Intervista
esclusiva con il cristiano protestante indiano, accusato di
evangelizzazione e liberato dopo una campagna internazionale sostenuta
da AsiaNews. Brian O’Connor chiede: “Nelle prigioni saudite vi sono
molti altri Brian che hanno bisogno del vostro aiuto”.
Hubli - Per 7 mesi e 7 giorni
è stato prigioniero, incatenato e torturato nelle prigioni
dell’Arabia Saudita, accusato di “evangelizzazione cristiana”.
Brian Savio O’Connor, 36 anni, protestante del Karnataka, è ormai
libero dai primi di novembre, grazie anche a una campagna internazionale
che AsiaNews ha lanciato a suo favore insieme a vari siti
cattolici e non sparsi nel mondo.
Da Hubli, una piccola città del sud del
Karnataka, dove vive col fratello e la famiglia, O’Connor ha accettato
di parlare con AsiaNews della sua esperienza.
Brian O’Connor è un Anglo-indian. Il
15 aprile ’98 è arrivato in Arabia Saudita, accettando di lavorare
come addetto ai bagagli per la compagnia aerea saudita (Saudi Arabian
Airlines). Nel suo tempo libero O’Connor organizza incontri biblici in
privato, con persone pakistane e arabe. Ha con sé un centinaio di DVD a
tema biblico: citazioni, documentari, film su personaggi della Bibbia,
oltre a circa 60 videocassette con le prediche del pastore Benny Hinn
della Trinità Broadcasting Corporation. Nel suo computer ha anche
installato una versione digitale della Bibbia.
Il regno saudita, dove vi sono le città
sante di Mecca e Medina, dominato da un’ideologia fondamentalista,
proibisce ogni espressione religiosa diversa dall’Islam. La polizia
religiosa – la famigerata Muttawah – vigila per eliminare ogni
bibbia, rosario, croce, o assemblea cristiana. E anche se i reali
sauditi permettono pratiche religiose diverse dall’Islam almeno in
privato, la polizia religiosa non fa distinzione.
Sig. O’Connor, come è avvenuto
il suo arresto?
La sera del 25 marzo, verso le 5.45,
ricevo una telefonata da uno sconosciuto di nome Joseph. Diceva che era
amico a un certo Orlando e voleva incontrarmi per parlare di
cristianesimo. Non conoscevo nessun Orlando e perciò mi sono
insospettito. Ad ogni modo li ho invitati a venire nella mia stanza,
nella casa che la mia ditta, musulmana, mette a disposizione per i suoi
impiegati. L’uomo di nome Joseph insiste che dovremmo incontrarci
fuori, in un bar di fronte. Gli chiedo chi fosse e lui mi dice che è
egiziano. In realtà la sua parlata aveva un forte accento saudita.
Appena uscito di casa, scopro che vi sono 3 macchine in attesa,
piene di poliziotti religiosi. Avevano perfino i binocoli a raggi
infrarossi. Questi significa che ero controllato da tempo. I poliziotti
mi agguantano, mi mettono in una delle auto e mi portano dentro a una
moschea. La polizia islamica mi ha incatenato i piedi. Uno dei
poliziotti, un gigante di almeno 2 metri (io sono alto solo 1,70 m), mi
prende dalla catena dei piedi e mi mette a testa in giù facendomi
oscillare. Per molto tempo dopo, di notte mi svegliavo al ricordo dello
stridore di quelle catene. Per più di un’ora hanno continuato a
colpirmi facendomi oscillare a testa in giù: mi davano pugni, calci,
frustate. Non potevo nemmeno proteggermi dai colpi sulla faccia perché
avevo le mani legate dietro la schiena.
Verso mezzanotte, mentre ero debolissimo
per le torture, un poliziotto mi mostra delle carte. Fra una tortura e
l’altra mi ordinano di firmare la mia confessione e cioè che
possedevo dei CD e dei DVD biblici e che evangelizzavo in Arabia
saudita. A questa accusa ho risposto loro che gli incontri
religiosi in privato non sono illegali. Ma loro continuano ad insistere
che la pratica di ogni fede diversa dall’Islam è proibita.
Dopo un po’ mi chiedono di firmare
anche un altro foglio con cui confessavo di aver venduto alcol. Ma anche
se ero debole ed esausto, mi sono rifiutato di firmare questa falsa
confessione. E ho detto a un poliziotto: “Sono un credente in Gesù,
un predicatore… come è possibile che io venda dell’alcol?” [ndr:
i protestanti evangelici non fanno uso di alcol e lo proibiscono].
Ci descriva la sua vita in
prigione…
Mi sentivo molto debole e spaventato: non
sapevo quali altre false accuse potevano montare contro di me: tutte le
mie cose erano state confiscate; la mia abitazione perquisita da cima a
fondo… Mi dispiaceva anche tutto il dolore che provocavo alla mia
famiglia in India. In prigione ho vissuto in una cella con altre 17
condannati per omicidio, commercio di droga, e altri crimini pesanti. La
sezione dove ero confinato ha 14 celle; le poche guardie vigilavano sui
nostri movimenti e le nostre conversazioni. E come se non bastasse, vi
erano anche delle telecamere dovunque. Non ho avuto problemi per il
cibo: arabi e indiani mangiano più o meno le stesse cose. Alcuni miei
amici, corrompendo una delle guardie, sono riusciti anche a procurarmi
un telefonino. Grazie a questo strumento – illegale in prigione –
potevo stare in contatto con la gente fuori.
Le permettevano di pregare?
All’inizio, ogni volta che cercavo di
pregare, i miei compagni di prigione mi interrompevano e mi criticavano.
Dopo un mese sono divenuto amico di alcuni di loro e loro stessi hanno
chiesto ai carcerieri di darmi il permesso di pregare. Potevo farlo solo
fuori dell’orario della preghiera islamica. Quando tutta la prigione
si fermava per la preghiera musulmana 5 volte al giorno ero obbligato a
stare in silenzio e immobile.
Come definirebbe la sua vita in
prigione?
Come una benedizione
“paradossale” (lett.: blessing in disguise, benedizione
travestita): mi sento un privilegiato per aver sofferto a causa di Gesù.
Oltretutto, la mia presenza in prigione ha portato almeno 21 persone a
conoscere il Cristo. Grazie a questa avventura la mia fede e la mia
resistenza si sono accresciute. Il Signore mi ha confermato nella
missione e nella predicazione.
Non le dispiace essere andato in
Arabia Saudita?
No, considero una “benedizione
paradossale” anche l’esservi andato. Nel dicembre 2003 mi hanno
offerto un lavoro in Gran Bretagna, che io ho rifiutato. Forse è stato
un suggerimento dello Spirito Santo: se avessi accettato non avrei avuto
questa possibilità di testimoniare il vangelo nelle prigioni
dell’Arabia Saudita.
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Il 15 settembre 2004 O’Connor è
portato in tribunale, accusato di vendita di alcolici, uso di droga,
possesso di materiale pornografico e diffusione del cristianesimo.
Secondo la legge saudita, per tutte queste accuse, O’Connor rischia
almeno l’ergastolo. Il giudice separa le accuse di evangelizzazione
dalle altre: per la prima sarà giudicato da una Corte Superiore; per le
altre si giudica al momento e si chiamano come testimoni i poliziotti
islamici.
Intanto nel mondo si è diffusa una
campagna per la sua liberazione. Il Principe Naif, il secondo in ordine
d’importanza nella casa reale saudita, manda un ordine scritto
alla corte per chiudere il caso e far cadere tutte le accuse contro O’Connor.
Ma il 20 ottobre, nonostante l’ordine della casa reale, la corte si
incontra per giudicare O’Connor solo per le accuse di vendita di
alcol.
Come hanno fatto ad accusarla di
vendita di alcol?
Il 20 ottobre il Pubblico Ministero
afferma che un uomo inviato dalla Muttawah dice di aver comprato
dell’alcol da O’Connor e lo ha pagato con una banconota segnata. La
polizia islamica dice di aver trovato addosso a me questa banconota
segnata. Secondo l’accusa io ho venduto 10 bottiglie da un litro di
alcolici. Ho chiesto di presentare il mio caso alla Corte d’Appello. E
ho anche chiesto di verificare se sulle bottiglie e sulle banconote vi
erano le mie impronte digitali. Loro mi hanno risposto che in Arabia
saudita non hanno questi sistemi di controllo. E mi hanno chiuso ancora
in cella.
Lei è stato condannato a 10 mesi
di prigione e a 300 frustate. Cosa è successo poi?
Avevo già passato 7 mesi in prigione; me
ne restavano ancora 3. Quanto alle frustate, grazie a Dio non lo hanno
fatto. Ma è curioso che, nonostante l’ordine del principe Naif,
restavo ancora in prigione: sembra proprio che non vi sia coordinamento
fra la polizia islamica e il governo. Ad ogni modo, una notte vengono a
prendermi e mi conducono in auto all’aeroporto, caricandomi su un volo
per Mumbai, dove sono stato accolto dai miei fratelli di fede. Un fatto
interessante che mi hanno detto: dopo che mi hanno espulso, la corte mi
ha ancora cercato per presentarmi di nuovo in tribunale il 6 novembre
scorso! E così sono ancora atteso in Arabia per la conclusione del
processo… È davvero ridicola tutta questa… efficienza!
Come forse sa, AsiaNews e altri
gruppi in Italia e nel mondo hanno lanciato una campagna internazionale
per la sua liberazione….
Sono veramente grato ad AsiaNews per
questo. E ringrazio anche Christian Solidariety Worldwide
e la All India Christian Council per il loro sostegno. Voglio
ringraziare in particolare tutti i lettori di AsiaNews per le
cartoline e le lettere a valanga che sono arrivate da tutto il mondo. Ma
voglio anche lasciarvi un compito: nelle prigioni saudite vi sono ancora
molti altri Brian che hanno bisogno del vostro aiuto.