I Capitolo -
II Capitolo -
III Capitolo - IV Capitolo
Primo Capitolo
Recentemente è apparsa in rete
la traduzione
italiana di un articolo pubblicato nel 2010 su
‘Nova et Vetera’ da Martin Rhonheimer,
professore di etica e filosofia politica
all’Università Pontificia della S. Croce,
dedicato all’ “ermeneutica della riforma”, in sé
stessa ed esemplificata nella nozione di
“libertà religiosa”. L’articolo fa ben
comprendere che cosa intenda dire il Pontefice
attualmente regnante con l’espressione
“ermeneutica della riforma”, come tale non
immediatamente accessibile(1). Tuttavia, esso
sembra creare più problemi di quanti non ne
risolva e ha già suscitato pertinenti repliche.
Anche dal punto di vista non specialistico del
semplice credente, penso si possa sollevare
qualche interrogativo concernente: la
definizione stessa di questa “ermeneutica”; la
rappresentazione dei primi Martiri cristiani
quali sostenitori della “libertà religiosa” in
senso moderno; il modo in cui viene esposta la
dottrina preconciliare, che condannava la
“libertà religiosa” quale frutto
dell’individualismo agnostico e miscredente del
Secolo; la coerenza della nuova dottrina con la
Tradizione della Chiesa.
1. L’ermeneutica della riforma. Essa è
ricompresa tra i concetti espressi dal Papa nel
famoso discorso natalizio alla Curia, del 22
dicembre 2005, nel quale, tra l’altro, prese
posizione contro l’interpretazione largamente
diffusa di una Chiesa “postconciliare” diversa
da quella “preconciliare”. Su questa presa di
posizione, rileva l’Autore, si è costruita
un’immagine inesatta di ciò che intendeva dire
il Pontefice. È vero che egli ha affermato
l’erroneità dell’ “ermeneutica della
discontinuità e della rottura”, che vede nel
Concilio appunto una “rottura” con la Chiesa
“preconciliare”. Tuttavia, non è proclamando sic et simpliciter la validità di un’ermeneutica
della continuità che egli respinge l’ipotesi
della discontinuità. Che si sia limitato a
questo, l’hanno pensato diversi interpreti, come
ad esempio il filosofo prof. Robert Spaemann,
che, per trovare un caso analogo di mutamento
che non ha contraddetto la dottrina perenne
della Chiesa, si è rifatto all’esempio della
variazione di dottrina sul prestito ad interesse
e sulla relativa interdizione dello stesso(2).
Ma si tratta
di ben altro. Benedetto XVI ha
dichiarato, infatti, che “all’ermeneutica della
discontinuità si oppone l’ermeneutica della
riforma” non quella di un’ermeneutica della
continuità tout court. “E qual è “la natura
della vera riforma”? Essa consiste, spiega il
Papa, “in questo insieme di continuità e
discontinuità a livelli diversi"(3). La
continuità dell’insegnamento del Vaticano II con
quello precedente viene dunque affermata in modo
complesso: non è tale da escludere la
discontinuità, tuttavia questa discontinuità, a
sua volta, non è tale da escludere la
continuità. L’una e l’altra operano a “livelli
diversi”, che è necessario individuare e
spiegare. Ma perché nella Chiesa è apparsa, con
il Vaticano II, la necessità di intendere il
significato della dottrina in modo nuovo, come
significato che contiene una “riforma” di quanto
tramandato e consolidato lungo i secoli?
Tutto è nato, precisa il Pontefice, dalla
necessità che si è imposta al Concilio, “di
definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa
e l’epoca moderna”, sia per ciò che riguardava
“le scienze naturali” nel loro attuale sviluppo,
sia per ciò che riguardava “il rapporto tra la
Chiesa e lo Stato moderno, il quale concede
spazio ai cittadini di diverse religioni ed
ideologie, tenendo un atteggiamento imparziale
verso le religioni e prendendo su di sé
solamente la responsabilità di assicurare una
coesistenza ordinata e tollerante tra i
cittadini, ivi compresa la loro libertà di
culto"(4).
Ma la Chiesa, osservo, aveva effettivamente la
necessità di “definire in modo nuovo” il suo
rapporto con lo Stato e con la scienza, ossia
con la cultura moderna? L’assunto viene
presentato come se si trattasse di verità per sé
evidente, che all’epoca del Concilio si sarebbe
imposta a tutti. Ma ciò, a mio avviso, non è
storicamente esatto. Quest’esigenza di “definire
in modo nuovo” quel rapporto era sentita
soprattutto dalla nouvelle théologie e dai
settori ammodernanti della Gerarchia: da una
minoranza, per quanto attiva, combattiva e ben
organizzata. Gli schemi preparatori delle
costituzioni conciliari, elaborati sotto la
supervisione del S. Uffizio di Ottaviani e Tromp
sj, poi fatti cadere in Concilio grazie ai noti
colpi di mano dei progressisti, contenevano una
critica ed una condanna ragionata e razionale
del mondo contemporaneo, il quale già mostrava i
primi sintomi di quella impressionante decadenza
che oggi affligge noi tutti e la Chiesa nel modo
che sappiamo(5).
Ma ritorniamo alle parole del Pontefice. Quale
la conseguenza di questa “nuova definizione” del
suddetto “rapporto”? Che, “nell’insegnamento del
Concilio, in tutte queste materie che
costituiscono comunque un unico problema [da
affrontare per la Chiesa], poteva scaturire una
certa forma di discontinuità: questa
discontinuità, in un certo senso, c’è
effettivamente stata"(6). Dunque, un Papa
ammette (ed è la prima volta) che
nell’insegnamento del Vaticano II “in un certo
senso, c’è stata effettivamente una certa forma
di discontinuità” con l’insegnamento precedente.
Ma siffatta “discontinuità” non deve intendersi
come rottura o antitesi inconciliabile. Per qual
motivo? Per il semplice motivo, prosegue, “che
la continuità dei princìpi non è stata
abbandonata”. Non essendo stata abbandonata, si
è avuta una “vera riforma, la cui natura
consiste nel combinarsi di continuità e
discontinuità a diversi livelli"(7). Dunque
cos’è che tiene insieme (senza contraddizione)
continuità e discontinuità nell’insegnamento del
Vaticano II? Il fatto che “i princìpi non sono
stati abbandonati”; che nella discontinuità si
sono evidentemente mantenuti gli stessi princìpi
presenti da secoli nella dottrina che per tutti
i credenti rappresenta la continuità del
deposito della fede. Il Vaticano II avrebbe
dunque realizzato con successo – osservo – una
vera e propria coincidenza degli opposti: delle
esigenze della Chiesa con quelle dello Stato e
della cultura moderni (l’uno e l’altra – ricordo
– fondati sul principio di immanenza,
sull’antropocentrismo più radicale) senza venir
meno in alcun modo ai “princìpi” tradizionali
della dottrina della Chiesa, che invece
richiedono la subordinazione radicale dello
Stato e della cultura al Sovrannaturale, come
risulta dalla Sacra Scrittura e da tutto il
plurisecolare Magistero.
2. La libertà religiosa del Vaticano II come
esempio di ermeneutica della riforma: la
discontinuità. C’è stata dunque “una
discontinuità”. Con quale aspetto della dottrina
tradizionale? Il Papa apporta l’esempio
dell’insegnamento sulla libertà religiosa,
proposta dal Concilio come libertà di
professione di fede e di culto da riconoscersi a
tutte le religioni perché da concepirsi come
diritto inalienabile della persona. Recita,
infatti, l’art. 9 della Dichiarazione Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa: “Quanto questo
Concilio Vaticano dichiara sul diritto degli
esseri umani alla libertà religiosa ha il suo
fondamento nella dignità della persona, le cui
esigenze la ragione umana venne conoscendo
sempre più chiaramente attraverso l’esperienza
dei secoli"(8).
Storicamente, l’istanza della “libertà
religiosa”, nella prassi “libertà di culto”,
quale espressione della libertà di coscienza,
che si attua mediante la libertà di parola, si
era posta, come sappiamo, dopo la rottura
dell’unità cattolica dell’Europa a causa dello
scisma dei protestanti eretici e le conseguenti
guerre di religione. Il mancato rientro dello
scisma aveva dato vita a soluzioni di
compromesso, con la coesistenza forzata di
protestanti e cattolici in uno stesso Stato. La
cultura, nelle sue componenti laiche, che si
andavano affermando sempre più, proclamava a
gran voce il principio della tolleranza, con il
conseguente riconoscimento statale della libertà
di coscienza ossia di professione religiosa e di
culto per le varie fedi. Ma tale indirizzo (che
annovera gli Spinoza, i Locke, i Voltaire tra i
suoi maggiori esponenti) si ispirava in modo
evidente ad una concezione deista e razionalista
della divinità, che metteva ogni religione
storicamente esistente sullo stesso piano,
aprendo la strada all’indifferentismo e
all’agnosticismo non solo nei confronti della
religione rivelata ma anche del fenomeno
religioso stesso. Il laico principio di
tolleranza in nome della libertà individuale di
coscienza stabiliva in tal modo (all’insegna
dell’indifferentismo e dell’agnosticismo) il
presupposto concettuale della “libertà
religiosa” che sarebbe stata poi garantita dallo
Stato laico, liberale, affermatosi in Europa
dopo la Rivoluzione francese.
Questa concezione (filosoficamente figlia del
razionalismo protestante e poi illuminista e del
panteismo di un apostata dell’Ebraismo come
Spinoza) si presentava come neutrale nei
confronti della religione, in nome delle
esigenze della libertà individuale e della pace
sociale. In realtà, essa era profondamente
ostile alle religioni basate su di una
Rivelazione ed in particolare al Cattolicesimo,
la cui dottrina manteneva intatta sia la natura
soprannaturale della vera Rivelazione che
l’etica su di essa fondata. Esso veniva
calunniato come superstizione, al massimo buona
a tenere a freno la canaglia con la paura
dell’Inferno, e comunque respinto sul piano del
concetto, dal momento che Dio doveva ritenersi,
dal punto di vista di questi latitudinari liberi
pensatori, semplicemente un ente di ragione i
cui attributi venivano elaborati dalla ragione
stessa. In tal modo, Dio diventava un prodotto
della nostra mente e l’uomo finiva con il
divinizzarsi, con il porre la sua ragione al
centro dell’universo, al posto di Dio. Come se
non bastasse, tale laica concezione portava alla
dissoluzione dell’etica cristiana ed anzi di
ogni etica, con il toglierle ogni fondamento
oggettivo, dal momento che il principio morale
delle nostre azioni lo si faceva sempre ed
esclusivamente dipendere dalla nostra libera
coscienza individuale, dal sentimento morale che
c’è in noi o dalla nostra volontà, obbediente ai
dettami di una “ragion pratica” fondata sempre
sul nostro io. Ma l’etica cristiana non dipende
dal sentimento del soggetto né dalla sua
coscienza di sé né dalla sua volontà: è fondata
sulla Verità Rivelata come mantenuta
dall’insegnamento della Chiesa nei secoli. Essa
si compone di precetti che il nostro libero
arbitrio, con l’aiuto indispensabile della
Grazia, deve riconoscere come obbliganti, sia
per il retto agire in questo mondo che per la
salvezza della nostra anima.
Era perfettamente logico che i Papi
condannassero nel modo più energico la “libertà
religiosa” propugnata, alla fine, dall’ideologia
liberale dell’Ottocento, fondata com’era su quel
deismo che conduceva inevitabilmente
all’indifferentismo e all’agnosticismo in campo
religioso e morale e in campo politico ad una
inaccettabile separazione fra Chiesa e Stato (da
non confondersi con la legittima distinzione
delle rispettive sfere di competenza). Infatti,
lo Stato moderno, dandosi giustificazione e fini
solo terreni, non riconosceva più come propri i
valori religiosi (cosa che comportava il venire
meno della difesa della morale cristiana e della
Chiesa cattolica) e pertanto non si considerava
più come ordinato anch’esso da Dio (nella sfera
di sua competenza, che è quella del Bene comune)
alla realizzazione del fine sovrannaturale per
il quale ciascuno di noi è stato creato, il
conseguimento della vita eterna. In tale
condanna si distinsero, come sappiamo, pontefici
del XIX secolo quali Gregorio XVI e Pio IX,
senza escludere Leone XII e XIII. Leone XIII,
nell’Enciclica Libertas praestantissimus sulla
“libertas humana”, del 20.6.1888, dopo aver
ricordato che la libertà dell’uomo, inerente
alla sua dignità di ente razionale creato da
Dio, non si poteva intendere in modo assoluto ma
doveva esercitarsi con il limite di obbedire
alla ragione, di perseguire il “bene morale” e
di non discostarsi mai dal “sommo fine” proprio
dell’uomo (la vita eterna), ribadiva la condanna
dell’opinione di chi voleva concepire come
“diritti naturali” la libertà di pensiero, di
espressione, di insegnamento e di “promiscua
religione”. Infatti, “se fosse stata la natura a
conferire questi diritti, sarebbe allora
legittimo ricusare i comandi divini e nessuna
legge potrebbe temperare la libertà dell’uomo”.
Perciò, “questi tipi di libertà” si potevano
solo “tollerare”, con la dovuta moderazione,
unicamente “si iustae causae sint”, ad esempio
per evitare mali peggiori, in certe
situazioni(9).
3. La libertà religiosa del Vaticano II come
esempio di ermeneutica della riforma: la
continuità. “È precisamente in rapporto a questo
insegnamento dei papi del XIX secolo – scrive il
prof. Rohnheimer – che si trova il punto di
discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso
tempo una continuità più profonda ed essenziale,
come spiega Benedetto XIV nel suo discorso: “il
Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo
con il decreto sulla libertà religiosa un
principio essenziale dello stato moderno, ha
ripreso nuovamente il patrimonio più profondo
della Chiesa”. Questo principio essenziale dello
stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta
di questo patrimonio profondo della Chiesa
costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro
rigetto di una religione di stato [che avrebbero
sostenuto i Papi del passato]: “I martiri della
Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in
quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e
proprio così sono morti anche per la libertà di
coscienza e per la libertà di professione della
propria fede""(10).
Ci viene qui fornita la chiave per comprendere
come la discontinuità conciliare debba
considerarsi invece continuità. Nell’ottica di
Benedetto XVI, la continuità esiste con le
intenzioni dei Martiri della Chiesa primitiva
(dalle quali, evidentemente, i Papi si sarebbero
poi per tanti secoli discostati, col propugnare
una “religione di Stato”). I Martiri morivano
perché non volevano abiurare la loro fede ma
proprio per questo morivano anche per la libertà
di coscienza (che richiede, come si sa, la
libertà di parola per quanto attiene alla
professione della propria fede). Attribuendo al
martirio dei primi cristiani anche questo
significato, il ragionamento papale giunge alla
conclusione che il Vaticano II, con la sua
dottrina sulla libertà religiosa, oltre a
riconoscere un principio fondamentale dello
Stato moderno, ha ripreso nuovamente “il
patrimonio più profondo della Chiesa”. Poiché ha
riconosciuto e applicato un principio dello
Stato moderno, agnostico e liberale, ci sarebbe
discontinuità; poiché, nel far ciò, ha tuttavia
ripreso il patrimonio più profondo della Chiesa,
ci sarebbe continuità. L’elemento che più
colpisce nel ragionamento del Papa è dato, a mio
avviso, proprio dalla riunione di questi due
opposti, come se, nel riconoscere un principio
fondamentale della concezione laica (e
anticristiana) dello Stato, il Concilio avesse
potuto nello stesso tempo ritrovare o riscoprire
“il patrimonio più profondo della Chiesa”,
quello costituitosi grazie alla testimonianza
del sangue dei Martiri. Per sostenere una cosa
del genere, il Papa deve evidentemente
attribuire al martirio dei primi cristiani anche
il significato di un sacrificio consapevole per
la libertà di fede e di culto (ossia di
coscienza e di espressione). Deve farne, in
sostanza, dei precursori consapevoli della
libertà di coscienza propugnata in modo uguale
per tutte le religioni dallo Stato moderno
(fondato, lo ricordo ancora, sul principio di
immanenza, indifferente se non ostile al
fenomeno religioso in quanto tale). E dico a
ragion veduta sacrificio consapevole. Infatti,
se noi diciamo che solo oggettivamente essi si
sono sacrificati per la libertà religiosa, da
attribuire ugualmente a tutte le fedi quale
diritto inalienabile della persona, non
applichiamo al loro sacrificio la nostra ottica
di moderni, alterandone il significato?
NOTE
1) L’”herméneutique de la réforme” et la liberté
de religion, in ‘Nova et Vetera’, no 4,
Oct.-déc. 2010,
http://www.novaetvetera.ch/Art%20Rhonheimer.htm.
, 14 pp.
Traduzione italiana, sotto la rubrica: “Chi
tradisce la tradizione. La grande disputa” di
Sandro Magister, in: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670,
14 pp. Poiché il testo italiano omette alcuni
passaggi e le note, l’ ho a volte integrato con
quello in francese, apparso inizialmente in
tedesco, in forma più ridotta, nel 2009, su “Die
Tagespost” del 26.9.2009. Citerò l’articolo con
la sigla ER. I passi tra parentesi quadre sono
miei. La S. Bibbia viene citata nella tr. it.
curata dall’Abate Ricciotti.
2) ER, p. 13 n. 2 ed. fr.
3) ER, pp. 3-4, ed. it.
4) ER, pp. 1-2, ed. fr.
5) Sulle gravi illegalità avutesi nella fase
iniziale del Concilio, vedi da ultimo: R. DE
MATTEI, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai
scritta, Lindau, Torino, 2010: il cap. III,
dedicato alla prima sessione, pp. 197-283. Nel
rileggere oggi quei giudizi, si resta colpiti
dalla loro profetica acutezza.
6) ER, p. 2, ed. fr.
7) Ivi.
8) I Documenti del Concilio Vaticano II.
Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni, Ed.
Paoline, 1980, p. 588. Tutti i successivi
riferimenti a testi del Concilio sono tratti da
questa edizione, confrontata su Concilii
Oecumenici Vaticani II.
Constitutiones – Decreta – Declarationes
(curante F. Romita), Desclée ac Socii – Romae,
1967.
9) DS, 3252.
10) ER, p. 4, ed. it.
II Capitolo
4. I Martiri sono morti per render gloria a Dio
e convertire i pagani, assai più che per la
“libertà religiosa”. Bisogna quindi accertare se
le testimonianze rimasteci dei primi Martiri
mostrino in loro il desiderio di sacrificarsi
per la libertà religiosa nel senso moderno del
termine, per tutti e per tutte le religioni,
come diritto universale della persona.
Rileggendo gli Atti e le Passioni dei Martiri
non si trova però traccia alcuna, a mio avviso,
di riferimenti a siffatta “libertà”. Si ha anzi
l’impressione che ai Martiri, che sembravano
letteralmente posseduti dallo Spirito Santo, di
questa famosa libertà importasse assai poco. Non
voglio dire, con questo, che non sarebbero stati
contenti di goderne. Non sono Donatista. Voglio
solamente dire che nella loro testimonianza la
sua rivendicazione resta generalmente implicita,
come se costituisse un elemento secondario.
Importava loro, soprattutto, non cadere nel
grave peccato di apostasia. La morte era
consapevolmente accettata e persino invocata per
render gloria a Dio e come sacrificio per la
conversione del mondo pagano. “Potessi io
persuadere voi a farvi cristiani!” gridava alla
folla persecutrice il martire Pionio mentre
veniva condotto al supplizio, respingendo
l’invito pressante ad abiurare per salvarsi la
vita*1.
La religione cristiana, in quanto unica vera,
perché l’unica sicuramente rivelata, era
incomparabile (oltre che incompatibile) con le
altre. Battersi per l’universale libertà di
coscienza in religione avrebbe significato
metterla sullo stesso piano delle altre, tutte
false perché non rivelate da Nostro Signore.
Esse non venivano da Dio ma dagli uomini, in
particolare il paganesimo, impestato dal Demonio
(Salmo 96, 5; 1 Cr 10,20). I Martiri volevano la
libertà di martirio, di morire per la loro fede,
e sembravano disinteressarsi completamente della
libertà di professarla come una religione uguale
alle altre, tra le altre. Quando S. Perpetua,
condotta con gli altri a morire nell’Arena di Cartagine, vide che per dileggio e per farli in
qualche modo apostatare volevano far indossare a
tutti loro indumenti usati nelle iniziazioni ai
misteri pagani, esclamò, ottenendo il
contrordine: “Siamo giunti al martirio
spontaneamente, proprio perché la nostra libertà
non venisse incatenata (ne libertas nostra
obduceretur); abbiamo rinunciato alla nostra
vita proprio per non esser costretti a fare cose
simili: questo era il patto che avevamo
concordato [con le autorità]”*2. Quale libertà
temevano venisse loro conculcata, quella
“religiosa”, di “culto”, da riconoscersi per di
più su di un piano di parità anche alle false
religioni? No: era la libertà di poter correre
subito con tutta l’anima e persino con gioia
verso Cristo Risorto, grazie al “battesimo di
sangue”!
Se poi guardiamo alla letteratura apologetica,
non mi sembra che il quadro subisca mutamenti
sostanziali. Gli Apologisti si preoccupavano
soprattutto di dimostrare la vacuità e
l’assurdità delle infami calunnie diffuse sui
cristiani (“ateismo, cene tiestee e unioni
edipodee” nelle parole di Atenagora),
dimostrando la falsità del politeismo, le
ipocrisie di chi li voleva giudicare, la dignità
e l’onestà della loro religione; rivendicando la
loro fedeltà all’impero, in quanto governo
civile giusto ed efficiente, purché non
pretendesse di usurpare gli attributi di Dio*3.
Non mi sembra che gli Apologisti presentino i
cristiani in generale quali vittime della
mancata libertà di parola e di coscienza o i
martiri quali caduti nella lotta per questo tipo
di libertà. Di essa non troviamo traccia nella
breve esortazione Ad Martyras di Tertulliano. La
libertà di parola, per la mentalità romana, era
da attribuirsi a chi possedesse auctoritas: non
c’era il concetto moderno di un diritto
universale della persona in quanto tale a
siffatta libertà e pertanto a quella di
manifestare comunque la propria fede religiosa,
con l’obbligo da parte dello Stato di garantire
tale manifestazione*4.
Che significato bisogna dare, allora, al
riferimento alla “libertas religionis” negata ai
cristiani, che ritroviamo in un noto passo di
Tertulliano? A mio avviso, il riferimento del
grande apologista più che a rivendicare un
diritto mira a far vedere le contraddizioni
della legislazione imperiale in materia. Ma
come, esclama, voi ci perseguitate già solo per
il nostro nome, mettendoci brutalmente di fronte
all’alternativa: abiura o condanna (e spesso a
morte); non ci lasciate esporre il vero
contenuto del nostro credo, che è quello della
fede nel vero ed unico Dio; voi vi preoccupate
di “sopprimere la libertà religiosa” (adimere
libertatem religionis) nei nostri riguardi
mentre autorizzate tutte le religioni possibili
ed immaginabili, tant’è che “è stato permesso
agli Egiziani di praticare la loro fatua
superstizione che è tutta nella celebrazione di
uccelli e bestie, condannando a morte chiunque
si renda reo di soppressione di uno qualsiasi di
questi dèi. Non c’è provincia, non c’è città che
non abbiano il loro dio: per la Siria Atargatis,
per l’Arabia Dusares; per il Norico Beleno, per
l’Africa Celeste, per la Mauritania i suoi
reucci”. E nei municipi italiani, troviamo
“Delventino a Cassino, Visidiano a Narni,
Ancaria ad Ascoli, Norzia a Bolsena, Valenzia a
Otricoli” e chi più ne ha più ne metta. “Solo a
noi si contesta il diritto di una religione
propria! (Sed nos soli arcemur a religionis
proprietate!)”. Si arriva così all’assurdo che
voi ammettete “il diritto di adorare chi si
vuole fuorché il vero Dio, quasi questi non
fosse piuttosto l’Iddio di tutti perché tutti
siam suoi"*5.
Pur essendo qui evidente una rivendicazione
implicita al riconoscimento della libertà di
culto anche per i cristiani, che certo (ripeto)
sarebbero stati lieti di vedersela attribuire,
lo spirito che la informa non è sicuramente
quello moderno della rivendicazione di un
diritto universale della persona e quindi da
riconoscersi a tutte le religioni. A Tertulliano
preme soprattutto far vedere l’assurdità di una
legislazione che permette libertà di culto a
tutte le religioni, anche le più strane, e a
tutti i culti del genius loci, mentre vieta
l’unica dedicata al vero Dio e quindi
intrinsecamente superiore a tutte le altre. Il
suo rilievo sembra in realtà costituire
un’ulteriore rivendicazione della superiorità
assoluta del Cristianesimo, non una
rivendicazione di una libertà religiosa uguale
per tutti. È questa superiorità, che gli deriva
dalla sua intrinseca, assoluta verità di unica
religione rivelata da Dio, a rendere meritevole
il Cristianesimo del riconoscimento di religio
licita (che fu poi accordato tra il 311 e il
313).
Ma i “primi cristiani”, secondo il prof.
Rhonheimer, si limitavano a richiedere “la
libertà di poter confessare la loro fede senza
esser vessati dallo stato”, senza “rivendicare
la promozione da parte dello stato della verità
religiosa”, facendo di fatto valere l’esigenza
di una “libertà di coscienza” che “corrisponde
esattamente” al modo nel quale la si intende
oggi*6. E si limitavano a questo perché “a
partire dal Vangelo e dall’esempio di Gesù
Cristo”, il Cristianesimo “è stato concepito
come fondato essenzialmente sulla separazione
tra religione e politica”*7. Ma anche nei
cristiani poco inclini al martirio dobbiamo
sempre presumere la stessa convinzione di
Tertulliano: che solo la loro religione fosse
l’unica vera e che a questa, secondo il dettato
evangelico, tutto l’orbe dovesse esser
convertito, evidentemente a scapito delle altre,
frutto di testarde apostasie o di perniciose
superstizioni, onde la libertà di culto ad essa
eventualmente concessa mai avrebbe potuto avere
il significato che già aveva per le altre. E ciò
a prescindere dalla “promozione” della verità
religiosa da parte dello Stato. Ma si può dire
che i primi cristiani si disinteressassero del
rapporto tra Stato e religione, accontentandosi
di ottenere il libero esercizio del loro culto
da parte di uno Stato che si mantenesse neutrale
ed imparziale in materia? Se rileggiamo un
famoso passo di Tertulliano, non vi troviamo già
inevitabilmente l’ipoteca cristiana sullo Stato?
5. I primi cristiani già miravano a convertire
lo Stato. Respingendo l’accusa di “lesa maestà”
per via del rifiuto a sacrificare per
l’imperatore, Tertulliano replica che i
cristiani pregano per l’imperatore invocando su
di lui la protezione del vero Dio, che gli ha
conferito la sovranità per il bene dei popoli.
Gli imperatori “sanno molto bene chi ha loro
conferito l’impero”. E ognuno di loro deve
capire che “è sovrano in virtù di colui da cui
dipende come uomo prima che come imperatore; la
potestà gli viene là donde gli viene pure
l’anima”*8. I cristiani dunque possono dire, con
pieno diritto: “Cesare è più nostro che vostro,
perché è il nostro Dio che l’ha costituito come
tale”*9. Ma che significa ciò se non auspicare
da parte degli imperatori la presa di coscienza
della giusta origine divina del loro potere;
presa di coscienza che poteva aver luogo solo
mediante la loro conversione a Cristo? La
missione di convertire tutti i popoli e le
nazioni, e non solo Israele, ordinata da Cristo
risorto (Mt, 28, 18-20), non poteva certo
limitarsi alla coscienza individuale dei
privati: essa doveva necessariamente investire
anche i governanti, in quanto individui preposti
al bene dei popoli, e quindi mirare a render
cristiano il governo dello Stato. E uno Stato
cristiano avrebbe potuto limitarsi ad una
posizione neutra ed equidistante nei confronti
della vera religione, senza promuoverne gli
insegnamenti nella società, a cominciare da
quelli morali, e senza difenderla dall’attacco
delle eresie, corruttrici delle anime e dei
costumi, e in generale da ogni tipo di ostilità
e pericoli? Mi sembra pertanto assai poco
credibile fare dei primi cristiani una sorta di
liberali ante litteram, preoccupati soltanto
della libera manifestazione del loro particulare
confessionale, nel rispetto della “libertà
religiosa” altrui, garantita dallo Stato.
6. Il significato dottrinale delle condanne
preconciliari. E vengo ora al modo nel quale
l’Autore, proseguendo nel suo commento al
pensiero del Pontefice, espone le ragioni delle
condanne preconciliari della “libertà
religiosa”. Infatti, perché Gregorio XVI e Pio
IX, “per non citare che questi due papi, avevano
identificato il fondamentale diritto alla
libertà di religione, di coscienza e di culto
del cittadino moderno con una negazione della
vera religione”? Perché “essi non potevano
immaginare che una verità religiosa e una vera
Chiesa potessero esistere senza che quest’ultima
non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla
politica, e rispettata dal diritto civile. In
effetti, un gran numero dei loro avversari
liberali rivendicavano la libertà di religione
presentando l’argomento esattamente contrario:
una tale libertà è necessaria perché non c’è
affatto una verità religiosa”*10.
L’accenno dell’Autore al nucleo filosofico e
teologico della dottrina preconciliare, merita
ulteriori approfondimenti. Per i Papi, infatti,
non si trattava di difendere “una verità
religiosa” ma “la verità religiosa”, l’unica
autentica verità perché rivelata da Nostro
Signore Gesù Cristo, consustanziale al Padre,
seconda Persona della Santissima Trinità. I
liberali, più ancora che negare l’esistenza “di
una verità religiosa”, negavano la possibilità
stessa dell’esistenza di una verità assoluta,
sulla fede e sui costumi, come quella costituita
appunto dalla Verità Rivelata. Ciò era conforme
alla loro nozione soggettivistica della verità,
cui non conferivano un sicuro fondamento
oggettivo fuori di noi, dipendendo essa sempre
(dicevano) dai nostri sensi e dal concetto
elaborato dalla nostra mente e pertanto dalla
nostra opinione, dal nostro modo di sentire. Per
i liberali, la S. Bibbia era (ed è) nient’altro
che mitologia, allo stesso modo, per dire, del Rig Veda. Tra Cattolicesimo e Liberalismo c’era
(e c’è) un contrasto insanabile nel modo di
intendere la verità e per conseguenza la
libertà. Il soggettivismo e relativismo del
punto di vista liberale privilegiava la
“libertà” intellettuale, morale e pratica del
soggetto, dandole un valore assoluto, prevalente
sulle esigenze della verità, che non potevano
mai esser tali da impedire quella libertà (veritas
ancilla libertatis, potremmo dire: della libertà
incondizionata del nostro io, condizionata solo
da esigenze esterne quali la correttezza
contrattuale, l’ordine pubblico e la pace
sociale). Il punto fu colto egregiamente da
Leone XII nella Mirari vos (1832). Egli
sottolineò come l’indifferentismo, che metteva
sullo stesso piano tutte le religioni, fosse
figlio della “libertas opinionum” proclamata
dalla coscienza moderna, noncurante
dell’ammonimento di S. Agostino: “At quae peior
mors animae, quam libertas erroris?”*11. Il
fatto è che, per la coscienza moderna,
“l’errore” non esiste, negando essa assurdamente
l’esistenza di una verità oggettiva, tanto più
se assoluta, perché di origine sovrannaturale.
Le condanne preconciliari della “libertà
religiosa” riposavano dunque su di un solido
nucleo dottrinale, ad un tempo metafisico e
teologico. Non erano semplici “provvedimenti
disciplinari”, come ha sostenuto qualcuno*12.
“Per Pio IX era in pericolo la salvaguardia
stessa dell’essenza della Chiesa, della sua
rivendicazione di essere l’unica verità e causa
di salvezza”, essendo negata tale rivendicazione
dall’indifferentismo e relativismo religiosi*13.
Mantenendo nel deposito della fede la verità
assoluta che è la Verità Rivelata, la Chiesa
è necessariamente l’unica “causa” della Salvezza
e fuori di essa non si dà salvezza (tranne –
ricordo – nei casi individuali di Battesimo di
desiderio, implicito o esplicito, perché gli
uomini giusti e pii che senza colpa non
conoscono la vera religione, non vanno in
perdizione)*14.
NOTE
(1) Atti e passioni dei Martiri, nell’ edizione
critica apparsa nella collana della Fondazione
Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1995³, p. 167.
Dichiararsi cristiano significava rischiare la
condanna a morte, se non si abiurava
sacrificando agli dèi del culto ufficiale o per
o all’imperatore. Ma compiere questo sacrificio
significava appunto apostatare, violare il Primo
Comandamento.
(2) Ivi, p. 141.
(3) ATENAGORA, Supplica per i cristiani, tr. it.
introd. e note a cura di P. Gramaglia, Ed.
Paoline, 1965, p. 36, per le calunnie. Sembra
che queste mostruose falsità trovino ancora
largo credito tra le plebi musulmane. Ma le
calunnie più incredibili investono di nuovo il
Cattolicesimo in Occidente grazie alle campagne
mediatiche organizzate sulla scorta di romanzi
d’accatto, che sembrano scritti con il preciso
scopo di attaccare la nostra religione, quali il
tristemente noto: The Da Vinci Code,
dell’americano Dan Brown.
(4) Sul nesso libertà di espressione-autorità,
cfr. : A. MOMIGLIANO, La libertà di parola nel
mondo antico (1971), ora in ID., Sesto
contributo alla storia degli studi classici e
del mondo antico, Ed. di Storia e letteratura,
Roma, 1980, pp. 403-36; p. 432. Sottolinea
inoltre l’illustre Autore: “Per quel che ne so,
nessuno presentò la disputa pro o contro il
cristianesimo come una questione che
coinvolgesse il principio della libertà di
parola” (ivi, p. 433). La libertà di parola è
sempre stata considerata aspetto essenziale
della libertà di coscienza e religiosa nel senso
moderno del termine.
(5) Apologeticum, 24, tr. it. con testo a fronte
di E. Buonaiuti, introd. revis. e commento di E.
Paratore, Laterza, 1972, pp. 150-3.
(6) ER, ed. it., p. 4.
(7) Ivi, p. 11.
(8) Apol., 30, ed. cit. pp. 175-7.
(9) Ivi, 33, pp. 181-3.
(10) ER, ed. it., p. 4.
(11) DS, 2731.
(12) ER, p. 10, ed. it.
(13) Ivi.
(14) Rm 2, 9-16; Civ. Dei, I, XXXV; Denz.-Stahl,
1504 (Alloc. di Pio IX Singulari quadam del
9.12.1854); Denz.-Schönmetzer, 3866-3873 (Epist.
del S. U. dell’8.8.1949 che condanna il
rigorismo).
III capitolo
7. Infondatezza della critica a Pio IX e
all’intera dottrina della Chiesa sul rapporto
con lo Stato. Riconosciuta la grandezza di Pio IX per aver difeso la fede contro
“l’individualismo e il relativismo religiosi”,
il Nostro inizia però a criticarlo perché quel
Papa avrebbe trasformato “la giusta battaglia
contro l’indifferentismo e il relativismo” in
una “battaglia contro il diritto civile alla
libertà religiosa e di culto”. Questa
trasformazione, secondo l’Autore, è dovuta al
prevalere all’epoca di considerazioni
storicamente datate, secondo le quali “lo stato
è il garante della verità religiosa e la Chiesa
possiede il diritto a servirsi dello stato come
del suo braccio secolare per assicurare le sue
responsabilità pastorali. Ora, una tale
concezione dello Stato non riposava minimamente
sui principi della dottrina della fede e della
morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni
e le pratiche del diritto religioso di origine
medievale così come sulle loro giustificazioni
teologiche”. Riposava, allora, unicamente “su
dei modelli medievali e della tarda antichità
cristiana ma che hanno acquistato la loro forma
definitiva soltanto all’interno dello stato
confessionale moderno”*1.
Queste affermazioni mi sembrano estremamente
pesanti: l’Autore sostiene in pratica che tutta
la dottrina della Chiesa sulla necessità per lo
Stato di essere cristiano e di operare pertanto
anche come braccio secolare in difesa della vera
religione e della Chiesa, “non riposa
minimamente sulla fede e la morale cattoliche” e
pertanto nemmeno sul dogma! La Gerarchia avrebbe
sbagliato per così tanti secoli, dunque! E non
solo, osservo, dalla tarda antichità ma da
sùbito. Il tetrarca Agrippa non interruppe forse
l’incalzante argomentare di S. Paolo,
dicendogli: “ Poco manca che tu non mi fai
diventar cristiano!”, ricevendo questa risposta:
“Manchi poco o molto, desidero da Dio che non
solo tu, ma quanti oggi mi ascoltano, diventiate
tali quale son io, salvo queste catene [della
prigionia]” (Atti 26, 28-9; ma vedi anche 2 Tm
4, 1 ss.). S. Paolo stava forse perorando per la
“libertà religiosa”, perché la vera fede si
vedesse elargita l’elemosina del riconoscimento
di religio licita? I Martiri e gli Apologisti
(come si è visto) non sentivano e non parlavano
diversamente da S. Paolo. Proselitismo, dunque,
anche trovandosi in catene, e fino all’ultimo
respiro, affinché il più gran numero possibile
si convertisse e si salvasse! E nel pieno delle
persecuzioni di Marco Aurelio, Melitone, vescovo
di Sardi, non ebbe il coraggio di affermare che
“la fede cristiana doveva diventare la filosofia
[la concezione della vita] dell’impero
romano”?*2 Rischiavano la morte per il solo
fatto di esser tali eppure già pensavano di
poter conquistare l’impero romano, di fare della
Fede la sua “filosofia”. Che anche lo Stato
debba essere cristiano, che debba perciò
proteggere la vera religione e la Chiesa e farne
applicare la morale, è dottrina (e prassi)
costante, da S. Ambrogio a S. Agostino a S.
Tommaso, allo “Stato confessionale moderno”;
dottrina inalterata, possiamo dire, sino a Pio
XII, fondata sulla Scrittura oltre che sulla
Tradizione. Ma davvero dobbiamo credere che
tutti avrebbero sbagliato, che solo il Vaticano
II, dopo un’oscurità di circa venti secoli,
avrebbe fatto chiarezza?
E per qual motivo questa dottrina non
riposerebbe “né sulla fede né sulla morale
cattoliche”? Come giustifica il prof. Rhonheimer
un’affermazione del genere? Con l’intendere il
“rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e
a Dio quel che è di Dio” (Lc 20,25) come se
Nostro Signore avesse comandato una separazione
radicale tra “religione” e “politica” e quindi
fra lo Stato e la Chiesa. Già l’epoca
“post-costantiniana del cristianesimo” avrebbe
rappresentato una deviazione, mediante
“decisioni concrete [quali?]” poi
“cristallizzatesi in tradizioni canoniche e
nelle loro interpretazioni teologiche
corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha
cercato di difendere la sua libertà, la
“libertas ecclesiae”, dagli attacchi incessanti
delle potenze temporali: si pensi in particolare
alla dottrina medievale delle due spade che,
all’epoca, cercava di giustificare
teologicamente e biblicamente la comprensione
della “plenitudo potestatis” del papa”. Dalla
teoria delle due spade, che sembra non godere la
simpatia dell’Autore, si è giunti, nei secoli
più vicini, a “una giustificazione dello stato
cattolico ideale”, quello della simbiosi tra “il
trono” e “l’altare”, nel quale lo statista
cattolico zelante “sosteneva la causa dei
“diritti della Chiesa” invece che dei diritti
civili alla libertà religiosa; si è giunti al
trionfo del “clericalismo” e ad una “società
clericale”, cose che “hanno oscurato il volto
della Chiesa”*3.
Insomma, il Papa teorico delle “due spade”
sarebbe stato tra i responsabili del
“clericalismo” che (sino al Vaticano II escluso)
avrebbe “oscurato il volto della Chiesa”. Ma il
significato della celebre frase del Signore sul
rapporto tra Cesare e Dio, tra Stato e Chiesa,
mi chiedo, chi lo deve stabilire? Non è compito
che spetta alla Chiesa stessa, come ribadiscono
i dogmatici Tridentino e Vaticano primo? E se la
Chiesa stessa l’ha interpretato in un medesimo
senso per così tanti secoli, per qual motivo il
prof. Rhonheimer ne dà un’interpretazione
diversa e persino opposta, proponendo l’idea
della separazione là ove si tratta invece di
distinzione? Infatti, nel famoso passo
dell’epistola dell’AD 494 indirizzata ad Anastasio imperatore d’Oriente, Gelasio I
affermò che “le due spade”, i due poteri i
quali, per volontà divina, reggevano il mondo
(la “auctoritas sacrata pontificum” e la
“regalis potestas”) erano due “dignitates
distinctae”, poiché presiedevano la prima
“all’eterna vita”, la seconda “al corso delle
cose temporali”, e tuttavia coordinate nella
subordinazione a Cristo, unico vero Capo*4.
Distinzione e non separazione poiché lo Stato,
pur essendo distinto ed autonomo nella sua sfera
(così come la Chiesa nella sua), deve tuttavia
considerarsi sempre subordinato allo Spirituale,
dal quale dipendono le norme morali che lo Stato
ha il dovere di attuare sia per realizzare il
suo fine specifico (il Bene comune, con la sua
giustizia) sia per concorrere anch’esso (per ciò
che gli spetta e quindi sempre nella sua sfera)
alla realizzazione del Bene Sommo da parte di
ciascun cittadino, costituito dalla salvezza
della sua anima. La separazione è inaccettabile
perché implica divergenza quanto ai rispettivi
fini specifici. Invece, anche lo Stato deve
ritenersi ordinato nella sua sfera alla
realizzazione del Bene Sommo, che è
sovrannaturale: rappresentato dalla Visione
Beatifica, della quale godranno un giorno gli
Eletti da Dio, in eterno. Che questa
plurimillenaria dottrina della Chiesa, fondata
da sempre su Rm 13, 1-6, e su di
un’interpretazione costante della celebre frase
di Nostro Signore sopra ricordata, non sia in
accordo con la fede e la morale cristiane, e
quindi con il dogma, è affermazione che mi
sembra alquanto temeraria. La Chiesa non poteva
accettare l’unione di politica e religione che
si realizzava nella persona pagana
dell’imperatore romano. Ma essa ha ovviamente
sempre respinto l’idea di una separazione tra
Stato e Chiesa poiché quest’ultima comporta
appunto la concezione laica dello Stato,
indifferente ad ogni credo religioso e alla vita
eterna, inteso solo alle finalità di questo
mondo. E comporta quel pluralismo religioso che
sicuramente non è mai stato insegnato da Nostro
Signore, il quale ha detto e ripetuto che solo
Lui è la verità, la via, la vita, la Porta
attraverso la quale il buon pastore può far
uscire le pecore, le anime dei fedeli da questo
mondo per condurle al pascolo della vita eterna
(Gv 10, 7 ss.). Dal punto di vista veramente
cristiano, ossia cattolico, non può esistere uno
Stato che sia neutrale ed imparziale rispetto
alla religione e quindi indifferente a Cristo.
Il Signore stesso ci ha ammonito: “Chi non è con
me è contro di Me e chi non raccoglie con Me
disperde”. La profonda verità racchiusa in
queste parole colpisce vieppiù oggi, costretti
come siamo a constatare il carattere sempre più
anticristiano della nostra società, governata da
uno Stato che vuol essere laico, cioè senza
religione, senza Dio, senza morale, preoccupato
soprattutto dei bisogni materiali dei cittadini.
8. L’Autore riesce a dimostrare l’effettiva
continuità della nuova dottrina? Alla dottrina
preconciliare (risalente ai primi tempi della
Chiesa), l’Autore oppone dunque quella
conciliare: “La dottrina del Vaticano II
rappresenta qui una chiara svolta rispetto al
passato”; essa libera la Chiesa da “un fardello
storico”; bisogna dire che essa ha “tacitamente
archiviato” la dottrina preconciliare “con
l’atto di magistero solenne di un concilio
ecumenico”*5. A proposito di quest’ultima
affermazione mi chiedo, da semplice credente:
questa “archiviazione tacita” effettuata da un
Concilio ecumenico solo pastorale – perché non
ha voluto dare definizioni dogmatiche – ha un
significato dal punto di vista teologico e
canonistico? O dobbiamo equipararla alla
“archiviazione tacita” della S. Messa di rito
romano antico effettuata da Paolo VI? E quanto
alla coerenza di questa nuova dottrina, che cosa
dire?
8.1 La libertà religiosa come diritto naturale.
Se la nuova dottrina crede ancora che la
religione cristiana ossia cattolica (perché
bisogna evidentemente escludere gli eretici e
gli scismatici) sia l’unica vera perché l’unica
autenticamente rivelata da Dio, allora non può
porre la sua rivendicazione della connessa
“libertà religiosa” sullo stesso piano di quella
delle altre religioni, nessuna delle quali può
considerarsi rivelata. Se lo fa, tale
equiparazione deve prescindere totalmente dal
contenuto della religione ossia dalla sua
verità. Adoratori delle cipolle sacre, della dea Kalì, adepti del Vûdû, totemisti, cattolici,
protestanti, ebrei, musulmani, sono posti tutti
sullo stesso piano in quanto titolari di un
supposto “diritto naturale” della persona alla
“libertà religiosa”, diritto fondato sulla
“dignità della persona” stessa (Dignitatis
Humanae, 2). Infatti, in quanto “diritto
naturale”, tale diritto spetta ontologicamente
ad ogni individuo, perché ogni individuo è
persona, sia esso un uomo civilizzato o un
cacciatore di teste*6. In quanto diritto
naturale, si tratta di un diritto assoluto, che
lo Stato deve riconoscere e che implica di per
sé l’equiparazione assoluta di tutte le
religioni. Ma in tal modo, la nuova dottrina non
viene a contraddire implicitamente il dogma
della fede, secondo il quale la religione
predicata da Cristo, essendo l’unica vera a
causa della sua indiscussa origine divina, non
può esser mai considerata uguale alle altre, con
le relative conseguenze che ciò comporterebbe?
Insomma, che ne è dell’unicità della nostra
religione, del Cattolicesimo in quanto Verità
divinamente rivelata, unico strumento della
salvezza? Se la religione cattolica è l’unica
vera, la rivendicazione di cui sopra non può
esser paritaria; se la si vuole paritaria, ciò
equivale a negare che la religione cattolica sia
l’unica vera.
Come esce il Concilio da questo dilemma,
provocato, lo ripeto, dall’aver concepito la
“libertà religiosa” non come una semplice
facoltà, riconosciuta dallo Stato, esercitabile
con prudenza a seconda delle circostanze
storiche (vedi Enciclica di Leone XIII, supra, §
2), ma addirittura come un diritto naturale di
ogni individuo in quanto persona, diritto che
non solo lo Stato ma anche la Chiesa ed anzi
tutte le religioni devono riconoscere, se non
vogliono violare la “dignità” della suddetta
persona? Dopo aver concepito questo “diritto” in
modo così rigido, il Concilio riesce ad
accordarlo con il principio, assoluto dato il
suo fondamento sovrannaturale, dell’unicità della
religione cattolica, in quanto unico strumento
di salvezza?
8.2 Il Concilio ha mantenuto “l’unicità” del
Cattolicesimo? Scrive il prof. Rhonheimer: “Come
insegna il Vaticano II, il diritto alla libertà
di religione e di culto non implica in alcun
modo che tutte le religioni si equivalgono.
Questo diritto è in effetti un diritto delle
persone e non concerne la questione di sapere in
quale misura ciò che le persone credono
contraddica alla verità. In altri termini,
riconoscere che i fedeli di tutte le religioni
godano del medesimo diritto civile alla libertà
di culto, non significa che, poiché è un diritto
di tutti, allora tutte le religioni debbano
essere “ugualmente vere””*7. Dove insegna il
Concilio che non c’è equivalenza tra tutte le
religioni? Verosimilmente in DH, 1, là ove si
dice: “E poiché la libertà religiosa […]
riguarda l’immunità dalla coercizione nella
società civile, essa lascia intatta la dottrina
tradizionale cattolica sul dovere morale dei
singoli e delle società verso la vera religione
e l’unica Chiesa di Cristo”*8. Nel capoverso
precedente dello stesso articolo, la DH ribadiva
questa dottrina tradizionale, affermando che “il
sacro Concilio professa che Dio stesso ha fatto
conoscere al genere umano la via attraverso la
quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo
trovare salvezza e pervenire alla beatitudine.
Quest’unica vera religione crediamo che sussista
[solamente] nella Chiesa cattolica e apostolica,
alla quale il Signore Gesù ha affidato la
missione di comunicarla a tutti gli uomini
[segue citazione di Mt 28, 19-20] E tutti gli
esseri umani sono tenuti a cercare la verità,
specialmente in ciò che concerne Dio e la sua
Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man
mano che la conoscono e a rimanerle fedeli”*9.
Riportando questo passo, mi sono permesso di
inserire tra parentesi quadre un avverbio
(solamente, solum) che, io credo, se inserito
dai Padri conciliari, avrebbe permesso di
affermare senz’ombra di dubbio che il testo
ripete in modo del tutto fedele il dogma della
fede, sulla assoluta unicità ed esclusività
della Chiesa cattolica in quanto strumento di
salvezza istituito da Nostro Signore. Così
com’è, infatti, il testo non sfugge, com’è noto,
all‘impressione di una sostanziale ambiguità,
dovuta anche all’uso del “subsistit in” del
famoso art. 8 di Lumen Gentium, ove si definisce
la natura della Chiesa cattolica come se fosse
parte dell’unica “Chiesa di Cristo”: parte
poiché quest’ultima, oltre alla Chiesa
cattolica, ricomprenderebbe anche “parecchi
elementi di santificazione e verità” posti “al
di fuori” della Chiesa cattolica. Perciò
“l’unica vera religione che sussiste nella
Chiesa cattolica” sarebbe allora quella di una
“Chiesa di Cristo” che possiede “elementi” al di
fuori della Chiesa cattolica. E chi vuole non
può forse intendere che “l’unica vera religione”
sussiste allora anche negli “elementi”
non-cattolici della “Chiesa di Cristo”?
Ma torniamo al punto: perché, secondo il
Concilio, non v’è contraddizione tra la dottrina
nuova e la vecchia? Perché la dottrina nuova, ci
viene spiegato da DH 1, “lascia intatta la
dottrina tradizionale cattolica sul dovere
morale dei singoli e delle società verso la vera
religione e l’unica Chiesa di Cristo” (“Chiesa
di Cristo”, si noti). Ma qual’è la dottrina
tradizionale “sul dovere verso la vera religione
etc.”? Si dovrà ammettere che tale dottrina non
è qui facilmente identificabile, essendo il suo
oggetto indicato con l’oscura espressione
“dovere verso la vera religione etc.”. Che
significa “dovere verso la vera religione e
l’unica Chiesa di Cristo”? Dovere di fare che
cosa? Il significato di queste affermazioni, ci
ricorda il prof. Rhonheimer, è chiarito dal CCC,
al n. 2105, che afferma, “citando il passaggio
sopra menzionato, che è dovere tanto
dell’individuo che della società “rendere a Dio
un culto autentico”. Culto che la Chiesa
realizza “evangelizzando senza posa gli uomini”,
affinché essi possano penetrare di spirito
cristiano “la mentalità e i costumi, le leggi e
le strutture della comunità in cui vivono”. A
ogni cristiano si chiede di far conoscere
“l’unica vera religione che sussiste nella
Chiesa cattolica ed apostolica”. Questo è il
modo – conclude l’articolo del CCC – nel quale
la Chiesa manifesta “la regalità di Cristo su
tutta la creazione e in particolare sulle
società umane””*10.
La dottrina nuova esprimerebbe dunque gli stessi
concetti della “dottrina tradizionale”, quando
stabilisce i doveri dell’uomo verso Dio. E
questi “doveri” si sintetizzano nel “dovere” di
rendere a Dio “un culto autentico”. Questo
dovere – osservo – vale come sappiamo per ogni
uomo, non solo per i cristiani. Ma poiché i
culti sono non solo diversi ma persino opposti
tra loro, quale sarà allora “il culto
autentico”? È possibile ricavare un concetto
universale di “culto autentico”?*11 Sarà forse
quello di una religione naturale, che viene dal
cuore, come per i Pietisti, o dalla sensibilità,
come per il rousseauiano “Vicario Savoiardo”?
Che vuol dire poi “autentico”? L’animista che
adora il suo feticcio o il quacchero che recita
parole incomprensibili torcendosi sotto l’émpito
dello “Spirito” offrono un culto meno
“autentico” o più “autentico” di chi prega
devotamente in una chiesa cattolica o invoca
Allâh inginocchiato nel deserto? Comunque sia,
questo “culto autentico” da cosa è costituito,
per la Chiesa, anzi per “i cristiani”?
Dall’”evangelizzazione”. Per “convertire” gli
uomini, praticando il proselitismo della
dottrina tradizionale? No. Per far sì che “la
mentalità, i costumi, la società etc.” siano
“penetrati” dello “spirito cristiano”. Questo il
dovere dei singoli cristiani, per “affermare la
regalità di Cristo su tutta la creazione e in
particolare sulle società umane”. Bisogna che il
mondo sia “penetrato” ed anzi “impregnato dello
spirito di Cristo” (LG, 36), che i cristiani
“animino e perfezionino con lo spirito cristiano
l’ordine delle realtà temporali” (decreto
Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei
laici, 4).
La dottrina tradizionale sosteneva che la
missione della Chiesa era quella stessa degli
Apostoli: convertire (“render discepoli di
Cristo”) i popoli e gli individui, perché solo
diventando cristiani potevano esser graditi a
Dio ed ottenere la vita eterna. La nuova
dottrina, invece, afferma che l’evangelizzazione
deve limitarsi a “impregnare” gli uomini di
spirito cristiano, facendo loro conoscere
“l’unica vera religione”, che è quella “che
sussiste [anche o solamente?] nella Chiesa
cattolica ed apostolica”. “Penetrare”,
“impregnare”, “animare”: tanti termini oscuri al
posto di uno semplice e chiaro quale
“convertire”.
Ma ammettiamo pure che il Concilio mantenga
senza ambiguità la dottrina tradizionale sulla
necessità imprescindibile della conversione
delle Genti per la loro salvezza. Si
concilierebbe tale professione con il
riconoscimento della libertà di religione quale
diritto naturale e quindi assoluto della
persona? Si concilierebbe con l’accettazione di
fatto del conseguente pluralismo religioso?
NOTE
1) ER, p. 11, ed. it.
Corsivi miei.
2) E. GILSON, La filosofia nel Medioevo. Dalle
origini patristiche alla fine del XIV secolo
(1952), tr. it. di M. Assunta del Torre, present.
di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze, 1995,
p. 31.
3) ER, p. 12 ed. it. Corsivi miei.
4) F. CALASSO, Medio Evo del diritto. I - Le
fonti, Giuffré, Milano, 1954, p. 140.
5) ER, passim, ed. it. L’ultima citazione è alla
p. 12.
6) ER, ed. it., p. 9: “È dunque certamente
giusto dire che il Concilio Vaticano II
considera la libertà religiosa come facente
parte del diritto naturale”.
7) ER, ed. it., p. 8. Corsivi miei.
8) I documenti del Concilio etc., cit., p. 580.
9) Ivi.
10) ER, ed. it., p. 7. Si evita sempre di dire:
“che sussiste solamente nella Chiesa Cattolica”.
11) La Mediator Dei (1947), in modo netto e
preciso, parlava invece del dovere per tutti gli
uomini di offrire: “debitum cultum atque
obsequium per religionis virtutem Deo uni et
vero”(PIO XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla
liturgia, tr. it. con testo a fronte, Vita e
Pensiero, Milano, 1956, p. 14).
IV capitolo
8.3 Quale diritto naturale ci propone DH 2? Il
Concilio, a proposito della libertà religiosa,
propugna, dunque, “un diritto della persona e
non della verità"(1). Esso separa (alla maniera
dei Moderni) la libertà della persona, con le
sue esigenze di libera manifestazione del
pensiero, dalla verità religiosa, che ha le sue
proprie esigenze. Quest’ultima, afferma di
averla salvata dall’indifferentismo perché
avrebbe mantenuto (nel modo che si è appena
visto) l’idea dell’unicità del Cattolicesimo per
la salvezza, onde graverebbe sempre sulla
persona l’obbligo morale di ricercare la verità,
sì da giungere alla conoscenza della vera
religione. Ma quest’unica e superiore verità,
costituita dalla Verità Rivelata, non resta come
in una sorta di limbo, se non se ne proclama il
diritto ad esser predicata nei confronti delle
altre religioni (tutte non rivelate tranne
l’Ebraismo, caduto però nell’apostasia a causa
del suo rifiuto cosciente e persistente di
Cristo) affinché i loro seguaci le abbandonino
per convertirsi al Cattolicesimo, cioè a Cristo?
Se la religione cattolica ha effettivamente
preservato, grazie al Magistero della Chiesa, la
Parola del Dio che si è fatto uomo, non c’è
(supposto) “diritto naturale” alla libertà
religiosa che possa esserle opposto, per
impedirle di convertire i popoli e gli
individui, sostituendosi alle altre religioni,
facendole sparire (sostituendovisi di fatto,
grazie alla conversione dovuta alla predicazione
e all’esempio di vite veramente cristiane,
illuminate dalla Grazia, non ad un intervento
dello Stato, la cui azione come “braccio
secolare” ha del resto sempre avuto un
significato secondario, di intervento a difesa).
Invece il Concilio afferma che lo Stato non deve
“promuovere” la religione cristiana e deve
invece garantire l’opportuna libertà di culto a
tutte le religioni (DH, 2, 4, 6). Il rispetto
del diritto naturale alla libertà religiosa da
parte dello Stato deve essere assoluto: lo Stato
ha il dovere di garantirla a tutti come “diritto
civile” (DH, 2, 4, 7, 13). Ma questo rispetto
assoluto ha una conseguenza anche per la Chiesa:
quella di renderne praticamente impossibile
l’opera di conversione degli infedeli. Anche la
conversione, inattuabile senza proselitismo,
sarebbe, infatti, una coartazione del diritto
naturale alla libertà religiosa dei
non-cattolici, perché essa (come si vede dai
Vangeli) consiste nell’investirli frontalmente
con la proclamazione della Parola di Dio, che
incita al pentimento, a mutar vita, ad
abbandonare le loro vane credenze anteriori.
Tutto ciò, oltre a provocare la reazione (spesso
violenta) delle altre religioni, nell’ottica
adottata dalla DH non appare comunque un far
violenza all’altro? Violenza in senso
psicologico, si intende, menzionata
espressamente dal Concilio, quando afferma che
gli uomini sono sì tenuti a ricercare la verità
nella religione e ad ordinare ad essa tutta la
loro vita, una volta conosciutala, ma alla
condizione di godere sempre della “libertà
psicologica” oltre che dell’assenza di
“coercizione esterna” (DH, 2). Si comprende
allora il perché degli impegni formali con
Grecoscismatici ed Ebrei a non far opera di
proselitismo nei loro confronti o perché una
Madre Teresa di Calcutta non abbia mai cercato
di convertire nessuno alla vera fede(2). Cercare
di convertire eretici, scismatici ed infedeli,
per la salvezza della loro anima, vorrebbe dire
coartarli nella loro “libertà psicologica”!
Di fronte ad una concezione così radicale della
“libertà religiosa”, dobbiamo chiederci: quale
concetto di “diritto naturale” è posto a suo
fondamento? Non si tratta certo di quello
elaborato dalla Scolastica e sempre impiegato
dal Magistero preconciliare. Il “diritto
[naturale] della persona” alla libertà
religiosa, di cui a DH 2, riposa esclusivamente
sulla persona stessa, sulla sua “dignità”
intrinseca. È un diritto naturale dell’uomo in
quanto uomo. Nella plurisecolare concezione
cristiana tradizionale, invece, il diritto
naturale è visto sempre come l’espressione di
un’idea di giustizia il cui fondamento è nella
volontà stessa di Dio: esso non riposa mai
sull’essere umano in quanto tale(3). Ma il
Concilio non dice forse, sempre in DH 2, che “il
diritto alla libertà religiosa si fonda
realmente sulla stessa dignità della persona
umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di
Dio rivelata e la stessa ragione”? Dobbiamo
allora pensare che nel Nuovo Testamento, ai fini
della conversione delle anime, venga posta
l’enfasi sulla “dignità della persona umana”,
con il suo supposto diritto alla libertà di
coscienza in religione? In realtà, la “Parola di
Dio rivelata” riportata con florilegio di
citazioni nel lungo articolo 11 della DH
dedicato al “modo di agire di Cristo e degli
Apostoli”, non fa altro che rammentarci quello
che già si sapeva ossia che il Signore e gli
Apostoli non hanno mai cercato di convertire con
la coercizione e l’astuzia (seguiti anche in
questo dalla Chiesa, tant’è vero che i pochi
casi storici di conversioni forzate furono
dovuti alla scriteriata iniziativa personale di
qualche imperatore).
Ma valga il vero. Che il “diritto naturale”
posto dal Concilio a fondamento della libertà
religiosa sia in realtà parente dei diritti
dell’uomo dell’89, dichiarati in 17 articoli
dall’Assemblea Nazionale rivoluzionaria “en
présence et sous les auspices de l’Être suprême”,
come se quell’Assemblea fosse stata una Loggia,
lo conferma indirettamente anche lo stesso prof.
Rhonheimer quando ricorda che Benedetto XVI,
sempre nel famoso discorso alla Curia del 2005,
di contro alla doverosa condanna di Pio VI di
quella famosa dichiarazione, “prende le difese
della prima fase, quella “liberale” della
Rivoluzione francese, che egli distingue anche
così dalla seconda, la fase giacobina,
plebiscitaria e radical-democratica, che portò
al Terrore e alla ghigliottina. Facendo ciò,
riabilita ugualmente la “Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789,
sorta dallo spirito del parlamentarismo
rappresentativo e dal pensiero costituzionale
americano(4).
Stupisce quindi che il prof. Rhonheimer affermi
poi che Pio IX non avrebbe condannato il
“diritto naturale” che fonda la “libertà
religiosa”, ma unicamente il suo esercizio come
“diritto civile” riconosciuto dallo Stato. Il
suo ragionamento è il seguente. La “prospettiva”
del Vaticano II nei confronti della libertà
religiosa “non è semplicemente e unicamente
quella del diritto naturale, ma è sempre anche
quella della libertà religiosa “come diritto
civile”, cioè, in fin dei conti, come diritto
alla libertà di culto. Di fatto, tale era anche
la prospettiva di Pio IX, poiché la libertà di
religione che egli condannava non era altro che
il diritto civile alla libertà di culto
rivendicata, tra gli altri, dall’ala
cattolico-liberale"(5).
Inizialmente (vedi supra, § 2, 6), l’Autore
afferma giustamente che Pio IX condannava la
libertà religiosa perché, implicando essa
l’indifferentismo, era inconciliabile con il
concetto stesso della Verità Rivelata. Ora
apprendiamo, invece, che la libertà religiosa
oggetto di quella condanna altro non era che “il
diritto civile alla libertà di culto”. Pertanto,
se il Sillabo ha condannato solo la “libertà di
culto”, in quanto “diritto civile” riconosciuto
dallo Stato, allora “il diritto naturale in
quanto tale non è dunque toccato affatto dalla
discontinuità che è qui in questione. La
contraddizione non scatta che al livello della
rivendicazione del diritto civile, e non è
quindi che di ordine politico”; essa concerne
l’applicazione “giuridico-politica” del diritto
naturale “nelle situazioni e di fronte a dei
problemi concreti"(6). Che significa ciò? Che le
condanne preconciliari cessano di avere
significato dogmatico per scadere a
contrapposizioni “nell’applicazione
giuridico-politica” del “diritto naturale” alla
libertà di coscienza, in quanto libertà di
culto? La dottrina preconciliare avrebbe allora
riconosciuto o in qualche modo accettato il
fondamento giusnaturalistico della libertà di
culto? Da dove risulta ciò?
Ho già ricordato che Leone XIII escludeva a
chiare lettere la possibilità di concepire come
“diritti naturali” i vari “diritti”
riconducibili alla libertà di coscienza.
L’esclusione si imponeva innanzitutto sul piano
logico, poiché essi apparivano in perfetta
antitesi con il concetto stesso della Verità
Rivelata, sulla quale, oltre alla religione, si
fonda anche la morale cristiana (vedi supra, §
2). Forse Pio IX professava una dottrina
diversa? Ma valga anche qui il vero: “E poiché
iniquamente [i nemici di Cristo e della Chiesa]
osano derivare dalla virtù naturale della umana
ragione tutte le verità religiose, così a
ciascun uomo attribuiscono un tale quasi
primario diritto, per il quale egli sia libero
di pensare e di parlare a suo senno di
religione, e rendere a Dio quell’onore e quel
culto, che secondo suo piacimento giudica
migliore"(7). Non potendo ovviamente riconoscere
un diritto naturale alla libertà religiosa, i
Papi non potevano del pari riconoscerne la
logica conseguenza, ossia il “diritto civile” ad
esercitarla come libertà di culto.
8.4 Quale concetto di verità ci propone il
Concilio? Al posto dell’invito al proselitismo e
alla conversione in senso tradizionale, il
Concilio propugna perciò il dialogo con il
mondo, rispettoso al massimo dell’altrui diritto
alla “libertà di religione”, da condursi quindi
mediante la semplice esposizione fraterna della
verità. In questo modo gli uomini giungerebbero
ad abbracciare “la vera religione”, rispondendo
positivamente all’obbligo che pur incombe su di
loro di ricercarla. Il dialogo, lasciando
parlare la verità, concilierebbe l’esigenza di
rispettare il diritto alla libertà religiosa con
l’obbligo morale di ricercare la vera religione.
Il successo di quest’opera dipenderebbe allora
soprattutto dalla forza di convinzione
intrinseca alla verità, in quanto tale. Infatti,
“la verità non si impone che per la forza della
verità stessa, la quale si diffonde nelle menti
soavemente e insieme con vigore” (DH 1). Niente
coazione psichica, dunque, ma dialogo fraterno,
su basi assolutamente paritarie, cercando
persino di imparare dall’altro (Gaudium et Spes,
43, 44).
Il principio qui espresso coglie indubbiamente
un aspetto del concetto della verità: ciò che è
vero possiede un’intrinseca capacità di imporsi.
La verità esercita il suo fascino. Ma da questo,
a riuscire ad imporsi effettivamente, ce ne
corre. Sia Nostro Signore che gli Apostoli hanno
convertito solo una piccola parte di coloro ai
quali si sono rivolti. La maggioranza o si è
convertita per lo spazio d’un giorno o è rimasta
indifferente (come all’Areopago) o si è accodata
alla minoranza che rifiutava violentemente la
verità predicata e, oltre ad offendere il
predicatore, tentava addirittura di ammazzarlo.
Non per nulla il Signore, oltre alla
testimonianza di come fosse stato male accolto
in patria, ci ha lasciato la parabola del
seminatore (Mt 13, 1-23; 53-58). Se è vero che
la verità possiede intrinsecamente la forza di
imporsi, tuttavia essa provoca frequentemente
ripulse, anche violente, proprio perché è la
verità: la verità, come si suol dire, “fa male”.
E soprattutto quella predicata dal Signore, che
richiede di lottare contro noi stessi, di
mortificare il nostro orgoglio, di “portare la
Croce” in questo mondo in cambio di una
ricompensa eterna sì, ma che avrà luogo solo
dopo la nostra morte, seguita dal Giudizio,
individuale ed universale. In realtà l’uomo
tende a respingere la verità e a lasciarsi
sedurre dalla menzogna perché è afflitto dalle
conseguenze del peccato originale e soggiace
spesso all’azione del Maligno, che mira sempre a
deviarne i buoni propositi, favorendo le
passioni ed i peggiori istinti. Perciò la Chiesa
ha sempre insegnato, sulla base del Nuovo
Testamento, che nessuno può accedere alle verità
di fede né perseverare nella fede e nelle opere,
senza l’aiuto della Grazia. L’opera della
conversione è difficile, procede sempre
lentamente e solo se la nostra buona volontà è
sorretta dallo Spirito Santo, che agisce in noi
soprattutto mediante i Sacramenti e quindi con
la mediazione della Chiesa.
Ora, è stato notato che “l’essere umano”
delineato nei testi del Concilio, assomiglia più
all’uomo “buono per natura”, degli Illuministi e
di Rousseau, all’individuo astratto (e senza
Dio) canonizzato (appunto) dagli Immortali
Princìpi dell’89, che all’uomo quale l’ha sempre
realisticamente concepito la Chiesa, ispirata
dai dogmi del peccato originale e della presenza
effettiva di Satana nella realtà di questo
mondo. Bisognerebbe infine chiedersi: se la
verità di fatto proposta nell’odierno dialogo
ecumenico con i non-cattolici è la verità di una
nuova dottrina costretta sempre più a
giustificare la propria discontinuità, perché
meravigliarsi, allora, se le nostre società
sembrano sempre meno animate dallo “spirito
cristiano” e sempre più impregnate di quello
dell’Avversario?
NOTE
1)
ER, ed. it., p. 5.
2) A proposito dei moribondi di Calcutta, era
solita dire: “Noi diamo loro ciò che desiderano,
secondo la loro fede” (H. GRESLAUD, Madre
Teresa, una beatificazione equivoca, in ‘La
Tradizione Cattolica’, XVI (2005) 2 (59), pp.
25-39; 36-37).
3) Summa Theol., I-II, q. 57, a. 2.
4) ER, ed. it., p. 6. Il primo di questi famosi
articoli proclama che: “Les hommes naissent et
demeurent libres et égaux en droits” (F.
BATTAGLIA (a cura di), Le carte dei diritti,
Sansoni, Firenze, 1934, p. 122). Poiché non si
menziona qui un Dio creatore, si deve ritenere
che siffatta uguaglianza sia intrinseca all’uomo
in quanto uomo, sia antropocentricamente
concepita. L’idea laica di un’uguaglianza di
tutti gli uomini per il solo fatto di esser tali
(non perché creati da Dio, Padre comune) è
nell’epoca moderna uno dei fondamenti della
“dignità dell’uomo” e dei diritti naturali (od
“umani”) che su di essa si vogliano costruire.
5) ER, ed. it., p. 9.
6) Ivi.
7) PIO IX, Alloc. Maxima quidem, del 9. 6. 1862,
in Appendice a PIO IX, Il Sillabo, nuova ed. it.
con testo a fronte e appendice doc. a cura di G.
Vannoni, Cantagalli, Siena, 1985², pp. 189-98;
p. 192. Corsivi miei.
[Fonte:
Riscossa Cristiana]