Il fratello cominciava l 'ufficio in piedi, volto
verso Gerusalemme, verso l'oriente, lo continuava seduto sui talloni e si
prosternava per le dossologie che terminavano i salmi. Questo rituale fu
utilizzato per qualche tempo e, quanto a me, lo osservai sempre nelle mie khalwe
e in occasione dei miei viaggi nel deserto. L'usanza fu in seguito
abbandonata dopo l'esperienza inopportuna dell'adhàn o appello alla
preghiera dall'alto del minareto di cui ora parleremo.
Il suono delle campane delle chiese e delle cappelle cristiane
appariva in terra islamica legato non solo al cristianesimo ma anche al mondo
occidentale. I musulmani non amano le campane. Perciò, coscienti di questa
sensibilità musulmana soprattutto in una popolazione nomade, per chiamare agli
uffici utilizzavamo il meno possibile la nostra campana. Nei primi tempi non
suonavamo l'Angelus fino al giorno in cui monsignor Nouet ci chiese di
farlo. Non potevo impedirmi di essere impressionato da quel rito dell'islam che
convoca i fedeli alle ore della preghiera tramite la salmodia dell' adhàn, appello
lanciato dall'alto dei minareti. Quell'appello contiene nello stesso tempo una
testimonianza o professione di fede e un invito alla preghiera.
Così, ci venne l'idea di sostituire il suono delle campane
che annunciava le ore dell'ufficio con la salmodia o il canto di un appello in
arabo. All'inizio, probabilmente da metà agosto 1934, noi lanciavamo l'appello
nel cortile della fraternità. Poi decidemmo di elevare un minareto in mattoni
di terra. La costruzione fu realizzata rapidamente e la sera del 3 ottobre 1934,
per la prima volta, io lanciai l'appello dall'alto del minareto, non senza una
profonda emozione. Se i miei ricordi sono esatti, la nostra adhàn avveniva
sei volte al giorno: il mattino, prima dell'ora di prima, a mezzogiorno con
menzione dell'Angelus, per la nona nel pomeriggio, la sera per la
compieta e a mezzanotte e mezzo. Avevamo conservato lo stile dell'adhàn musulmana,
con la ripetizione di una medesima frase all'inizio e alla conclusione
dell'appello.
Ho potuto ritrovare solo il testo di due di quegli appelli di cui dò la traduzione. A mezzanotte, per chiamare all'ufficio notturno: «Dio è il
creatore immenso, non c' è altro dio che lui; alzatevi per la preghiera, la
preghiera è migliore del sonno, lodate il maestro dell'universo. O Dio,
diffondi su di noi la tua grazia come l'hai diffusa su Abramo e la sua
discendenza. Non c'è altro Dio al di fuori di te, il creatore immenso». Ogni
frase era ripetuta due volte.
E alle 5,45, per chiamare all'ora di prima: «Dio è la provvidenza
onnipotente, non c'è altro dio che lui; venite alla preghiera, venite a
implorare l'aiuto di colui che dà a ciascuno il necessario. O Maria, la
benedizione sia su di te, o piena di grazia, il Signore è con te, tu sei
benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del seno tuo, Gesù. Non c'è
altro dio che lui, la provvidenza onnipotente».
[...] La proclamazione di una adhàn in arabo dall'alto
del nostro minareto suscitò però perplessità nella popolazione di El-Abiodh,
senza che noi ne fossimo subito informati. La gente si interrogava. I fratelli
erano in cammino verso l'islam? Ma allora perché utilizzavano una formula
diversa pur prendendo a prestito alcune frasi dell' adhàn musulmana?
Furono presentate delle lagnanze al capo del distaccamento di Géryville.
A quel punto le autorità si allarmarono e fecero un'indagine a seguito della
quale noi ricevemmo l'ordine di cessare tale pratica. Monsignor Nouet, che era
rimasto silenzioso dall'inizio della nostra esperienza, senza approvarla né
disapprovarla, mi scrisse il 17 maggio 1935 da Aïn-Sefra per chiederci
formalmente di abbandonare il richiamo alla preghiera, anche all'interno della
fraternità.
Quell'incidente ci portò a riflettere sulla natura e sui
limiti dell'adattamento della nostra vita religiosa all'ambiente della
popolazione di EI-Abiodh. In effetti, monsignor Nouet ci chiedeva di cessare la
chiamata alla preghiera non a causa del divieto da parte delle autorità civili
o per una ragione di inopportunità, ma perché quella forma di adattamento era
un errore.
[...] Io mi sentivo però in comunione profonda con Louis
Massignon. Domandandomi perché si dovesse considerare il fatto di chiamare alla
preghiera con la voce umana come specificamente musulmano, avevo scritto al
riguardo a Massignon, il quale mi rispose: «Mi sono posto anch'io la questione
dell'origine dell'adhàn musulmana. È molto probabile che si tratti di
un'usanza diffusa nelle laure dei cristiani nel deserto; mi domando se le
tradizioni musulmane relative alla sua istituzione non sembrino rinviarci a
cristiani abissini o yemeniti. L'idea di farne una cosa specificamente musulmana
è insostenibile: la voce umana non ha nulla di specificamente musulmano,
soprattutto quando si tratta della gloria di Dio».
In sé, è evidente che un popolo arabo cristiano poteva
perfettamente esprimere la sua fede e la sua vita religiosa con un appello
salmodiato o cantato per convocare alle preghiere liturgiche, Louis Massignon ed
io avevamo ragione in questa ipotesi.
Il nostro errore era però quello di
dimenticare che in realtà noi non eravamo un popolo arabo cristiano che si
esprimeva nella propria cultura, ma una semplice comunità religiosa composta da
alcune persone di cultura latina ed europea.
Il nostro secondo errore era stato
di attribuire alla popolazione musulmana di EI-Abiodh un atteggiamento e delle
reazioni che si rivelarono erronee. Per un musulmano l'insieme dei riti con i
quali esprime la sua fede o la sua preghiera è intangibile. Modificare o
adattare quei riti è cosa impensabile. Non sta alla religione adattarsi
all'uomo, ma all'uomo adattarsi alla religione. Spetta a Dio e alle leggi che ha
stabilito trasformare l'uomo. Da un capo all'altro del mondo islamico, i
credenti, quale che sia la loro mentalità, parlano allo stesso modo e compiono
i medesimi riti. Sapendo del nostro interesse per lo studio della religione
musulmana, quando sentirono il nostro richiamo alla preghiera la loro prima
reazione fu di pensare che ci facessimo musulmani, poiché l'idea di un
adattamento della religione cristiana ai loro riti non poteva venir loro in
mente. Insoddisfatti della nostra religione cristiana, noi eravamo sulla via
della conversione all'islam; ma, pensavano, noi ci permettevamo di modificarne i
riti, il che era per loro inaccettabile e intollerabile.
Nella situazione in cui
ci trovavamo a EI-Abiodh, utilizzare il richiamo alla preghiera non era in sé un
errore, ma un tentativo inopportuno. L' adhàn non è per natura una
pratica islamica, ma è considerata come tale dalla comunità musulmana.
Essendo l'adattamento alle culture non
cristiane e in particolare all'ambiente musulmano una caratteristica essenziale
della nostra fondazione, era necessario precisare la nostra dottrina al
riguardo. Un primo documento era stato redatto nel 1934-1935, per il progetto di
un direttorio. I pericoli dell'adattamento e gli errori da evitare vi erano già
chiaramente indicati. È difficile dire se quel testo sia stato o meno modificato
dopo l'infelice esperienza dell'adhàn.
Un anno dopo, nel corso del 1936, fu
redatto un altro testo interamente dedicato all'adattamento. Esprimeva
perfettamente ciò che pensavamo allora a questo proposito. Quel rapporto fu
probabilmente redatto per monsignor Richaud, vescovo ausiliare di Versailles, in
vista della Settimana sociale che doveva tenersi in quella città nel luglio del
1936 sul tema "Conflitti di civiltà". Più tardi, nel 1944, il nostro
giudizio sugli adattamenti all'Islam fu molto più severo. Quei diversi
documenti sull'adattamento mi sembravano importanti. Ma va sottolineato con
forza che, al di là delle variazioni sui segni e sulle espressioni esteriori,
non fu mai messo in discussione questo adattamento spirituale,
fondamento stesso del nostro dono a un popolo e del nostro ministero di
intercessione, di adorazione e di lode in suo nome»
René
Voillaume
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[Fonte: Vita Pastorale -
Novembre 2001]
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