Da lungo tempo non manchiamo di denunciare gli errori del Concilio Vaticano
II e dei testi successivi pubblicati dagli stessi Pontefici, e certo non è
mancato chi ha rimproverato la Fraternità San Pio X o lo stesso Mons. Lefebvre
di ergersi a giudice del Magistero o del Papa stesso. Lungi da noi un simile
atteggiamento, abbiamo sempre fondato i nostri attacchi alle nuove dottrine sui
documenti del Magistero dei Papi, presentando le difficoltà che nascono dal
confronto dei testi del Magistero di un tempo con quelli usciti dal Concilio e
dal post-Concilio, difficoltà che arrivano in alcuni punti a insolubili
contraddizioni.
Ora dobbiamo cercare di capire come questo sia possibile: se i testi
conciliari fossero magisteriali, a nessun cattolico sarebbe lecito discuterli,
tantomeno se dovessero godere della prerogativa dell’infallibilità. E a nessun
cattolico sarebbe lecito giudicare il Magistero alla luce della Tradizione,
essendo il Magistero interprete di questa (e della Scrittura) e non viceversa; e
forse nemmeno sarebbe lecito a un cattolico misurare un documento magisteriale
con altri precedenti testi del Magistero stesso, se non sottoponendo umilmente
la questione alle autorità nel caso non arrivasse a sciogliere un dubbio.
D’altronde qui sta anche la questione tanto agitata della continuità del
Concilio con il Magistero precedente: se in alcuni punti tale continuità si
rivela da un punto di vista logico del tutto impossibile, non potendo il
Magistero, in virtù delle sue prerogative divine, contraddire se stesso, forse
c’è qualcosa che non ha funzionato. A meno di limitarsi ad affermare contro ogni
evidenza che tale continuità esiste perché deve esistere.
In questo breve testo ci proponiamo dunque di ricapitolare argomenti già noti
in forma più sistematica, onde mostrare che non si può parlare del Vaticano II
come di un Concilio che vuole dare un insegnamento (men che meno infallibile),
né degli atti successivi dei Papi come di atti dotati d’autorità magisteriale.
Essendo il solo Papa interprete dei suoi atti, ci limiteremo a citare le più
ufficiali dichiarazioni dei Papi medesimi. Se l’uso del potere magisteriale si
vedrà escluso da questi atti, si potrà capire che essi divengono opera di un
dottore privato (o di un insieme di dottori privati) e come tali contestabili e
analizzabili alla luce del vero Magistero. La nostra analisi, vogliamo anche far
notare, si pone sul piano dell’agire e non dell’essere: non discutiamo qui se
Vaticano II sia stato riunito come Concilio ecumenico, ma vediamo quale valore
abbia voluto dare ai suoi atti. In effetti non interessa a noi qui sviluppare in abstracto
la questione dei gradi d’autorità del Magistero e del loro valore: ma
al di là dei termini usati, capire quale tipo di assenso questa autorità
richiede in concreto a questi atti: non un Magistero globalmente preso, che non
significa nulla, ma degli atti precisi con un loro preciso valore che sarà
l’autorità a spiegarci.
Un Concilio infallibile?
La suprema autorità della Chiesa, cioè il Papa, come insegna il Concilio
Vaticano I e come ribadisce il catechismo, è colui che è in grado di dare un
insegnamento infallibile, ovvero di definire una dottrina come rivelata da Dio,
contenuta nel deposito della Fede, insegnata da Gesù Cristo e dagli Apostoli.
Questa infallibilità si esercita ogni qual volta il Papa insegni una verità di
fede (o condanna l’errore opposto) con la volontà di imporre a ogni cristiano di
aderirvi e credervi: in tal caso lo Spirito santo agisce come una barriera che
blocca ogni errore (non come una sorta di ispirazione che suggerisce la verità).
In un atto magisteriale del Papa si può quindi sempre supporre l’uso di tale
autorità, a meno che egli non lo escluda: essendo infatti l’atto magisteriale un
atto volontario, il Papa dovrà volerlo porre: altrimenti parlerà come dottore
privato, secondo la nota e classica distinzione.
Si considera che tale autorità possa svolgersi esercitarsi dal Papa solo o
dal Papa che unisce a sé il corpo dei Vescovi per un atto comune. Beninteso il
soggetto dell’azione sarà sempre il Papa, cambierà solo la modalità d’azione. Il
Papa potrà agire insieme ai Vescovi poi in due modi: o mentre il corpo
episcopale è disperso nelle varie sedi del mondo, nell’insegnamento quotidiano
delle verità comuni della fede e del catechismo (Magistero ordinario
universale); o mentre il corpo dei Vescovi è riunito da lui nel Concilio
ecumenico, in particolare per definire le verità messe in dubbio dagli eretici e
condannare gli errori.
In questo senso Vaticano II è stato un Concilio diverso dagli altri. Non ha
voluto usare del supremo potere di Magistero, dell’infallibilità, nemmeno per
promulgare leggi universali in senso classico (anch’esse sono considerate
infallibili, cioè conformi a fede e morale).
Che cosa ci permette di affermarlo, andando contro la presunzione di diritto
che vuole che un insegnamento conciliare sia dotato di infallibilità? L’unico
interprete del Magistero, il Papa, ha voluto così. Già Giovanni XXIII nel
discorso di apertura del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre
1962), ha spiegato che questo non sarebbe stato un Concilio come gli altri, ma
che avrebbe agito diversamente: sarebbe stato «un Magistero, il cui carattere è
preminentemente pastorale»; senza lo scopo della «discussione di questo o di
quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa», che il Papa supponeva
scontato; né il Concilio intende formulare condanne: semplicemente riproporre la
dottrina «in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca».
Questa nuova tendenza pastorale, e soprattutto l’esclusione di definizioni
dogmatiche, sarà in seguito confermata nei modi più ufficiali. A due riprese, il
6 marzo e il 16 novembre 1964, la Commissione dottrinale, cui era stato chiesto
quale doveva essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello
schema sulla Chiesa circa la Collegialità, rispose: «Tenendo conto della
procedura conciliare e della finalità pastorale del presente Concilio, questo
Santo Sinodo definisce come vincolante per la Chiesa soltanto quello che in
materia di fede e di morale avrà apertamente dichiarato come tale. Le altre cose
che il S. Sinodo propone, in quanto dottrina del Supremo Magistero della Chiesa,
tutti e ciascun fedele devono accoglierle e aderirvi secondo la mente dello
stesso Santo Sinodo, quale si deduce sia dalla materia trattata sia dal tenore
dell’espressione verbale, secondo le norme dell’interpretazione teologica». Si
afferma dunque che nel Concilio “pastorale” la presunzione che l’insegnamento
sia infallibile cessa, e che ci vuole una dichiarazione espressa insieme al
semplice fatto di rivolgersi a tutta la Chiesa. Ciò suppone una volontà abituale
del Papa a non insegnare, o almeno a non insegnare infallibilmente, sempre
presunta a meno che non si specifichi il contrario. Ci si deve dunque chiedere
ora se una tale volontà di definire sia mai stata “apertamente dichiarata”.
Paolo VI ritornò due volte su questo punto. Nel discorso di chiusura del 7
dicembre 1965 afferma: «...il magistero della Chiesa, pur non volendo
pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole
insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e
l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre
conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed
amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da
tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di
esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria». Di nuovo nel
discorso del 12 gennaio 1966: «Vi è chi si domanda quale sia l’autorità, la
qualificazione teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai insegnamenti,
sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti
l’infallibilità del magistero ecclesiastico. E la risposta è nota per chi
ricorda la dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964, ripetuta il 16 novembre
1964: dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare
in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha
tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero
ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere
accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del
Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti». Lo stesso Joseph
Ratzinger ricorderà queste spiegazioni nel suo Lexicon für Theologie und Kirche:
«Il Concilio non ha creato alcun nuovo dogma su nessuno dei punti toccati (...)
Ma i testi includono, ciascuno secondo il proprio genere letterario, una
proposizione ferma per la coscienza del cattolico».
Appurato che Vaticano II non contiene sentenze infallibili, e non per
mancanza di materia (molti punti abbordati sono espressi in termini abbastanza
formali, tanto che in altri Concili si sarebbero tenuti per dogmatici), resta da
vedere che cos’è questo “supremo magistero ordinario” non infallibile, di cui
parla Paolo VI, alla luce di quanto egli stesso e il Concilio affermano, visto
che sia il Papa sia la Commissione ricordano che bisogna leggere i documenti
secondo la loro natura e il loro tenore, nello spirito di quel dialogo che il
Concilio ha deciso di instaurare.
Quale Magistero?
Resta ora da vedere che cosa sia questo insolito Magistero del Concilio, che
cosa significhi un Magistero non infallibile cui bisogna aderire ma secondo il
genere letterario, il tenore o la natura propria di ogni testo. Alcuni teologi
parlavano un tempo di questo Magistero non infallibile ma autorevole,
contraddire il quale non era peccato di eresia, ma cui bisognava prestare
l’ossequio interno e religioso dell’intelligenza. Si tratterebbe di questo? O
Vaticano II si smarca anche da questa categoria (che se esiste, sarebbe
assolutamente insolita per un Concilio ecumenico, riunito normalmente per
formulare solenni sentenze dogmatiche; anzi ci sarebbe da chiedersi se un
Concilio ecumenico, straordinario per definizione, possa porre atti di tale
Magistero “ordinario”; ma passiamo oltre)? In realtà Paolo VI presenta non solo
il Concilio ma tutta la sua chiesa (“conciliare”, come dirà anni dopo Mons.
Benelli) come il contrario del concetto stesso di Magistero, tanto verso
l’esterno quanto verso i fedeli.
E questo nell’enciclica programmatica del suo pontificato (Ecclesiam suam, 6
agosto 1964), che dà l’impronta a tutto quello che farà: «...Andate, dunque,
istruite tutte le genti, è l’estremo mandato di Cristo ai suoi Apostoli. Questi
nel nome stesso di Apostoli definiscono la propria indeclinabile missione. Noi
daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di
carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo. La Chiesa deve venire a
dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si
fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio (nn. 66-67) [...] Né possiamo fare
altrimenti, nella convinzione che il dialogo debba caratterizzare il Nostro
ufficio Apostolico (n. 69)». Questo dialogo esclude altre forme anche legittime
di rapporto con “il mondo”, che hanno caratterizzato la Chiesa del passato:
«Teoricamente parlando, la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali
rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana;
come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi,
anatematizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto
avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante
o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a Noi invece
che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime,
possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma
adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è
infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un
credente ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall’abitudine ormai
diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo
trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni,
nonché dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile
dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo.
Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di
simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna
aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d’inutile
conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione
dell’interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira
tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di
sentimenti e di convinzioni (nn. 80-81)». Dunque è evidente la rinuncia a
imporre la dottrina rivelata come vera all’interlocutore per la sua salvezza,
proponendo invece un dialogo per il suo vantaggio (che comunque non è
immediatamente la conoscenza della Verità rivelata) rispettandone la “dignità e
libertà”. Si esclude cioè il Magistero in ogni sua forma; si badi non vuol dire
di per sé che le verità della fede cessino di essere tali, ma che non si vuole
più imporle sotto forma di insegnamento in senso classico. Questo dialogo si
rivolge a tutti (n. 97 e ss.; ad extra è evidente nella prassi ecumenica e nella
nuova concezione dell’evangelizzazione, che meriterebbe una trattazione a
parte), si svolge anche all’interno della Chiesa cattolica come in una famiglia
(nn. 117-118) e al momento in cui Paolo VI scrive, quando il Concilio è a metà
del suo corso, è già operante (n.121). Questi principi trovano la loro più
solenne conferma nella Dignitatis humanae, la dichiarazione sulla libertà
religiosa: se ogni uomo (quindi compreso il cattolico) ha per la dignità della
sua stessa natura il diritto (non la possibilità, il diritto) di seguire la sua
coscienza in materia religiosa, quale autorità potrà mai pretendere di imporsi
ad essa? Eppure proprio del Magistero, che partecipa dell’autorità e della
scienza divina, sarebbe di imporsi alle coscienze e alle intelligenze di ognuno.
Può l’autorità della Chiesa, finché pubblicamente professa un tale principio e
non lo rinnega, voler fare atto vincolante di vero Magistero? Noi stimiamo di
no, non perché non ne abbia in assoluto la possibilità, ma perché non sembra
possa più averne l’intenzione.
Note sui testi dei papi post-conciliari
Questa presunzione di non esercizio dl Magistero nata con il Concilio è stata
confermata o smentita dai Papi successivi?
In primo luogo nessuno di essi ha rivisto quanto affermato in Dignitatis
humanae, anzi tale documento è sempre tenuto in onore, quindi la volontà di
imporre una dottrina alle coscienze sembra sempre lontana. Sulla dottrina del
Concilio stesso i Papi attuali, pur avendone imposta l’applicazione anche con
forza, continuano a dare indicazioni in linea con un’assenza di valore
magisteriale. In particolare proprio nei rapporti con coloro che questo Concilio
rifiutano o rifiutavano e proprio nelle parole del Papa regnante è emersa la
necessità di “interpretare” il Concilio, nel senso di una pretesa continuità.
Ossia questo Concilio non sarebbe la norma prossima della fede, sarebbe in sé
insufficiente a sapere cosa si deve credere, senza l’intervento di un superiore
criterio, quello della continuità o della Tradizione. Non un Concilio in senso
classico quindi, cioè un atto del Magistero che interpreta e definisce ciò che è
secondo la Tradizione e ciò che non lo è, ma tutto il contrario: un atto che ha
bisogno della Tradizione per essere interpretato e definito nel giusto senso. La
confusione interpretativa che ha portato alle più disastrose conseguenze, a
detta dello stesso Benedetto XVI, è la prova del nove di questa mancanza di
autorità e di chiarezza nei testi stessi. Si badi bene: poco importa ora se sia
possibile o no interpretare tali testi “nel senso della Tradizione” (ed è chiaro
che no, specie in alcuni punti); ma il fatto che l’autorità ammetta la necessità
di interpretazione (di ermeneutica) indica che ammette che non sono l’ultima
istanza, ciò che sarebbe proprio del Magistero.
Quanto all’uso dell’infallibilità nel “magistero” post-conciliare (le
virgolette sono d’obbligo), esso è stato escluso perfino dall’unico documento
che sembrava avere perfino l’aperta declaratio di cui parlava Paolo VI, la
lettera Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II contro l’ordinazione delle
donne (22 maggio 1994). Una risposta ufficiale della Congregazione per la
Dottrina della Fede del 28 ottobre 1995 confermava quanto già detto dal Card.
Ratzinger nella presentazione del documento: il documento non è un atto
dell’autorità infallibile («è un atto del Magistero pontificio ordinario, in sé
non infallibile») ma contiene una dottrina che è infallibile perché insegnata
dal Magistero Ordinario Universale. Così, nonostante le formule usate nella
lettera, nemmeno questo documento è infallibile: evidentemente il “nuovo
magistero” esclude la presunzione di infallibilità (un tempo normale per
qualsiasi documento dottrinale dei Papi) ovunque non sia più che esplicitamente
espressa.
Resta allora da vedere, al di là delle parole, come definisce se stesso
questo “magistero pontificio ordinario” dei Papi attuali. Richiede forse
un’adesione interna dell’intelligenza sotto pena di peccato grave, sebbene non
contro la fede, come dicevano i teologi? Oppure, malgrado il nome immutato,
ricopre un’altra realtà? Se da un lato Dignitatis humanae e il principio del
dialogo già esposto ci danno una risposta già chiara a priori, un altro
documento uscito sotto Giovanni Paolo II ci aiuta a discernere la nuova linea e
ben capire l’intenzione di questi Papi. Perché di questo si tratta: questi Papi
potrebbero proclamare dogmi e definire dottrine come tutti i loro predecessori,
ma sono essi stessi a dirci che non ne hanno intenzione, e solo alcuni illusi
possono credersi ancora ai tempi di san Pio X e non vedere oltre le parole.
Questo importante documento è Donum veritatis, pubblicato dalla Congregazione
per la Dottrina della Fede nel 1990, e ci spiega come venga inteso oggi il
Magistero.
Il testo presenta il lavoro dei teologi come quello dei profeti e dei
precursori che con la loro audacia portano avanti l’evoluzione del dogma, mentre
il Magistero veglia che tutto avvenga con ordine (riprendendo così quanto dice
Pascendi dei modernisti), e li spinge a considerare il loro sensus fidei (e non
il Magistero stesso) come norma ultima e sicura (n. 8). Il teologo è libero di
pensare ciò che vuole, purché la sua coscienza gli imponga di edificare in
dialogo con la Chiesa (presentata come comunità depositaria collettivamente
della verità) e con le autorità (n. 11).
Ma veniamo al punto principale, quello che ci spiega come l’attuale Magistero
veda se stesso in termini tecnici. Il documento distingue tre modi di esercizio
del Magistero (n. 23), che richiedono attitudini diverse al teologo. I primi due
corrispondono al Magistero infallibile (nei suoi oggetti primario e secondario),
con il risultato che bisogna aderire per fede teologale o tenere fermamente la
proposizione. Abbiamo però visto con quanta difficoltà siano posti atti di
questo tipo; i dogmi passati sono presentati come il risultato acquisito dei
dialoghi anteriori; soprattutto anch’essi sono sempre inadeguati e devono sempre
essere reinterpretati, come ebbe a dire un documento della Commissione teologica
internazionale (L’interpretazione dei dogmi, 1988).
Venendo al terzo modo, quello che più ci interessa, essendo in questione per
il Concilio e atti successivi, viene così definito: «Quando il magistero, anche
senza l’intenzione di porre un atto “definitivo”, insegna una dottrina per
aiutare a un’intelligenza più profonda della rivelazione e di ciò che ne
esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con
le verità di fede, o infine per mettere in guardia contro concezioni
incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un religioso ossequio della
volontà e dell’intelligenza. Questo non può essere puramente esteriore e
disciplinare, ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza
della fede.
Infine il magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il
popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di
opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni
dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi
congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che
diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è
contingente.» (nn. 23-24). Su questo modo non infallibile, che appare duplice (e
simile - specie nel n. 24 - al “Magistero pastorale”) se il “leale ossequio” è
normalmente richiesto, il dissenso resta possibile, anche sul contenuto e non
solo sulla forma: verificato il valore dell’atto, si deve ammettere che errori
possono esistere, come sarebbe avvenuto anche in passato: «Egli (il teologo) sa
che alcuni giudizi del magistero potevano essere giustificati al tempo in cui
furono pronunciati, perché le affermazioni prese in considerazione contenevano
in modo inestricabile asserzioni vere e altre che non erano sicure. Soltanto il
tempo ha permesso di compiere un discernimento e, a seguito di studi
approfonditi, di giungere a un vero progresso dottrinale» (ibid.). Allora il
dissenso è permesso, se ben esercitato, con prudenza e rispetto: siamo «nel caso
del teologo che trovasse serie difficoltà, per ragioni che gli paiono fondate,
ad accogliere un insegnamento magisteriale non irreformabile. Un tale disaccordo
non potrebbe essere giustificato se si fondasse solamente sul fatto che la
validità dell’insegnamento dato non è evidente o sull’opinione che la posizione
contraria sia più probabile. Così pure non sarebbe sufficiente il giudizio della
coscienza soggettiva del teologo, perché questa non costituisce un’istanza
autonoma ed esclusiva per giudicare della verità di una dottrina. (...) Se,
malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far
conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in
se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con
cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo
desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora
contribuire a un reale progresso, stimolando il magistero a proporre
l’insegnamento della chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato. (...)
Può anche accadere che al termine di un esame dell’insegnamento del magistero
serio e condotto con volontà di ascolto senza reticenze, la difficoltà rimanga,
perché gli argomenti in senso opposto sembrano al teologo prevalere. Davanti a
un’affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione
intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più
approfondito della questione» (nn. 28-30). Quindi appare che il teologo davanti
all’atto magisteriale non infallibile non è mai costretto ad un’adesione
interiore, ma può fino all’ultimo dissentire e discutere, se ha delle buone
ragioni. Non potremmo dunque noi dissentire e discutere fino all’ultimo sui
testi “non irreformabili” del Vaticano II e dei Papi seguenti, soprattutto
basandoci non su elucubrazioni personali ma sul Magistero certamente infallibile
o obbligatorio dei Papi e dei Concili passati? Soprattutto lì dove vi è palese
errore e contraddizione?
Conclusioni
Abbiamo cercato di mostrare come il “magistero” conciliare e post-conciliare
definisce se stesso: pur ammettendo in teoria l’esistenza di un Magistero
infallibile, se ne moltiplicano le condizioni di esercizio perché non lo si
vuole esercitare; il Magistero non infallibile (autentico o ordinario che dir si
voglia), comunque fosse inteso prima del Concilio, non esiste più come tale, se
non per analogia o meglio per equivoco: il “magistero” pastorale e dialogico del
Concilio, anzitutto in virtù di Dignitatis humanae (alla luce della quale si
capiscono le precisioni di Donum veritatis) non richiede nessun assenso interno
reale, visto che è lecito discutere fino all’ultimo anche a chi si basa su
elucubrazioni personali. D’altronde si vede ogni giorno come tutti nella Chiesa,
a partire dagli episcopati, intendano così il “magistero attuale”, e lo
discutano rifiutandolo o accettandolo a piacere, senza che Roma intervenga per
sanzionare: tale argomento a posteriori ha il suo valore alla luce di quanto
detto finora. Questo “magistero” dialogico somiglia troppo da vicino a quanto
descrive san Pio X sul concetto di evoluzione dogmatica dei modernisti, frutto
di un confronto tra autorità e teologi, o anche alla sintesi degli opposti della
metafisica hegeliana. In ogni caso è chiaro che non è solo lecito ma doveroso
denunciare gli errori di tale “magistero”, quando ne è evidente il contrasto con
la dottrina definita dalla Chiesa: e che ciò non è ergersi a giudici del
Magistero, ma il denunciare uno scandalo contro la fede prodotto da testi
erronei e non magisteriali sulla base della Fede che abbiamo nelle verità
definite o insegnate dai Papi. Appare anche chiaro che a monte del contenuto a
volte buono e a volte erroneo di tali testi, li possiamo considerare tutti privi
di ogni autorità di insegnamento, e quindi valutare alla luce della Fede e agire
in conseguenza senza timori di coscienza. L’assenza di volontà magisteriale in
questi testi spiega come abbiano potuto essere riempiti di errori: dal momento
in cui vuole insegnare, il Papa ha la garanzia di non sbagliare; ma se parla per
dialogare, allora tale assistenza non c’è più. Coloro che vogliono a tutti i
costi trovare l’autorità e la continuità in questi testi, per un preteso
rispetto del Papa, sono in realtà coloro che più tradiscono il pensiero e la
volontà chiaramente espressa di questi Pontefici, cioè il rifiuto di insegnare.
Né tale prolungata assenza di esercizio del Magistero deve spaventarci: il
potere di insegnare resta sempre presente nella Chiesa, solo chi lo possiede non
vuole esercitarlo a causa della mentalità liberale e modernista dominante. Nulla
di essenziale manca alla Chiesa, i difetti sono nell’agire e non nell’essere.
Solo uno svincolamento del Papato dall’ideologia liberale professata in
Dignitatis humanae sembra poter liberare le forze dell’autorità, sole capaci di
porre rimedio alla crisi dottrinale che investe molti membri della Chiesa. Si
può capire quanto più che mai dobbiamo esaltare e difendere il Papa e il Papato,
mentre i modernisti hanno cercato di imprigionarne l’autorità in una gabbia che
non le permettesse di esercitarsi, che la disarmasse, timorosi che lo Spirito
Santo le impedisse di diffondere i loro errori. Siamo noi, e non i modernisti
che ci accusano di disobbedienza, ad essere i sostegni di questa autorità, siamo
noi a crederci davvero e a volerla vedere di nuovo pienamente operante. Teniamo
presente, nei tempi di confronto che seguiranno, che noi abbiamo dalla nostra il
Magistero infallibile della Chiesa, i modernisti solo le loro elucubrazioni
erronee o ereticali propagandate da qualche decennio senza autorità.