Diversi
sociologi pensano che, se cadessero i pesanti limiti tuttora posti
alla libertà religiosa, la Cina potrebbe arrivare a un 25-30 per
cento di cristiani, che farebbe del cristianesimo la prima religione
del Paese e della Cina uno dei primi paesi del mondo per il numero di
cristiani praticanti.
A Ulan Bator, in
Mongolia, incontro nella cattedrale cattolica da poco inaugurata
un gruppo di fedeli dall'inequivocabile aspetto cinese. I cinesi
sono ancora più numerosi nelle diverse chiese protestanti
mongole, e sono ormai una componente familiare del panorama
religioso asiatico, dalla Malaysia al Kazakhistan. Pochi sanno
che un numero crescente di questi cinesi non sono all'estero
solo per ragioni di lavoro. Si sono trasferiti con lo scopo
esplicito di diffondere il cristianesimo.
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Secondo le statistiche
ufficiali del governo, in Cina ci sono circa venti milioni di cristiani.
Gli studiosi pensano che sfiorino invece i cento milioni, in maggioranza parte della Chiesa cattolica clandestina fedele a Roma - il
regime riconosce solo una «Chiesa patriottica» scismatica i cui
vescovi sono nominati dal governo - e di una fitta rete di Chiese
protestanti «sotterranee» che a loro volta rifiutano di fare parte
della organizzazione protestante «ufficiale».
Diversi sociologi
pensano che, se cadessero i pesanti limiti tuttora posti alla libertà
religiosa, la Cina potrebbe arrivare a un 25-30 per cento di cristiani.
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Ciò farebbe del cristianesimo la prima religione del Paese e della Cina
uno dei primi Paesi del mondo per numero di cristiani praticanti.
Si
aggiunge il fenomeno, oggetto di crescente interesse, dei «cristiani
culturali», come li chiamano a Pechino: intellettuali laici - di un
tipo presente anche in Italia - che non si convertono al cristianesimo
ma ne hanno grande stima e lo considerano il motore di quanto di buono
l'Occidente ha prodotto.
La Cina, da almeno
dieci anni, non si limita a ospitare decine di milioni di cristiani.
Ma esporta - insieme a magliette, computer e scarpe - anche
cristianesimo. Movimenti indigeni cinesi come la «Chiesa locale»,
contano decine di migliaia di seguaci in Occidente, e sono presenti
anche in Italia. Si è pure diffuso in Cina un movimento ecumenico
cristiano che si chiama «Ritorno a Gerusalemme» e che organizza
periodiche conferenze sul ruolo missionario della Cina cristiana. Vi
si afferma che sia il mondo buddhista sia quello islamico sono
difficilmente convertiti da missionari cristiani europei e americani
che associano all'imperialismo occidentale, mentre missionari cinesi
possono ottenere risultati migliori.
Qualcuno potrebbe
restare scettico pensando ai pogrom anticinesi (che derivano però da
ragioni economiche, non religiose) scatenati da musulmani in Indonesia
e altrove. Tuttavia chi scrive ha visto nelle metropoli postmoderne e
multietniche come Singapore o Kuala Lumpur più di un musulmano
portato all'altare, prima in senso religioso e poi matrimoniale, da
fidanzate cinesi cristiane. E i missionari cinesi pensano soprattutto
di potere ripercorrere a ritroso la «via della seta», dalla Mongolia
a Gerusalemme attraverso l'Asia Centrale, che è passata per la lotta
del comunismo contro la religione, un'esperienza che i cristiani della
Cina conoscono bene.
Questo contribuisce a
spiegare il grande interesse di Benedetto XVI per la Cina, che
considera una priorità del pontificato, e il lavoro diplomatico
vaticano per riassorbire lo scisma della «Chiesa patriottica», molti
vescovi della quale sono già segretamente in comunione con Roma. Tra
l'altro, piuttosto rigido sul piano morale e conservatore in teologia,
il cristianesimo cinese ammira l'anti-relativismo di Papa Ratzinger e
farebbe da contrappeso a tendenze sincretistiche diffuse altrove in
Asia.