Sono poveri cristiani?
Ammazzateli pure...
Antonio Socci
Ieri
(1.12.2005 ndR) concerto contro la pena di morte e paginate sulle
condanne negli Usa. Ma tre cristiani condannati alla pena capitale per
la loro fede non interessano nessuno...
Oso pensare che alla fine papa Benedetto XVI non tacerà perché
ascolterà questo grido. Non il mio (che non ho titoli), ma quello di
tre poveri cristiani messi a morte a causa della loro fede. Tre
contadini cattolici, nel più popoloso stato islamico del mondo, l’Indonesia.
Oso crederlo perché con Ratzinger – allora cardinale – ho parlato
a lungo, anche un anno fa, il 16 ottobre, dei cristiani perseguitati e
ho visto un gran dolore sul suo volto e gli ho sentito pronunciare
parole decise sui tanti persecutori delle minoranze cristiane. Il
levarsi della sua voce sicuramente farebbe clamore, accenderebbe anche
i riflettori dei media su questo vergognoso caso, su questa annunciata
macellazione, inducendo forse le autorità a recedere dal proposito
sanguinario. Oltretutto l’Indonesia non è un paese arretrato, ma in
forte sviluppo.
Tante volte i mass media hanno fatto clamorose campagne a favore di
questo o quel condannato a morte negli Stati Uniti. Nulla da dire,
anche se il sistema giudiziario americano è serio, è tipico di un
paese democratico e normalmente condanna solo i colpevoli (salvo
errori giudiziari). E’ giusto combattere la pena di morte sempre,
anche negli Usa (ricordo la campagna fotografica di Toscani). Ma per
tre poveri contadini cristiani innocenti, condannati a morte
ingiustamente da un sistema giudiziario iniquo, in un regime di
discriminazione e di violenza islamica, non sembra che i media
vogliano sprecar fiato e inchiostro. Allora non resta che sperare nel
Pontefice. Anche se s’intuisce che possa essere indotto alla
prudenza perché i vescovi indonesiani sono impauriti dalle ritorsioni
(soprattutto dagli attentati che i fondamentalisti minacciano per il
prossimo Natale). Il regime islamico indonesiano è innanzitutto il
responsabile dell’invasione di Timor Est nel 1975. L’occupazione
di questa terra cristiana, durata 25 anni, ha provocato 300 mila
vittime su 800 mila abitanti, è terminata cinque anni fa, su
pressione degli Stati Uniti e dell’Onu, e con essa anche il
genocidio. Ma su quella strage di cristiani, su cui secondo la
deliberazione Onu si doveva indagare, è stato steso un velo di
silenzio. Nessun caporione indonesiano sarà denunciato o chiamato a
risponderne. Ora resta il problema delle minoranze cristiane dentro il
territorio dell’Indonesia. Per esempio la regione delle Sulawesi
centrali ha la presenza di una consistente comunità cattolica, contro
la quale fra 1999 e 2000 si è scatenata la violenza dei
fondamentalisti musulmani a cui i cristiani hanno risposto con una
decisa autodifesa (gli scontri hanno fatto circa duemila vittime). Il
fanatismo islamico sta dilagando sempre di più come dimostrano gli
episodi recenti, avvenuti proprio in questa regione: a Poso un mese fa
tre studentesse cristiane sono state sequestrate, sgozzate e
decapitate; il 18 novembre un’altra ragazza di 22 anni è stata
ammazzata a colpi di machete e il giorno dopo hanno sparato a due
cristiani che uscivano da una chiesa riducendoli in fin di vita.
La situazione è particolarmente grave perché l’insediamento di Al
Qaeda nel Paese, dopo gli attentati di Bali, sembra evidente e i
terroristi possono contare su una certa inadeguatezza delle forze di
polizia o forse addirittura su connivenze, come quelle di cui già
godono chiaramente (nell’esercito) i gruppi fondamentalisti che
hanno scatenato le violenze del 2000. Infatti per quegli eventi nessun
musulmano è stato processato. Sono stati invece arrestati e
condannati a morte tre cristiani, Fabianus Tibo (60 anni), Domingus da
Silva (42 anni) e Don Marinus Riwu (48 anni), che sono poveri
contadini analfabeti.
Il loro arresto da parte della polizia e il processo, secondo gli
osservatori, sono stati pesantemente inquinati dalle pressioni dei
fondamentalisti musulmani che hanno preteso ad ogni costo dalla giuria
(e l’hanno ottenuta) la condanna capitale. Il vescovo di Manado,
monsignor Suwatan, ha protestato dichiarando ad AsiaNews che i tre
cristiani sono innocenti, essi “non sono i responsabili, ma le
vittime degli scontri a Poso” (nei quali fu distrutta la parrocchia
di Santa Teresa, un convento di suore e diverse scuole cattoliche).
Nonostante la protesta della Chiesa le autorità hanno rifiutato la
revisione del processo e il 10 novembre il presidente ha respinto
anche la domanda di grazia.
Inutilmente il vescovo di quella piccola comunità cristiana chiede
ora da solo di fermare l’esecuzione dei tre poveri innocenti. Ci
sarebbe bisogno di una campagna di stampa e di pressioni
internazionali, ci sarebbe bisogno dell’intervento di organizzazioni
umanitarie (soprattutto quelle che si battono contro la pena di morte
come “Nessuno tocchi Caino”). Ma non se ne vedono, almeno per ora,
per difendere questi tre Abele (speriamo nei prossimi giorni). Perciò
sarebbe prezioso l’intervento pubblico dello stesso pontefice che
certamente starà già facendo il possibile, per canali riservati,
come si evince dalla presenza sul posto del Nunzio apostolico. A dire
il vero ci si dovrebbe aspettare anche una maggiore attenzione da
parte del mondo cattolico occidentale: giornali, movimenti,
parrocchie, episcopati. Si potrebbe e si dovrebbe realizzare una
campagna di stampa, una mobilitazione nelle sedi internazionali (la
Commissione diritti umani dell’Onu, quella dell’Ue), ma sembra non
ci siano risorse per salvare i cristiani in pericolo di vita (non solo
in Indonesia, ma anche in Cina, in Corea del Nord, in Vietnam). La
Chiesa americana si è letteralmente dissanguata per la gestione
sbagliatissima, da parte dell’espiscopato, del cosiddetto “caso
pedofilia”. Gestione che ha finito per far passare la Chiesa come
connivente quando semmai è vittima. Una gestione che ha pure
compromesso – con una strategia costosa - la posizione degli
innocenti accusati ingiustamente.
Ma si è mai pensato di pagare un pool di avvocati internazionali per
difendere i cristiani in pericolo come i tre contadini indonesiani?
Eppure i cristiani dovrebbero sentire il vincolo della comunione
cattolica come è stato per secoli, fin dalle origini. Ma non sembra
sia così. Dieci giorni fa il presidente americano Bush è andato in
Cina e lì pubblicamente ha chiesto ai despoti libertà per i
cristiani perseguitati. Si è preso gli sberleffi di gran parte della
stampa nostrana. E il nostro mondo cattolico ufficiale è parso
indifferente. Proprio mentre da noi si celebrava la giornata contro le
violenze sulle donne, sedici suore francescane cinesi a Xian sono
state massacrate di botte (una ha perso la vista, un’altra è grave)
perché “cercavano di impedire la demolizione di una scuola che
appartiene alla diocesi e che il governo della città ha venduto a un’azienda”
(AsiaNews). Ieri si è saputo di altri sei preti arrestati e
sprofondati nell’orrendo Laogai. Ma da noi ci sono anche riviste
cattoliche dove si asserisce che in Cina le cose per i cristiani vanno
bene e che perfino in una cupa dittatura come l’Iran – dove i
cristiani sono in una situazione disperante – la presenza dei
cattolici sarebbe “indisturbata”. Sarà ritenuta “indisturbata”
anche la vita dei tre cristiani indonesiani? O forse siamo noi che non
vogliamo essere “disturbati”, nel nostro sonno, dalle grida
disperate degli oppressi?
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