Bombe contro i cristiani, tensione in Iraq
Attacco pianificato come negli anni precedenti

Quattro esplosioni a Baghdad e due a Kirkuk davanti alle chiese Tre morti, una ventina i feriti: la condanna del patriarca Delli. Alcuni capi musulmani consigliano di non comprare le case dei cristiani: «Presto verranno via con niente». E c'è chi è costretto a pagare il pizzo per non farsi sequestrare dalle bande di integralisti
 

 

Una difficile transizione                                                           .:torna su:.
Luca Geronico

Una serie di autobombe sincronizzate. Un'aggressione mirata alle chiese cattoliche a Baghdad e a Kirkuk, che lascia sgomenti: tre i morti e 17 i feriti. Non è una novità assoluta, ma di certo è la prima fiammata anticristiana dalla vittoria sciita alle elezioni del 15 dicembre.
La denuncia di una possibile «pulizia religiosa» da parte del leader sunnita Adnan al-Dulaimi se gli sciiti avranno il ministero degli Interni e della Difesa, suona come una sinistra conferma di un rischio che molti percepiscono. Il timore finora sussurrato è quello dell'instaurarsi di un regime fondamentalista e che quindi, nonostante le deboli assicurazioni contenute nella Carta costituzionale, la sharia (la legge islamica) divenga la prassi nella società irachena mettendo di fatto al bando tutte le minoranze religiose.

Una domenica di autobomba e sangue che rimanda alla prima serie di attacchi contro i caldei e le altre denominazioni cristiane consumatosi dall'agosto del 2004 al gennaio del 2005. Domenica, nel cuore del pomeriggio, l'"ora x": verso le 16 un'autobomba telecomandata salta in aria davanti alla chiesa ortodossa di Kirkuk, un quarto d'ora dopo un attentato del tutto simile si abbatte contro la chiesa della Vergine nella città del Kurdistan: tre le vittime, una decina i feriti. Negli stessi istanti a Baghdad un'autobomba scoppiava davanti alla chiesa di San Giuseppe, un complesso moderno nel quartiere orientale di Sinaa: feriti due passanti, sbreccati alcuni muri. Una ventina di minuti dopo l'ennesima autobomba saltava in aria davanti a una chiesa anglicana nella zona di Nidhal, sempre nella capitale. Un altro ordigno è esploso senza causare particolari danni nel centro di Baghdad. Un'ultima autobomba saltava in aria a poche decine di metri dalla nunziatura apostolica. «Ringraziamo il Signore perché le vittime sono poche. Certamente ci sono stati tanti danni materiali, ma per fortuna nulla di grave»; ha dichiarato il patriarca Emmanuel Delli. «Condanniamo l'attentato e preghiamo per questa gente affinché venga illuminato il loro cuore», ha concluso.

La Chiesa irachena ha sempre rifiutato di denunciare le aggressioni contro suoi uomini o strutture come una deliberata violenza religiosa: un modo per tenere lontane le tentazioni fondamentaliste e non acuire contrasti latenti ma che potrebbero togliere ossigeno alle minoranze. Questo anche un anno fa, il 17 gennaio del 2005, quando il vescovo di Mosul, Georges Casmoussa, veniva rapito per una notte da una formazione terroristica: uno scambio di persone, secondo la ricostruzione ufficiale, anche se a pochi giorni dalle elezioni per l'Assemblea nazionale, molti hanno pensato ad una pressione politica. Pressione che ora potrebbe influenzare le trattative per il nuovo governo. Ieri, con un giorno di ritardo, le autorità sciite riunite nella "Najaf Hawza" hanno condannato gli attacchi: «Desideriamo che il nostro popolo, con tutte le sue razze, religioni e sette, conviva pacificamente», si legge in un comunicato. Intanto Saddam Hussein continua nella sua strenua linea difensiva cercando di catalizzare l'attenzione dell'opinione pubblica. Appena riprese le udienze dopo la sostituzione del presidente della Corte, l'ennesimo colpo di teatro.

Dopo l'espulsione di un fratellastro di Saddam Hussein, suo coimputato che lo aveva insultato, il giudice Rauf Abdel Rahman ha avuto un secco diverbio con il deposto presidente. «Questo è un tribunale americano», ha urlato l'ex presidente. «Questo è un tribunale iracheno», ha replicato il giudice per nulla intimidito. Poi, in segno di sdegnata protesta il deposto rais e i suoi avvocati hanno abbandonato l'aula. Domani, giorno fissato per la prossima udienza, Saddam Hussein e i suoi legali hanno già annunciato che non si presenteranno in aula.

Due anni fa i morti furono più di trenta                                           .:torna su:.

Chi ha interesse a riesumare la paura dei cristiani nel momento in cui in Iraq spunta un discreto ottimismo dopo la partecipazione dei sunniti al voto? Di sicuro, chi sta soffiando sul fuoco delle divisioni intende dare ai cristiani una spinta che li convinca, a suon di esplosioni, di quanto l'Iraq sia diventato terreno minato per loro. Gli attentati di domenica contro i luoghi di culto cristiani non sono i primi nel Paese. Ma l'anno nero per i cristiani è stato il 2004, con quattro diverse ondate di attentati. Il 1 agosto, sono state colpite quattro chiese cattoliche a Baghdad e una a Mosul causando la morte di 12 persone e il ferimento di 61 tra i fedeli che uscivano dopo la messa. Il 16 ottobre altri attentati contro sei chiese a Baghdad provocarono la morte di una persona e il ferimento di altre nove. Chiese non solo cattoliche, ma anche assira e siro-ortodossa, forse a marcare l'inclusione di tutti i cristiani nella categoria dei bersagli da colpire. Si denotava una spiccata predilezione per il quartiere di Dora, nel sud della capitale, dove si trova la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, nel cui parcheggio si contarono le 11 vittime del primo agosto, il Seminario maggiore e anche il Babel College, l'unica università teologica del Paese che prepara la futura gerarchia ecclesiastica e che impiega, nel nome della cultura e della tolleranza, docenti musulmani. Di nuovo l'8 novembre, altri attentati contro due chiese di Baghdad uccisero 8 persone. Gli attentati sono rivolti contro la chiesa siriaco-ortodossa di San Giorgio e la chiesa di San Matteo della chiesa assira. Infine, il 7 dicembre, in due chiese di Mosul esplosero cariche esplosive, una contro la chiesa armeno-ortodossa, non ancora inaugurata, e l'altra contro la chiesa caldea del quartiere al-Shafa. Prima di far saltare l'esplosivo in quest'ultima, gli aggressori però portarono i fedeli fuori dalla chiesa.

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Il nunzio Ferdinando Filoni:«C'è forte preoccupazione, molti se potessero se ne andrebbero»
Claudio Monici

Uscita indenne dai bombardamenti aerei selettivi di tre anni fa, unica sede diplomatica, oltre a quella cubana, a rimanere aperta. Risparmiata dai saccheggi che devastarono Baghdad, risparmiata dallo stillicidio di attentati e bombe che quotidianamente uccidono e sconquassano la capitale irachena, quanto si temeva è accaduto. La sede della Nunziatura apostolica in Iraq, che per scelta ha sempre deciso di restare tra la gente per la gente, senza adottare particolari misure di protezione, proprio per non venire meno al suo impegno, domenica passata è entrata nel mirino della strategia terroristica delle autobomba.
«Grazie a Dio sopravviviamo. Qui, mi pare, è l'unica espressione che possiamo usare». Monsignor Ferdinando Filoni, nunzio apostolico in Iraq, diplomatico che ha vissuto la guerra del 2003, e prima ancora gli otto anni di guerra Iran-Iraq, al telefono racconta la domenica di sangue scatenata contro le chiese cristiane in Iraq. «Sei attentati contro altrettante chiese: due a Kirkuk e quattro a Baghdad. Morti e feriti. E l'autobomba che è invece esplosa accanto al perimetro laterale della nunziatura».
È la prima volta che accade?
Sì. Sì, un'autobomba completamente disintegrata che è là fuori. Ha fatto crollare una parte del muro di recinzione del giardino e mandato in frantumi un po' di vetri delle finestre. Grazie a Dio, danni limitati.
Un attentato contro la rappresentanza diplomatica vaticana. Lei cosa pensa, pianificato?
Presumiamo di sì, perché allo stesso tempo ci sono stati gli attentati contro le chiese a Baghdad e a Kirkuk.
Siamo tornati all'agosto del 2004, quando ci furono una serie di sanguinosi attentati contro la comunità cristiana: una strategia ?
Ci sono delle similitudini. Il giorno, ad esempio: la domenica cristiana. Le esplosioni sono avvenute nell'ora in cui i fedeli andavano in chiesa. E sono capitate in successione. Se leggiamo questi fatti, notiamo similarità molto prossime.
Questi attentati contro gli edifici di culto, la nunziatura, non fanno che evidenziare come poi la situazione sia difficile e insicura.
La situazione è insicura e continua ad essere difficile, molto, molto difficile. Ed è aggravata dal fatto che aumentano le intimidazioni contro i cristiani, contro gli ecclesiastici. Continuano i sequestri di persona. Tutto questo rende la situazione assolutamente precaria. Negli episodi di domenica qualcuno ha voluto leggere una concomitanza con la dissacrazione della figura di Maometto avvenuta in Danimarca. Ovviamente nei Paesi islamici c'è molto fervore, a proposito. Anche qui in Iraq ci sono molte richieste, compresa quella del capo religioso sciita Moqtada al-Sadr, affinché il Papa intervenga. C'è una atmosfera, in questo momento, eccitata.
Monsignor Filoni, avete adottato precauzioni per proteggere la nunziatura?
La strada dove è avvenuta l'esplosione è stata chiusa al traffico, ed è aumentata la presenza della polizia. In seguito vedremo.
Un clima di paura e di confusione che aumenta giorno dopo giorno...
Indubbiamente, per i nostri cristiani diventa motivo di ulteriore preoccupazione. Se potessero, molti di loro andrebbero via dal Paese.
I capi religiosi della comunità islamica che cosa dicono?
C'è qualcuno che manifesta solidarietà. In occasione del Natale tanti hanno mandato i loro auguri al Santo Padre, alla Nunziatura apostolica. Certo, non sono queste persone, come dire, illuminate, di cui ci si deve preoccupare. Sono altri i timori e vengono da ben altri ambienti.

L'esodo continuo: in vent'anni dimezzata la presenza          .:torna su:.
Cammille Eid

«Non voglio perdere i miei figli per motivi politici - dice Rita Boulos al reporter mentre prepara le valigie - Li porterò ad Amman, lontano dalla discriminazione e dall'odio». I tassisti iracheni specializzati nel trasporto verso la Siria e la Giordania lavorano a pieno ritmo, con le prenotazioni esaurite fino a venerdì. Tutte da parte di famiglie cristiane che non sopportano più di vivere nell'incertezza del futuro. «Se prima non c'era libertà, ora regnano anarchia e insicurezza», dice sconsolato un sacerdote di Baghdad. 

La transizione del Paese verso un sistema stabile sta, infatti, segnando profondamente la presenza bimillenaria dei cristiani iracheni. Secondo alcune stime, circa 150mila cristiani avrebbero lasciato il Paese dal 2003 e che vanno ad aggiungersi ai 40mila che erano partiti tra il 1991 e il 1993. Un'emorragia, questa, che sta mettendo a repentaglio il futuro di coloro che decidono di rimanere. Oggi, dei 636 mila cristiani presenti in Iraq fino a vent'anni fa, rimane forse solo la metà. A Masakin Barze, vicino Damasco, non si contano più le famiglie cristiane fuggite dall'inferno iracheno, alcune in seguito alla prima ondata di attentati simultanei contro le chiese nel 2004, altre molto prima. 

Il rappresentante dell'Acnur a Damasco, Abdelhamid al-Ouali, conferma che la metà delle richieste di asilo esaminate dal suo ufficio riguardano proprio dei cristiani. Chi decide di partire vuole anzitutto evitare le discriminazioni e il rischio di emarginazione. Citando un sacerdote iracheno, un'agenzia cattolica ha riferito lo scorso novembre dei cristiani di Mosul che pagano il pizzo per evitare di essere rapiti, mentre alcuni capi musulmani consigliano i loro seguaci di non comprare case e proprietà dei cristiania. «Perché presto si potranno prendere senza pagare», ha spiegato, visto che i proprietari saranno costretti ad andarsene. Ansiosi di trovare un'adeguata rappresentanza politica in mezzo ai blocchi maggiori, i cristiani hanno finora raccolto solo delle delusioni. 

Alle elezioni legislative del 15 dicembre scorso, la lista cristiana al-Rafidain ha ottenuto un solo seggio sui 275 dell'Assemblea nazionale. Altri due cristiani, per fortuna, sono stati "ripescati" su altre liste grazie al sistema delle quote nazionali. Incapaci di garantire una loro collocazione come soggetto politico autonomo, molti cristiani affrontano tutti i rischi pur di garantire almeno la propria sopravvivenza. 

In una povera casa di Beirut vive Anisa con i suoi sei figli. Ha lasciato il marito a Baghdad e ha sborsato mille dollari ai contrabbandieri siriani per attraversare, in una fredda notte di primavera, il confine con il Libano. «Ho dovuto portare il più piccolo alle spalle perché handicappato, racconta. Mi sentivo mancare sbattendo contro i rami e bagnando i piedi nei gelidi ruscelli». I contrabbandieri le avevano spiegato: «Quando vedrete delle luci in fondo sarete in Libano». E lei ce l'ha fatta. Ma la luce in fondo al tunnel in cui sono sommersi i cristiani iracheni stenta ancora a spuntare.
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[Fonte: Avvenire 31 gennaio 2006]

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