Il Vangelo
nella nostra storia. Chiesa in stato di missione
Card. Camillo Ruini, Reggio Emilia
23 novembre 2004
Sono un po’ intimidito da questo
Teatro Municipale, dove venni in passato come spettatore, e dove sono
onorato di prendere la parola. Ringrazio a titolo speciale il nostro
Vescovo, Mons. Adriano Caprioli, anche per le espressioni tanto
affettuose e cordiali che ha voluto rivolgermi. Con lui ringrazio tutti
gli amici che hanno organizzato questo incontro, in particolare e
anticipatamente Mons. Luciano Monari ed Elena Lampanti. Un grazie
speciale al Prof. Lorenzo Ornaghi, Rettore Magnifico dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore, che ha accettato di essere con noi questa
sera. Saluto il Signor Sindaco, il Prefetto e tutte le Autorità
presenti, in particolare chi ha messo a disposizione questo Teatro.
Saluto con una certa commozione tutti voi, che siete qui in una
circostanza che mi tocca dentro come i 50 anni del mio sacerdozio, in
questa Città in cui ho vissuto per 29 anni, dal 1957 all’86, e in
questa Diocesi nella quale sono nato alla fede e che ho cercato di
servire per quei 29 anni. A molti di voi mi lega un’amicizia
personale, più forte dei miei oltre 18 anni di assenza; verso tutti
provo un sentimento di vicinanza, di affetto e di sincera gratitudine.
E’ la terza volta, da quando sono partito, che parlo in pubblico a
Reggio. La prima fu esattamente 15 anni fa, il 3 novembre 1989, e il
tema era quello stesso di questa serata, in occasione dell’uscita del
mio libro dal titolo “Il Vangelo nella nostra storia”. La seconda è
molto più recente, il 21 aprile 1999, ed era legata al “progetto
culturale” della Chiesa italiana: il titolo era “Chiesa e cultura
verso il 2000: ragioni e prospettive di un impegno culturale”. Tenterò
di sviluppare il filo di quei due interventi, senza ripetermi.
Nell’89, quando il tema generale era il medesimo di oggi, ho parlato
della Chiesa in rapporto al Vangelo e poi in rapporto alla storia. Ora
l’argomento specifico assegnatomi è la “Chiesa in stato di
missione: verso un’immagine di Chiesa”: per trattarlo in maniera un
po’ più interessante, e anche più vera, non posso non collocarlo però
nella storia attuale, o più semplicemente nella realtà complessiva che
stiamo vivendo e in cui anche la Chiesa vive, dando e ricevendo dalla
società contemporanea, come insegna il Concilio nella Gaudium et
spes, nn. 40-44.
Quando parlai il 3 novembre 1989, il clima culturale era dominato dagli
eventi che, con un’accelerazione impressionante, portarono alla
dissoluzione della “cortina di ferro” e si sarebbero compiuti meno
di due anni dopo con la caduta del regime comunista nell’Unione
Sovietica. Sappiamo tutti che anche per impulso degli eventi dell’89
in Italia è accaduto qualcosa di apparentemente sorprendente, cioè la
crisi di un sistema politico che era rimasto sostanzialmente stabile per
più di 40 anni e dei partiti che erano stati al governo, in particolare
della Democrazia Cristiana, con la connessa fine dell’”unità
politica dei cattolici”, che d’altronde anche in precedenza non era
mai stata totale.
A pochissima distanza da questa serie di eventi, nel settembre 1994 al
Consiglio Permanente della CEI svoltosi a Montecassino, lanciavo
l’idea di un “progetto culturale orientato in senso cristiano”,
che è stato il tema del nostro incontro del 1999. E’ comprensibile
perciò il sospetto, allora diffusosi, che il progetto culturale si
ponesse come un surrogato, o anche come una riproposizione mascherata,
dell’unità politica dei cattolici. Le sue finalità erano però
nettamente diverse, più ampie e profonde: l’evangelizzazione della
cultura e l’inculturazione della fede nell’Italia di oggi. Certo,
l’impegno sul versante della cultura costituisce anche un contributo
assai significativo che la Chiesa e i cattolici possono dare alla vita
sociale e civile italiana, oltre che la premessa di ogni motivata e
qualificata presenza sociale e politica dei credenti. Rispetto al
periodo dell’unità politica, il progetto culturale segna però
piuttosto un passo indietro, o meglio un rapporto con il mondo politico
meno diretto, più libero e articolato.
Nello stesso tempo viene mantenuto ben fermo l’impegno, formulato dal
Papa nell’aprile 1985 al Convegno ecclesiale di Loreto, perché la
fede cristiana abbia o ricuperi, anche a livello pubblico, un
ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro.
Dieci anni dopo, al Convegno ecclesiale di Palermo del novembre 1995, il
Papa, mentre ribadiva questo impegno, precisava per così dire
ufficialmente il nuovo atteggiamento riguardo alla politica, seguito poi
dalla Chiesa in Italia e in particolare dalla CEI per tutti questi anni:
“La Chiesa non deve e non può coinvolgersi con alcuna scelta di
schieramento politico o di partito, come del resto non esprime
preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o
costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia…ma ciò
nulla ha a che fare con una ‘diaspora’ culturale dei cattolici, con
un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede,
o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si
oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della
dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita
umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la
promozione della giustizia e della pace”.
Questa linea ha consentito finora alla Chiesa di vivere la “lunga
transizione” del sistema politico e istituzionale italiano senza
contraccolpi negativi, e anzi vedendo semmai aumentare il rispetto e
l’ascolto per le sue posizioni.
Dal Convegno di Palermo in poi è anche cresciuta e si è diffusa più
capillarmente nella Chiesa in Italia la coscienza della necessità e
della priorità dell’evangelizzazione: vengo così più direttamente
al tema specifico assegnatomi.
Gli “Orientamenti pastorali” della CEI per il primo decennio di
questo secolo, “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, e
quest’anno la Nota pastorale della stessa CEI sul volto missionario
delle parrocchie sono frutto di un cammino e di una maturazione
ampiamente condivisi, non solo tra i Vescovi e tra gli esperti, ma anche
tra il clero, i religiosi e le religiose, le associazioni e i movimenti
laicali. Da questo cammino emergono alcune precise risultanze. In primo
luogo, certamente, una consapevolezza priva di illusioni della profondità
dei processi di scristianizzazione, con il rischio già da tempo in atto
che in particolare le nuove generazioni non riescano a stabilire con la
fede e con la Chiesa un rapporto duraturo e profondo. Ma un’altra nota
emergente, di segno positivo, è la determinazione ad affrontare questo
problema fin nelle sue radici, con la fiducia – nonostante le
difficoltà e confidando nella presenza e volontà salvifica di Dio –
di potervi dare risposta: una fiducia presente oggi più di ieri. Di qui
la scelta di porre la comunicazione della fede al centro di tutta la
pastorale, dando un profilo di evangelizzazione, ossia di annuncio e
proposta di Gesù Cristo, già alla catechesi dei bambini e degli
adolescenti e al tempo stesso impegnandosi a fondo, a differenza dal
passato, nell’evangelizzazione degli adulti, in particolare delle
famiglie e degli ambienti di lavoro (l’esperienza tentata a Roma a
questo riguardo con la “missione cittadina” degli anni 1996-99 ha
dato buoni risultati) e più ampiamente nell’evangelizzazione della
cultura: i due recenti documenti della CEI che ho citato si collocano
infatti entrambi ben dentro al “progetto culturale”.
Un fattore-chiave perché questa scelta raggiunga e coinvolga la
“base” della Chiesa è senza dubbio la qualificazione in senso
missionario della vita e della pastorale quotidiana delle parrocchie,
che in Italia conservano una grande capacità di rendere la Chiesa
capillarmente presente in mezzo alla gente. Ma è ugualmente necessario
valorizzare pienamente l’apporto di quelle realtà, come i movimenti
ecclesiali, che hanno maturato forti esperienze e capacità di
evangelizzazione, in rapporto a diversi ambienti e condizioni di vita.
Più in generale, appaiono indispensabili sia una rinnovata “passione
apostolica” dei sacerdoti diocesani e delle comunità religiose, sia
un assai più ampio, convinto e corresponsabile coinvolgimento
nell’evangelizzazione di tanti laici cattolici, a cominciare da quelli
che frequentano normalmente le nostre parrocchie.
La crescita di una comune e condivisa coscienza missionaria può avviare
– anzi , sembra avere già avviato – tra le varie realtà ecclesiali
un processo di avvicinamento reciproco, di maggiore disponibilità alla
collaborazione e di riscoperta di una comune appartenenza alla Chiesa, e
in ultima analisi a Cristo. Ho cercato di riassumere nel concetto di
“pastorale integrata” le molteplici forme che una tale
collaborazione può assumere, ad esempio tra le parrocchie, tra
sacerdoti e laici, tra Diocesi e parrocchie e movimenti ecclesiali, tra
associazioni e movimenti a livello nazionale. E’ importante che questa
integrazione mantenga in evidenza il suo orientamento missionario e
quell’attenzione alla cultura vissuta delle popolazioni delle diverse
regioni d’Italia che è l’anima del “progetto culturale”, senza
la quale l’evangelizzazione rischia di rimanere astratta e
velleitaria. Il Convegno ecclesiale di Verona, in programma per
l’ottobre 2006, intende muoversi su queste direttrici, valutarle
criticamente e svilupparle ulteriormente, insistendo soprattutto
sull’impegno missionario dei laici credenti.
Sussiste e permane comunque un grande “problema di comunicazione”.
La Chiesa italiana, in particolare la CEI, ha fatto in questi anni un
grande sforzo per aumentare e qualificare la presenza cattolica nel
media e ha conseguito risultati notevoli, trovando anche preziose
collaborazioni. Nonostante tutto, però, il fatto stesso che sia in atto
su vasta scala un tentativo di rievangelizzazione dell’Italia è poco
o nulla percepito sia tra la gente sia anche tra gli uomini di cultura
che più si interessano alla Chiesa e al cattolicesimo.
Bisogna aggiungere che continuano ad essere in corso quei fenomeni di
“soggettivizzazione” della fede e di appartenenza debole e parziale,
o comunque “fragile”, alla Chiesa che sono conseguenza
dell’attuale clima culturale, fortemente soggettivistico: perciò
molti ritengono di potersi ritagliare un “credo” a propria misura.
Questi processi, ben noti e ampiamente analizzati, vengono in qualche
modo a soprapporsi a un dato più antico e spesso sottaciuto, ma
anch’esso di grande importanza: la distanza, persistente e
verosimilmente accentuatasi dopo il Concilio, tra la pastorale della
Chiesa e la religiosità diffusa e radicata tra la gente, profondamente
legata a tradizioni e a devozioni (a Maria, al Crocifisso, ai Santi …)
consolidatesi attraverso i secoli. Il paradosso di questa religiosità
– detta spesso “popolare”, ma presente in tutti gli strati sociali
e le aree geografiche d’Italia, non solo al Sud! – è che essa da
una parte è profondamente “cattolica”, tenacemente legata ad alcuni
contenuti sostanziali del cattolicesimo, ed è stata decisiva
nell’aver mantenuto questi contenuti vivi tra la gente, e d’altra
parte è piuttosto “individualista”, non molto attenta e permeabile
alla dimensione ecclesiale e ai tentativi di rinnovamento pastorale, i
quali devono comunque prestarle grande attenzione e rispetto.
Ad ogni modo, non sembra cogliere tutta la verità l’affermazione che
la secolarizzazione è finita e che è di nuovo il tempo delle
religioni. Di più, dato il rapporto di reciproco influsso tra Chiesa e
società, la secolarizzazione tende a penetrare anche dentro la Chiesa,
come è facile percepire: un sintomo di ciò è la scarsità delle
vocazioni, più forte nelle nazioni più secolarizzate e anche nelle
diocesi e comunità religiose che più hanno ceduto, o anche puntato,
all’accostamento verso la società secolarizzata.
Il panorama è stato però già modificato, e sembra destinato ad
esserlo sempre di più, per almeno un paio di fattori, che operano a
livello mondiale. Il primo è il cambiamento seguito all’attentato
terroristico dell’11 settembre 2001, non solo nella politica
internazionale ma anche nei sentimenti collettivi, negli Stati Uniti
d’America ma anche in Europa e in Italia. La presenza tra noi degli
immigrati, certo da non confondere in alcun modo col terrorismo, fa
comunque sentire “vicina” la questione di una diversità anche
religiosa e culturale, prima remota.
Si sono verificati così un risveglio e una rinnovata presa di coscienza
della nostra identità religiosa e culturale cristiana, a livello di
popolo e anche in una parte ampia e significativa della “cultura
laica”. All’interno della Chiesa e della “cultura cattolica” si
registrano sensibilità e valutazioni differenziate: non sempre vengono
percepite le grandi opportunità, e al contempo le difficili sfide, sia
culturali sia propriamente pastorali, ma che riguardano in ultima
analisi la fede vissuta, poste dal riaffiorare dell’identità
cristiana di fronte ad una minaccia che pretende di richiamarsi ad
un’altra religione, per quanto in maniera impropria e illegittima. In
vari ambienti cattolici è stata forte la denuncia dei rischi,
certamente reali, che questa riscoperta dell’identità venga
strumentalizzata e porti a uno snaturamento della fede cristiana, a una
sua riduzione a ideologia.
Se però teniamo presente che la fede cristiana stessa, fin dalle sue
origini, si rivolge certo anzitutto al cuore e alla coscienza
dell’uomo, ma ha anche una ineliminabile dimensione pubblica,
l’atteggiamento più congeniale all’indole e alla missione del
cristianesimo, oltre che meglio conforme alle necessità attuali
dell’Italia, come dell’Europa e dell’intero Occidente, sembra
piuttosto quello di rispondere positivamente alle richieste, implicite
nel risveglio identitario, che la fede cristiana possa alimentare, in
un’ottica non confessionale ma pienamente rispettosa della libertà
religiosa e della distinzione tra Chiesa e Stato, una visione della vita
e alcuni fondamentali valori etici che forniscano la base dell’identità
collettiva delle nostre nazioni: si ha così, tendenzialmente, il
superamento della fase storica del laicismo e del secolarismo, mentre
anche all’interno della cultura cattolica l’idea della “laicità”
appare da sola del tutto insufficiente ad affrontare la nuova fase
storica.
In una simile materia, tanto importante quanto facilmente soggetta a
confusioni ed equivoci, appaiono però indispensabili due chiarimenti.
In primo luogo bisogna essere consapevoli che il contributo della nostra
fede alla vita e all’autocoscienza dei popoli non può non andare in
senso autenticamente cristiano, orientandoli quindi non a una
rivendicazione chiusa e conflittuale della propria identità, ma
piuttosto a conservare e valorizzare questa identità promuovendo per
quanto possibile la comprensione reciproca e la pace, la riconciliazione
e la collaborazione anche con popoli di matrici religiose e culturali
diverse. In secondo luogo è ugualmente essenziale rendersi conto che la
fede cristiana può svolgere in maniera efficace e duratura un simile
ruolo pubblico solo se non si riduce a un’eredità culturale del
passato, ma è attualmente creduta e vissuta dalle persone concrete,
nella sua verità e autenticità.
Sotto questi profili vanno prese sul serio le preoccupazioni di
strumentalizzazione o snaturamento della fede. Nello stesso tempo, come
Chiesa, dobbiamo essere attenti a che il dialogo con le altre religioni,
e lo stesso ecumenismo con le altre Chiese e comunità cristiane, non
siano fraintesi dalla gente come una minore sollecitudine per la fede
cattolica, la sua verità e forza di salvezza. Perciò il Papa, mentre
promuove senza stancarsi il dialogo interreligioso come fattore di pace
tra i popoli, riafferma contro le tentazioni relativistiche la
fondamentale verità di fede che Gesù Cristo è l’unico Salvatore
dell’intero genere umano e che la Chiesa cattolica è
indefettibilmente unita con lui (vedi la Dichiarazione Dominus
Jesus, dell’agosto 2000).
Vorrei aggiungere che, se il problema del terrorismo islamico pone oggi
all’attenzione generale i rapporti con popolazioni come quelle
musulmane, che hanno una forte identità religiosa, e quindi sollecita
di rimbalzo il risveglio della nostra identità cristiana, in realtà
siamo già entrati in una fase storica in cui non solo l’Islam ma
altre grandi civiltà, e le nazioni estremamente popolose in cui esse si
incarnano, stanno rapidamente uscendo dalle condizioni di sottosviluppo
e hanno ormai la capacità, e la volontà, di essere sulla scena
mondiale protagoniste non più subalterne, a livello anzitutto economico
ma inevitabilmente anche politico e culturale. Poiché alcune di esse,
ad esempio la Cina, hanno una tradizione culturale in cui la religione,
nel senso di fede in un Dio personale, ha da gran tempo un ruolo assai
minore che nelle tre “religioni monoteistiche”, probabilmente tra
non molti anni dovremo confrontarci con nazioni e civiltà che non ci
stimoleranno in maniera diretta, come l’Islam, ad approfondire la
nostra identità religiosa, e forse spingeranno piuttosto nel senso di
una ulteriore secolarizzazione, intesa come denominatore comune di una
civiltà in qualche modo planetaria. Perciò è ancora più importante
cogliere l’opportunità attuale perché il nostro e gli altri popoli
di matrice cristiana riscoprano il significato e il valore della fede
che ha alimentato la loro comune cultura di riferimento.
Il secondo fattore che sta cambiando il quadro dei rapporti tra fede e
cultura, in tutto l’Occidente e anche oltre, è quella che è stata
chiamata una nuova “questione antropologica”. Essa è assai recente,
essendo emersa progressivamente negli ultimi decenni, ma ormai non è
meno rilevante e capace di incidere delle classiche “questione
sociale” e “questione politico-istituzionale”, apertasi con
l’avvento della democrazia e del moderno “stato di diritto”.
La “questione antropologica” si sviluppa su due grandi versanti, tra
loro intimamente connessi. Il primo è costituito dalla trasformazione e
ridefinizione dei modelli di vita, dei comportamenti diffusi e dei
valori di riferimento – cioè del giudizio riguardo a ciò che è bene
o è male – e sempre più anche dalle scelte politiche e legislative e
della stessa giurisprudenza, trasformazione ormai in corso in Europa e
più o meno in tutto l’Occidente con una forza e radicalità prima
sconosciute. Cambiano pertanto in maniera profonda gli assetti sociali e
i profili di una civiltà formatasi attraverso i secoli con il
contributo determinante del cristianesimo. Ciò avviene con particolare
evidenza negli ambiti del riconoscimento della sacralità della vita
umana, della famiglia, della procreazione e di tutto il complesso dei
rapporti affettivi, che rappresentano, insieme al lavoro, al guadagno e
al sostentamento, e naturalmente alla sicurezza del vivere, gli
interessi fondamentali e le preoccupazioni quotidiane della gente.
Il secondo versante della “questione antropologica” sono gli
sviluppi delle scienze e delle tecnologie che riguardano il soggetto
umano, in particolare il funzionamento del cervello e i processi della
generazione. L’uomo stesso si trova così messo radicalmente in
questione, nella sua consistenza biologica come nella coscienza che ha
di se stesso, non solo teoricamente, come nel passato, ma anzitutto a
livello pratico, del fare e dell’operare tecnologico. Parafrasando la
celebre tesi di Marx su Feuerbach, potremmo dire che non si tratta
soltanto di interpretare l’uomo, ma soprattutto di trasformarlo: non
soltanto però cambiando i rapporti economici e sociali, come voleva
Marx, ma in maniera ben più diretta, agendo fisicamente sul soggetto
umano. Di qui una forte tendenza a ricondurre integralmente la nostra
intelligenza e la nostra libertà al funzionamento dell’organo
cerebrale, dando luogo a una concezione dell’uomo puramente
naturalistica, nella quale non c’è spazio per una vera diversità
qualitativa del soggetto umano, per la sua trascendenza rispetto al
resto della natura di cui pure è parte, e tanto meno per una vita al di
là della morte. La fede cristiana viene messa così “fuori corso”,
ma diventa assai difficile anche dare una fondazione razionale a quello
che è il quadro di riferimento decisivo della nostra civiltà, ossia al
ruolo centrale e alla dignità specifica del soggetto umano, da
considerare sempre come un fine e mai come un mezzo, secondo la nota
formula dell’imperativo categorico di Kant, che riassume tutta la
“svolta antropologica”, vale a dire quella tendenza a mettere il
soggetto umano al centro che ha caratterizzato il nostro sviluppo
storico, almeno a partire dall’umanesimo e dal rinascimento, e che ha
una matrice chiaramente cristiana.
Non posso fermarmi a discutere le ragioni pro e contro questa riduzione
della nostra intelligenza e libertà al funzionamento dell’organo
cerebrale: mi limito ad osservare che essa implica un passaggio,
scorretto già a livello metodologico, dalle scienze empiriche alla
visione e interpretazione globale dell’uomo, quindi a un approccio
tipicamente filosofico, dimenticando la regola base del metodo
scientifico e i limiti delle possibilità cognitive delle scienze
empiriche.
Da quel che ho detto fin qui la nuova “questione antropologica”, in
entrambi i suoi versanti, può comunque apparire soltanto un ostacolo al
rapporto tra fede e cultura, o più francamente una spinta ad eliminare
la fede dalla nostra civiltà. In realtà essa costituisce piuttosto una
grande provocazione, una domanda che chiede risposta: la chiede alla
Chiesa e ai cattolici, ma anche agli altri cristiani e a tutti gli
uomini, credenti delle diverse religioni o non credenti, che hanno a
cuore il valore unico della persona umana e il carattere umanistico
della società. La risposta deve necessariamente articolarsi su
molteplici livelli, così come tende ad essere globale la “questione
antropologica”: dovrà riguardare pertanto i nostri comportamenti
concreti e quotidiani come la ricerca scientifica, la fede vissuta e la
pastorale della Chiesa come il pensiero filosofico e teologico, la
comunicazione sociale e le creazioni dell’arte, le scelte politiche,
legislative ed economiche; in una parola, tutto ciò che forma la
cultura di un popolo o di un insieme di popoli.
Questa risposta, e il confronto che essa implica, ai vari livelli, con
coloro che su queste grandi tematiche si muovono, più o meno
consapevolmente, in senso opposto, coinvolgono già adesso e appaiono
destinati a coinvolgere sempre più nei prossimi decenni non soltanto
l’uno o l’altro paese ma l’intero Occidente e anche, sia pure con
ritmi e forme diverse, le nazioni di altre civiltà. A sostegno mi
permetto di citare due libri assai diversi e di autori di formazione
diversissima, “L’uomo oltre l’uomo” dell’americano Francis
Fukuyama (Mondadori) e “Tempi di passaggio” del tedesco Jürgen
Habermas (Feltrinelli). Naturalmente, le modalità concrete e i
protagonisti di questo confronto sono e saranno diversi nei differenti
paesi, a seconda della storia, della cultura, della fisionomia religiosa
di ciascuno di essi, ma il confronto stesso segnerà comunque il tempo
che sta davanti a noi e molto probabilmente inciderà sul nostro futuro,
compreso in particolare il futuro del cristianesimo tra noi, in maniera
più profonda e duratura dello stesso risveglio identitario provocato
dalle minacce del terrorismo islamico.
Condizione perché la risposta alla nuova “questione antropologica”
possa essere efficace è comunque che non ci si rinchiuda nella difesa e
riproposizione del passato, ma si mettano a frutto i grandi tesori di
quell’antropologia che ha le sue radici nella fede cristiana e nella
cultura classica e moderna per andare avanti sapendo interpretare e
sviluppare dal di dentro quelle realtà e quelle aspirazioni che sono le
grandi forze motrici della nostra epoca, come la conoscenza scientifica
e l’anelito di libertà che attraversa il mondo. Per parte nostra,
dobbiamo essere consapevoli e convinti che tutto ciò è profondamente
conforme all’indole della fede cristiana, che è amica dell’uomo,
della sua libertà e della sua intelligenza.
La questione a cui rimandano sia l’analisi che ho tentato di proporre
del cammino attuale della Chiesa in Italia e delle difficoltà e
opportunità con cui essa è chiamata a confrontarsi, sia gli scenari
che ho evocato del risveglio identitario del cristianesimo e della
“questione antropologica”, è per noi finalmente quella della nostra
attitudine, come Chiesa e come cattolici italiani, ad adempiere, nel
concreto della situazione di oggi, la missione di salvezza che il
Signore Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa una volta per sempre.
Non si tratta, chiaramente, di una questione accademica, ma anzitutto di
una richiesta precisa che ci è rivolta e di una responsabilità che ci
è affidata e che non ammette evasioni o disimpegni.
Mi limiterò a sottolineare il punto decisivo, ossia il principio
generatore delle capacità evangelizzatrici della Chiesa e della stessa
efficacia storica del cristianesimo. Per farlo mi richiamo alla lettera
apostolica Novo
millennio ineunte, pubblicata dal Papa a conclusione dell’Anno
Santo: in essa siamo invitati a soffermarci nella contemplazione del
volto di Cristo, nel quale ci è rivelato il mistero dell’amore di
Dio, e a puntare con coraggio verso la santità, che il Papa definisce
“misura alta della vita cristiana ordinaria”. Non si tratta di una
fuga nel soprannaturale o nell’intimismo: al contrario, sono proprio
gli esempi e le testimonianze concrete di vite segnate dall’amore di
Dio e del prossimo e dalla sequela appassionata del Signore Gesù quelli
che fanno ritrovare nella Chiesa il mistero della presenza salvifica di
Dio e così danno rinnovata vitalità al senso religioso ben presente
nel popolo italiano e lo aiutano a saldarsi maggiormente a Cristo e alla
Chiesa. Questa è anche, ad esempio, la strada maestra perché crescano
di nuovo le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, maschile e
femminile. Questa è inoltre la via perché la nostra gente possa avere
davvero speranza, in quel senso forte e pieno che ha richiamato il
nostro Vescovo: proprio nella misura, infatti, in cui ha senso per noi
la promessa della vita eterna, riprende quota anche la fiducia di poter
fare qualcosa di realmente significativo in questo mondo, con la
certezza che impegnandoci per l’efficacia storica del cristianesimo
contribuiamo al bene e al futuro dell’intera famiglia umana.
Concludo con una parola che riguarda non solo i credenti ma in qualche
modo tutta l’Italia: nonostante le molte difficoltà e i problemi in
cui ci imbattiamo ogni giorno, l’Italia è e rimane una delle nazioni
europee in cui la Chiesa cattolica è più viva e presente, più
radicata nel popolo, nella cultura e nelle strutture sociali. Meglio
attrezzata, pertanto, per affrontare i cambiamenti davvero epocali
attualmente in corso, portando avanti il grande compito di evangelizzare
la cultura e di inculturare la fede nel nostro tempo. Se saremo
consapevoli di ciò e ci assumeremo le connesse responsabilità con
coraggio e con umile fiducia in Dio – che non è mai assente dalle
vicende della storia come dalla vita di ciascuno dei suoi figli –
potremo fare un notevole servizio anche ad altri popoli, in particolare
all’Europa che si va faticosamente costruendo. Infatti, come ha
scritto il Papa ai Vescovi italiani il 6 gennaio 2004, “all’Italia,
in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito
di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale
innestato a Roma dagli Apostoli Pietro e Paolo”. Almeno sotto questo
profilo, l’Italia non è certo l’ultima delle nazioni europee e
posso testimoniare per esperienza personale e diretta che i cattolici
delle altre nazioni guardano a noi e molto si aspettano da noi.
___________
[Fonte: espressonline.it del 29 novembre 2004]
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