Giri
l’Europa, e ti senti sempre a casa. Effetto della
globalizzazione? Sarà. Sta di fatto che il rapporto tra i
mass media e i cattolici presenta ovunque problemi simili.
Perché ovunque a sfidare chi si occupa di comunicazioni
sociali è un sempre più delicato equilibrio tra la
responsabilità missionaria del credente e una cultura che
reca nei tratti somatici la paternità dei mass media,
tanto da essere ribattezzata "mediasfera".
Aprire la finestra su quel che accade fuori dai nostri
confini, per un convegno che nel suo titolo evoca le
"parabole", era doveroso. E infatti la tavola
rotonda forse più movimentata di ieri ha messo a
confronto voci italiane (Gaspare Barbiellini Amidei, penna
ben nota ai lettori del "Corriere della Sera"),
francesi (Bruno Frappat, direttore del giornale cattolico
parigino "La Croix") e inglesi (l’ex
responsabile dei vescovi europei per i media, monsignor
Crispian Hollis), introdotte dal presidente del Pontificio
Consiglio per le comunicazioni sociali, l’arcivescovo
americano John Foley, e dal direttore dell’agenzia
cattolica "Sir" Paolo Bustaffa.
Niente
di formale o scontato, come d’altra parte in tutti gli
appuntamenti di questo animatissimo forum nazionale, che sta
ricentrando l’attenzione della Chiesa italiana su media e
cultura e che si è trovato a lezione di realismo: «Il
mondo è disordinato, d’accordo - dice ad esempio Hollis
-, ma è il mondo al quale dobbiamo annunciare il Vangelo.
Per questo vanno padroneggiati i suoi linguaggi mediatici.
Inutile far finta di esserne risparmiati: non afferreremmo
la nostra responsabilità di capire quel che accade e
partecipare alla vita culturale, finendo per saper parlare,
sì, però solo a noi stessi, proprio mentre c’è una fame
latente di spiritualità nel cuore di molti». Hollis parla
di «crisi di linguaggio nella Chiesa, che va risolta per
farci capire». Ma non solo: «Saper parlare verso
l’esterno ha immediati riflessi anche sui meccanismi
interni della Chiesa, è un modo per evangelizzarci. Oggi
c’è bisogno del coraggio e della creatività di chi ha
costruito le cattedrali». Da dove si comincia?
Dall’evitare il primo "peccato" di chi fa
comunicazione: «Procurare noia», ironizza Foley. E se un
mezzo di comunicazione cattolico annoia o intristisce va
fuori pista: «La buona notizia dovrebbe essere proposta nel
modo più affascinante». Mica facile. Però è quel che va
fatto per non seguitare a credersi nicchia a circuito
chiuso. Secondo Barbiellini Amidei, «chi nella sua vita
mette a bilancio anche l’eterno, dura più fatica degli
altri: deve fare tutto come gli altri, tutto meglio degli
altri, controllare tutto più degli altri».
È
vero che il cattolico ha dimestichezza naturale con la
Parola, ma è un fatto che «nel nostro Paese storicamente
la parola scritta è stata monopolio laicista, un fatto
elitario, con la conseguenza di una marginalità imposta ai
mezzi di comunicazione cattolici. E la padronanza collettiva
della lingua è arrivata solo con la televisione, che ha
mescolato il sapere della minoranza colta con la
banalizzazione imposta dal mezzo». Risultato: il mosaico
mediatico che ci stordisce, ma insieme ci domanda soluzioni
inedite. A provarci, come ha fatto con convinzione
"Avvenire" in Italia, in Francia è "La Croix",
80 mila copie diffuse e la stessa, implicita domanda di
tutta la platea: come possiamo far udire oggi una voce
"diversa"? «Il giornalista cattolico - argomenta
Frappat - è lievito nella pasta delle notizie. Si sente
libero ma anche responsabile. Deve avere temperamento,
professionalità, competenza, cultura. E, soprattutto, è
entusiasta, ha passione per la realtà, ha uno sguardo
fresco, non ha paura. Tutte le epoche hanno lanciato sfide
ai cristiani, talvolta mortali. Noi, certo, non facciamo
eccezione».
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