato la collaborazione con il CEC nel movimento per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato e nello stesso tempo ha così soffocato il lavoro comune che si era sviluppato qui e là in Europa in seguito a Basilea. Fu ignorato l’invito a impegnarsi con il CEC per la precisazione delle convenzioni sul cambiamento del clima e la bio-diversità. Fra le righe fu fatto continuamente capire che questi temi non rivestono alcuna priorità per la chiesa cattolica. Anche a Graz quindi il tema non poté veramente portare frutto.

   Uno sguardo alle dichiarazioni del papa sul tema dell’ecologia conferma il basso grado di valore che il tema occupa nel magistero della chiesa cattolica. Sono frequenti le esternazioni sulla giustizia sociale. Poveri, oppressi e perseguitati hanno nel papa il loro intercessore; sotto questo aspetto viene data una testimonianza per la quale possono essere riconoscenti non solo i cristiani appartenenti alla chiesa cattolica. Ma circa il fatto che siano posti dei limiti allo sfruttamento del pianeta, non c’è quasi parola. Una contraddizione che salta agli occhi di ogni osservatore interessato. Da una parte il papa parla con enfasi sulla protezione della vita non ancora nata; dall’altra la qualità della vita delle future generazioni non costituisce alcun tema. Non c’è alcuna traccia di ciò sia nell’enciclica sulla vita (Evangelium vitae) – che fu pubblicata durante la decisiva conferenza dell’ONU sul clima svoltasi a Berlino nel 1995 – sia nei numerosi discorsi del papa sull’anno 2000. L’unica eccezione è costituita dal messaggio del papa per la giornata della pace 1990. Ma il testo rimane così isolato nell’insieme dei discorsi e delle attività del papa che non vi si può dare molto peso. Colpisce in particolare il disinteresse che si manifesta nel miserevole intervento fatto dalla Santa Sede alla conferenza dell’ONU di New York (giugno 1997) circa l’attuazione delle decisioni del vertice mondiale di Rio de Janeiro (1992). 

    Giudicate voi stessi. L’arcivescovo Jean-Louis Tauran loda il fatto che i concetti di environment worthy of human beings e di sustainable development siano diventati patrimonio comune e poi prosegue: «La Santa Sede si compiace di notare questo, poiché la chiesa cattolica ha sempre creduto che la causa dell’ambiente è la causa della persona umana, che è allo stesso tempo sia spirituale che materiale, custode e consumatrice delle risorse naturali e similmente di ciò che viene prodotto dalla nostra intelligenza e dalle nostre capacità tecniche». L’arcivescovo si dimostra poi particolarmente lieto perché la dichiarazione di Rio contiene la frase: «Gli esseri umani sono al centro degli interessi per uno sviluppo sostenibile; essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura». Coglie poi l’occasione per protestare ancora una volta contro l’utilizzo dei concetti «igiene riproduttiva», «igiene sessuale» e «pianificazione familiare» (reproductive health, sexual health, family planning). Rio ci impegna al dovere di «proteggere la natura allo scopo di difendere l’umanità». Mentre non viene menzionata la responsabilità dell’attuale generazione, la soluzione del problema viene spostata alla prossima generazione: fino dalla più tenera età deve essere educata ad un sano rapporto con la natura. Il discorso si conclude – e come poteva essere altrimenti! – con un riferimento al Cantico delle creature di san Francesco. 

   Non fa dunque meraviglia che le risoluzioni dell’assemblea di Graz abbiano un tono ipocrita. Fa meraviglia piuttosto che il tema abbia giocato invece un ruolo considerevole nell’ambito più vasto della conferenza. Fra i movimenti e i gruppi che si sono recati a Graz, furono numerosi quelli, anche cattolici, che si dettero da fare affinché l’assemblea prendesse una posizione più chiara. L’impazienza alla base delle chiese è chiaramente in crescita. La speranza non è quindi infondata che l’immagine possa cambiare nei prossimi anni. D’altra parte, dobbiamo però rassegnarci che la voce ecumenica delle chiese giunga troppo tardi. 

4. Due concezioni del movimento ecumenico  

   Questa situazione di blocco ha anche altri motivi. Graz ha reso evidente che nel movimento ecumenico si fronteggiano senza trovare un accordo due concezioni di chiesa. Il contrasto viene di rado discusso apertamente e tuttavia si riscontra in ogni ambito del movimento ecumenico. Mentre gli uni partono dal presupposto che il cammino verso l’unità deve essere aperto soprattutto mediante iniziative che coinvolgono il popolo di Dio nel suo insieme, gli altri sono convinti che il fondamento dell’unità dev’essere posto dalle autorità competenti. I primi attribuiscono grande significato alle azioni spontanee, mentre i secondi ricordano il ruolo del ministero istituito da Dio ad ogni livello della vita ecclesiale.

   Il contrasto ha inciso su Graz. Mentre i primi speravano in un evento che desse ispirazione per il futuro, i secondi temevano che fossero suscitate false speranze. Agli uni stava a cuore di rendere manifesta durante l’assemblea la comunione già esistente tra le chiese europee, traendone quindi conseguenze per il futuro, mentre agli altri interessava che la libertà decisionale delle autorità competenti non fosse sminuita. Queste ultime non dovevano essere messe davanti a faits accomplis (a fatti compiuti). Si poteva ascoltare l’affermazione che la «chiesa» (in realtà si intendevano con questa parola i suoi ceti direttivi) non poteva essere governata dai movimenti e dai gruppi. Secondo questa concezione l’autentico movimento ecumenico si realizza nelle strutture e nelle vie intraprese e controllate dalle autorità della chiesa. Queste due concezioni sono entrate in frizione reciproca sia nella fase preparatoria sia durante lo svolgimento dell’assemblea. Il contrasto determina soprattutto il lavoro da fare dopo l’assemblea.
   Il conflitto non è nuovo. Ha accompagnato il movimento ecumenico da sempre. Ma si è acuito essenzialmente con la partecipazione attiva della chiesa cattolica.

   Le sue radici sono profonde. Sullo sfondo si riscontrano opzioni ecclesiologiche diverse. Per tutte le chiese si deve in prima linea conservare in ciascun luogo (in each place) la comunione in Cristo. Dove si riuniscono cristiani battezzati, dove l’Evangelo viene predicato e si celebrano i sacramenti, dove si prega insieme e si dà una testimonianza comune, dove i cristiani vivono in contatto col loro prossimo, là è presente la chiesa di Gesù Cristo. Ma le singole confessioni hanno una diversa comprensione dell’unità da estendersi. Secondo la tradizione delle chiese riformate, Cristo non ha istituito nessuna struttura sovraordinata. L’unica chiesa «in tutti i luoghi» (in all places) diventa visibile quando le chiese locali s’incontrano, si consultano, decidono insieme e danno una testimonianza comune. L’iniziativa viene dal basso. Le comunità locali, che sorgono grazie all’annuncio della Parola, sono in ultima analisi i soggetti attivi, per cui la cattolicità della chiesa prende forma tangibile. La chiesa è «conciliare» per sua natura. Invece, secondo la tradizione della chiesa cattolica, fin dall’inizio la chiesa ha ricevuto una struttura che le permette di apparire come un corpo. In corrispondenza al collegio degli apostoli, la direzione della chiesa spetta al collegio dei vescovi. Nella chiesa cattolica, in corrispondenza a Pietro, il vescovo di Roma presiede al collegio dei vescovi. L’unità della chiesa viene garantita mediante questa struttura.
    Queste differenze si fanno notare anche nel modo e nello stile con cui si concepisce il movimento ecumenico. Mentre quest’ultimo per gli uni è anzitutto un movimento «dal basso», gli altri danno un’importanza molto più grande alla ricostituzione di una comune struttura «cattolica» della chiesa.
 
   Nel movimento ecumenico, che ha preso forma nel CEC, predomina fino ad oggi la prima concezione. L’unità deve diventare realtà anzitutto «in ciascun luogo». La comunità locale tuttavia non è una monade. Può essere comunità di Cristo solo in comunione con tutte le comunità locali. Dalla comunità locale con la sua struttura deriva grado per grado la struttura conciliare della chiesa una. Essa viene promossa e sostenuta da movimenti e da una comunione sempre più estesa del genere più diverso. Entrambe le dichiarazioni di Nuova Delhi (1961) e Nairobi (1975) sulla «unità che noi cerchiamo» sono caratteristiche per il modo di pensare prevalente nel CEC. La comprensione ha come punto di partenza l’unità locale; «tutti i battezzati in ciascun luogo sono impegnati a formare una comunione». La dichiarazione di Nairobi sviluppa su questo sfondo la visione di una comunione conciliare. Per quanto divergenti siano le opinioni circa questo modo di raffigurare l’unità, tuttavia sono rappresentative per il CEC e le chiese che si identificano con esso. La forte sottolineatura dell’ unità locale ha senza dubbio contribuito in forte misura al fatto che in così tanti luoghi siano stati spezzati i confini tra le confessioni, anche quelli della chiesa cattolica.

   D’altra parte questo modo di vedere doveva presto o tardi entrare in conflitto con l’ecumenismo ufficiale della chiesa cattolica. Infatti, secondo la comprensione della chiesa cattolica, il cammino verso l’unità deve essere percorso passo per passo sotto la guida della gerarchia. Per questo la chiesa cattolica ha optato fin dall’inizio per una rete di relazioni bilaterali con altre chiese a livello internazionale e ha mantenuto un’estrema riservatezza di fronte alle iniziative multilaterali. Ha preso la decisione di non diventare membro del CEC e anche a livello regionale e nazionale si lascia coinvolgere nella piena adesione come membro di consigli ecumenici solo a condizioni accuratamente formulate. Si spera piuttosto che attraverso una lunga serie di dialoghi bilaterali e soprattutto grazie allo slancio di una chiesa cattolica rinnovata si possa preparare il terreno per l’unità. L’iniziativa dell’enciclica Ut unum sint è un indice caratteristico. Le altre chiese vengono invitate a esprimersi su di un possibile rinnovamento dell’ufficio petrino oggi esercitato dal vescovo di Roma. Si pensa in tal modo che si debba giungere al riconoscimento generale di questa particolare struttura della chiesa cattolica romana. 

5. Come andare oltre?  

   È possibile andare oltre questa costellazione insoddisfacente? Quali vie di uscita rimangono aperte? È poco probabile che nel prossimo futuro si possa raggiungere un accordo su queste differenti impostazioni. Hanno radici troppo forti nella tradizione e nella spiritualità delle chiese perché si possano avvicinare; la sfiducia reciproca è troppo profonda perché già oggi si possano vedere soluzioni a portata di mano. Sulla base dell’esperienza di Graz è poco verosimile che in un futuro prevedibile possa aver luogo un’assemblea impostata in tale modo.

   Ma dev’essere questa l’ultima parola? Se fosse così, dovremmo tirare la conclusione che il movimento ecumenico è condannato all’immobilità. Infatti, senza la riconciliazione di entrambe le concezioni del movimento ecumenico, sarà impossibile riunire in un tutt’uno le innumerevoli iniziative ecumeniche che sono sorte negli ultimi decenni. Certo verranno ancora condotti dialoghi e saranno celebrati baci di riconciliazione a supremi livelli. Ma il movimento ecumenico alla base sarà costretto a ritirarsi oppure a percorrere la sua strada. L’ecumenismo ufficiale delle chiese diventerà sempre più irrilevante per i gruppi di base. Che cosa si possono aspettare infatti da autorità ecclesiali i cui occhi sono chiusi per i grandi problemi del nostro tempo? Per potersi sviluppare in modo libero e costruttivo, il movimento ecumenico ha bisogno di un contenitore (Gefäß). Se non vogliono essere superate dalla storia, le chiese non hanno altra scelta, se non quella di costruire una comunione provvisoria. Deve nascere una struttura-quadro, una cornice che permetta loro di discutere insieme, di scambiarsi opinioni e di agire; deve sorgere una comunione preconciliare, che anticipi qualcosa della comunione che un giorno unirà le chiese. Senza una tale cornice sia gli sforzi per l’unità sia la testimonianza comune delle chiese si dissolveranno.
 
   Come si può evitare tutto questo? Il primo passo consiste senza dubbio nel non considerare più il contrasto come un tabù, ma nel discuterlo apertamente e così diventarne coscienti. Invece di perdersi in discussioni sopra «diritti e doveri» delle singole chiese nel movimento ecumenico, l’attenzione delle future riflessioni comuni dovrebbe concentrarsi anzitutto su questo aspetto. 
   E in una prospettiva più lunga si deve veramente escludere che su questo punto si arrivi, se non ad un accordo totale, almeno ad una intesa? Per la possibilità di una soluzione parla il fatto che le due concezioni non sono distribuite «in modo impermeabile» nelle diverse chiese. Per quanto esse abbiano avuto un’origine confessionale, da lungo tempo hanno superato i confini delle varie confessioni e sono diventate un contrasto al loro interno. Anche nelle chiese evangeliche si fa strada l’idea che la comunione conciliare deve acquistare forma in collegamento con le strutture tradizionali della chiesa, e anche nella chiesa cattolica una base divenuta consapevole reclama un diritto più grande all’iniziativa. Non sarebbe dunque possibile soddisfare questi due interessi nel movimento ecumenico?

   Ma anche se entrambe le concezioni sono in fondo complementari, una soluzione viene messa oggi in pericolo a causa degli irrigidimenti che aumentano da una parte e dall’altra. Da un lato si teme l’alito di morte che viene dalle gerarchie, dall’altro c’è una specie di ossessione di riconoscere come chiesa solo la vita ecclesiale controllata dalle autorità competenti. Ad una considerazione più attenta tutte le ecclesiologie rappresentate nel dialogo ecumenico permettono il lavoro comune nel quadro di una comunione preconciliare. E non dovrebbe il papa, che vuole certo esercitare il ministero dell’unità, porgere per primo la mano per la soluzione di un problema, che in modo così evidente rende più difficile il cammino verso la comunione di tutti i cristiani? 

   Si avvicina l’anno 2000. Non può diventare l’occasione per una nuova partenza? Molti indizi dicono che non si possono abbandonare i binari su cui si è partiti. Ma l’urgenza delle sfide con le quali le chiese sono confrontate, non lascia aperta altra strada se non la convergenza, per amore di quella testimonianza comune di cui le chiese sono debitrici davanti al mondo. 
 

Lukas Vischer,
direttore della Commissione Fede e Costituzione del CEC, 
osservatore del CEC al concilio Vaticano II, 
professore emerito di teologia ecumenica all’Università di Berna, 
pastore a Sciaffusa (Svizzera) 

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[Fonte: Credere Oggi lug/ago 1998 - Traduzione dal tedesco a cura di Luigi Dal Lago]

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