Molte e fondamentali le
differenze
tra cristianesimo e islamismo
Mons. Brandumüller,
Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, in una
conferenza dedicata a questo tema, «Cristianesimo e Islam ieri e
oggi», svoltasi all'Università Lateranense -
Roma, martedì 13 dicembre 2005
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Mi permettete – di affrontare il tema
cristianesimo e islam – limitandomi, storico che sono, a una breve
presentazione dei fatti storici, non entrando nello specifico del
dialogo religioso-teologico. Ciò mi sembra utile poiché il quinto
centenario della nascita di Pio V è stato celebrato un po’ in
sordina, soprattutto nell’ambito della cultura accademica. |
Il
vincitore di Lepanto, il papa che aveva avuto il coraggio e l’energia
di costruire un’alleanza di quasi tutti i regni cristiani contro l’impero
ottomano – che con la sua avanzata stava minacciando l’Europa e
che, nei Balcani, già aveva installato il suo dominio – oggi,
proprio a causa della ripresa infelice delle ostilità fra i due mondi
– cioè da una parte il mondo che è stato cristiano, e che ancora
in parte lo è, e dall’altra il mondo islamico – a molti sembra
una presenza ingombrante, che è meglio lasciare in ombra.
Una cosiddetta laicità che vorrebbe mettere sotto accusa tutte le
religioni monoteiste tacciandole di fondamentalismo, oppure che esalta
il dialogo cancellando le diversità, vuole dimenticare il millenario
conflitto che ha contrapposto le due comunità religiose, e
soprattutto il pontefice romano che ha voluto e saputo bloccare l’avanzata
islamica, salvando così la civiltà cristiana. Anche se si tratta di
due religioni monoteiste, che tra l’altro condividono, sia pure in
misura diversa, la tradizione ebraica – uno specialista come Samir
Khalil Samir sottolinea come prima di Maometto anche gli ebrei e i
cristiani arabi chiamassero il loro Dio con il nome di Allah
– tra cristianesimo e islamismo le differenze sono molte, e sono
fondamentali (d’ora in poi grassetto dell’autore, ndr).
Innanzi tutto, vi era differenza nel modo di concepire la
conversione e nell’uso della violenza. Per i cristiani la
conversione doveva essere volontaria e individuale, ottenuta
principalmente attraverso la predicazione e l’esempio, e in questo
modo infatti si realizzò nei primi secoli la diffusione del
cristianesimo. Ovviamente, va sin d’ora riconosciuto che questa
concezione del cristianesimo primitivo, ha subito in epoca posteriore,
un cambiamento, da collegarsi con il diffondersi, anche nella cultura
occidentale, di uno spirito d’intolleranza in materia di religione.
Lo stesso Giovanni Paolo II nella T.M.A. ha riconosciuto, che, sotto
questo profilo, i figli della Chiesa “non possono non tornare con
animo aperto al pentimento…all’acquiescenza manifestata tra Medio
Evo e prima età moderna, a metodi di intolleranza. ” ( T.M.A.,
n. 35).
Da parte musulmana, invece, sin dai primissimi tempi, e cioè durante
la vita di Maometto, la conversione è stata imposta con le armi. L’espansione
e l’estensione dell’area di influenza dell’islam sono infatti
avvenute attraverso le guerre con le tribù che non accettavano
pacificamente la conversione, e questa andava di pari passo con la
sottomissione all’autorità politica islamica. L’islamismo, a
differenza del cristianesimo, esprime un progetto globale, al tempo
stesso religioso, culturale, sociale e politico. Mentre infatti il
cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli, nonostante le
persecuzioni e il martirio, in contrapposizione per molti aspetti al
dominio romano – e comunque introducendo una netta separazione della
sfera spirituale da quella politica – l’islam si è imposto con la
forza di una dominazione politica.
Non stupisce quindi che l’uso della violenza occupi un posto
centrale nella tradizione islamica, come rivela il ricorso frequente
del termine jihad in moltissimi testi. Anche se alcuni
studiosi, soprattutto occidentali, sostengono che con jihad si
deve intendere non necessariamente la guerra, ma piuttosto la lotta
spirituale, lo sforzo interiore, ancora Samir Khalil Samir ha chiarito
che l’uso di questo termine nella tradizione islamica – compreso
quello che ne viene fatto oggi – è sostanzialmente univoco, e
indica la guerra in nome di Dio per difendere l’islam, che è un
obbligo per i musulmani maschi adulti.
Chi sostiene dunque che l’accezione di jihad come guerra
santa costituisce una sorta di deviazione dalla vera tradizione
islamica non dice la verità, e la storia mostra come purtroppo la
violenza abbia caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come
sia stato lo stesso Maometto a organizzare e a condurre
sistematicamente le razzie nei confronti delle tribù che non volevano
convertirsi e accettare il suo dominio, sottomettendo in questo modo,
una dopo l’altra, le tribù arabe. Naturalmente, bisogna anche dire
che all’epoca di Maometto le guerre facevano parte della cultura
beduina e che nessuno vi trovava nulla di riprovevole.
Anche la versione che oggi i musulmani – seguiti in questo da molti
storici occidentali – cercano di accreditare sulle crociate, non
risponde alla realtà storica: secondo questa rappresentazione i
cristiani occidentali si sarebbero presentati come invasori in un
paese pacifico e rispettoso delle religioni diverse – cioè la
Terrasanta, che allora faceva parte della Siria – utilizzando motivi
religiosi per mascherare pretese imperialiste e interessi economici. L’idea
delle crociate nacque invece soprattutto come reazione alle misure che
il califfo fatimide al-Hakim bi-Amr Allah prese contro i cristiani di
Egitto e di Siria: nel 1008 al-Hakim abolì la festività delle Palme,
l’anno successivo,ordinò di punire i cristiani e di requisire ogni
loro bene.
Nello stesso 1009 saccheggiò e fece demolire la chiesa che al Cairo
era dedicata a Maria e non impedì la profanazione dei sepolcri
cristiani che la circondavano e il sacco di altre chiese della città.
Nello stesso anno si ebbe quello che fu sicuramente l’episodio più
grave: la distruzione a Gerusalemme della basilica costantiniana della
Resurrezione, conosciuta come il Santo Sepolcro. Le cronache del tempo
dicono che egli aveva ordinato “di farvi sparire qualsiasi simbolo
di fede cristiana e di provvedere a portar via ogni reliquia ed
oggetto di venerazione”. La basilica quindi fu completamente
abbattuta, e Ibn Abi Zahir cercò in ogni modo di rimuovere il
sepolcro di Cristo e di farne sparire ogni traccia.
Oggi, in molti ambienti intellettuali, si parla spesso della
tolleranza religiosa esercitata durante molti secoli da parte del
potere politico islamico perché – mentre nei confronti delle
popolazioni pagane valeva il detto “abbraccia l’islam e avrai la
vita salva” - i pagani che non si convertivano venivano uccisi – i
“popoli del libro”, cioè ebrei e cristiani, potevano continuare a
praticare il loro culto. Nella realtà, la situazione era molto meno
idilliaca: cristiani ed ebrei potevano sopravvivere solo se
accettavano il dominio politico musulmano e una situazione di
umiliazione, aggravata dall’obbligo di pagare imposte sempre più
pesanti. Non c’è da stupirsi, quindi, se la maggioranza dei
cristiani, anche se non costretti con la forza, a causa delle continue
pressioni, economiche e sociali, si sia convertita all’islam,
provocando per esempio la totale scomparsa di una cristianità
fiorente per oltre mezzo millennio come quella dell’Africa romana,
la terra di Tertulliano, san Cipriano, Ticonio e soprattutto sant’Agostino.
Ma la differenza più forte tra cristianesimo e islamismo è a
proposito di un tema centrale come la concezione di essere umano.
Lo dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite
nel 1948, o l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che
contravvenivano alla legge coranica, cioè in pratica tutte. Dal punto
di vista storico bisogna dunque riconoscere che la Dichiarazione dei
diritti dell’uomo è un frutto culturale del mondo cristiano, anche
se si tratta di norme “universali”, in quanto valide per tutti.
Nella tradizione islamica, infatti, non esiste il concetto di
uguaglianza di tutti gli esseri umani, né di conseguenza quello di
dignità di ogni vita umana. La sharia è fondata su una
triplice disuguaglianza: tra uomo e donna, tra musulmano e non
musulmano, tra libero e schiavo. In sostanza l’essere umano di sesso
maschile viene considerato pienamente titolare di diritti e di doveri
solo in quanto appartenente alla comunità islamica: chi si converte a
un’altra religione o diventa ateo viene pertanto considerato un
traditore, passibile della pena di morte o, come minimo, della perdita
di tutti i diritti.
La più irrevocabile di queste disuguaglianze è quella tra uomo e
donna, perché le altre possono essere superate – lo schiavo con la
liberazione, il non musulmano con la conversione all’islam –
mentre l’inferiorità della donna è irrimediabile in quanto
stabilita da Dio stesso. Nella tradizione islamica, quindi, il marito
gode di una autorità pressoché assoluta sulla moglie: mentre all’uomo
è consentita la poligamia, la donna non può avere più di un marito,
non può sposare un uomo di altra fede, può essere ripudiata dal
marito, non ha alcun diritto sulla prole in caso di divorzio, è
penalizzata nella divisione ereditaria e dal punto di vista giuridico
la sua testimonianza vale la metà di quella di un uomo.
Se dunque l’islam implicava ed implica non solo un’adesione
religiosa, ma tutto un modo di vivere, sancito anche a livello
politico – modo di vivere che naturalmente comporta e prescrive come
agire con gli altri popoli, come comportarsi in questioni di guerra e
di pace, come avere relazione con gli stranieri – è molto facile
comprendere come la vittoria di Lepanto abbia garantito all’Occidente
la possibilità di sviluppare la sua cultura di rispetto per l’essere
umano, al quale viene garantita uguale dignità in ogni condizione.
Se questa caratterizzazione dell’islam è destinata in futuro a
rimanere immutata, come è accaduto finora, non può che risultare
difficile la convivenza con quanti non appartengono alla comunità
musulmana: in un paese islamico, infatti, il non musulmano si dovrà
sottomettere al sistema islamico, se non vuole vivere in una
situazione di sostanziale intolleranza. D’altra parte, proprio a
causa di questa concezione complessiva di religione e autorità
politica, il musulmano avrà molte difficoltà ad adattarsi alle leggi
civili nei paesi non islamici, ritenendole qualcosa di estraneo alla
sua formazione e ai dettami della sua religione.
Bisogna forse chiedersi, se le comprovate difficoltà di persone
provenienti dal mondo islamico ad integrarsi nella vita sociale e
culturale dell’Occidente, non trovi una delle spiegazioni in questa
problematica. Dobbiamo anche riconoscere il diritto naturale di ogni
società di difendere la propria identità culturale, religiosa e
politica. Mi sembra che Pio V abbia fatto proprio questo.
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