Dialogo con l'Islam - I "Piccoli fratelli di Gesù" 



René Voillaume, nel libro pubblicato dalla San Paolo: "Charles de Foucauld e i suoi discepoli" racconta la storia della "Fraternità dei piccoli fratelli di Gesù" dalle origini al 1968, anno in cui la Chiesa l'approverà. Del volume riportiamo alcuni brani del capitolo in cui si presenta la volontà di inculturazione con l'Islam da parte dei primi religiosi, tra tensione evangelizzatrice e tentativi inopportuni.

  «Dobbiamo parlare ora dei parecchi tentativi di adattamento della nostra vita di preghiera non secondo le liturgie cristiane d'Oriente ma secondo i riti e i modi di pregare dei musulmani che vivevano attorno a noi. Prendevamo coscienza delle differenze che ci separavano mentre volevamo diventare dei loro. In occasione della mia prima uscita nel deserto, ero stato colpito dal fatto che i gesti della preghiera musulmana costituivano una vera liturgia adattata al deserto. Nelle nostre uscite avevamo la tendenza a pregare o a recitare l'ufficio in una posizione qualunque; ma perché non adottare degli atteggiamenti che fossero veramente espressivi della nostra preghiera? Ne feci io stesso l'esperienza nel deserto e dalla mia prima khalwa (ritiro, ndr) nel settembre 1934 riportai un rituale per la recita dell'ufficio nel deserto.

  Il fratello cominciava l 'ufficio in piedi, volto verso Gerusalemme, verso l'oriente, lo continuava seduto sui talloni e si prosternava per le dossologie che terminavano i salmi. Questo rituale fu utilizzato per qualche tempo e, quanto a me, lo osservai sempre nelle mie khalwe e in occasione dei miei viaggi nel deserto. L'usanza fu in seguito abbandonata dopo l'esperienza inopportuna dell'adhàn o appello alla preghiera dall'alto del minareto di cui ora parleremo.

   Il suono delle campane delle chiese e delle cappelle cristiane appariva in terra islamica legato non solo al cristianesimo ma anche al mondo occidentale. I musulmani non amano le campane. Perciò, coscienti di questa sensibilità musulmana soprattutto in una popolazione nomade, per chiamare agli uffici utilizzavamo il meno possibile la nostra campana. Nei primi tempi non suonavamo l'Angelus fino al giorno in cui monsignor Nouet ci chiese di farlo. Non potevo impedirmi di essere impressionato da quel rito dell'islam che convoca i fedeli alle ore della preghiera tramite la salmodia dell' adhàn, appello lanciato dall'alto dei minareti. Quell'appello contiene nello stesso tempo una testimonianza o professione di fede e un invito alla preghiera.

   Così, ci venne l'idea di sostituire il suono delle campane che annunciava le ore dell'ufficio con la salmodia o il canto di un appello in arabo. All'inizio, probabilmente da metà agosto 1934, noi lanciavamo l'appello nel cortile della fraternità. Poi decidemmo di elevare un minareto in mattoni di terra. La costruzione fu realizzata rapidamente e la sera del 3 ottobre 1934, per la prima volta, io lanciai l'appello dall'alto del minareto, non senza una profonda emozione. Se i miei ricordi sono esatti, la nostra adhàn avveniva sei volte al giorno: il mattino, prima dell'ora di prima, a mezzogiorno con menzione dell'Angelus, per la nona nel pomeriggio, la sera per la compieta e a mezzanotte e mezzo. Avevamo conservato lo stile dell'adhàn musulmana, con la ripetizione di una medesima frase all'inizio e alla conclusione dell'appello.

  Ho potuto ritrovare solo il testo di due di quegli appelli di cui dò la traduzione. A mezzanotte, per chiamare all'ufficio notturno: «Dio è il creatore immenso, non c' è altro dio che lui; alzatevi per la preghiera, la preghiera è migliore del sonno, lodate il maestro dell'universo. O Dio, diffondi su di noi la tua grazia come l'hai diffusa su Abramo e la sua discendenza. Non c'è altro Dio al di fuori di te, il creatore immenso». Ogni frase era ripetuta due volte.

   E alle  5,45, per chiamare all'ora di prima: «Dio è la provvidenza onnipotente, non c'è altro dio che lui; venite alla preghiera, venite a implorare l'aiuto di colui che dà a ciascuno il necessario. O Maria, la benedizione sia su di te, o piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del seno tuo, Gesù. Non c'è altro dio che lui, la provvidenza onnipotente».

   [...] La proclamazione di una adhàn in arabo dall'alto del nostro minareto suscitò però perplessità nella popolazione di El-Abiodh, senza che noi ne fossimo subito informati. La gente si interrogava. I fratelli erano in cammino verso l'islam? Ma allora perché utilizzavano una formula diversa pur prendendo a prestito alcune frasi dell' adhàn musulmana? Furono presentate delle lagnanze al capo del distaccamento di Géryville.

   A quel punto le autorità si allarmarono e fecero un'indagine a seguito della quale noi ricevemmo l'ordine di cessare tale pratica. Monsignor Nouet, che era rimasto silenzioso dall'inizio della nostra esperienza, senza approvarla né disapprovarla, mi scrisse il 17 maggio 1935 da Aïn-Sefra per chiederci formalmente di abbandonare il richiamo alla preghiera, anche all'interno della fraternità.

   Quell'incidente ci portò a riflettere sulla natura e sui limiti dell'adattamento della nostra vita religiosa all'ambiente della popolazione di EI-Abiodh. In effetti, monsignor Nouet ci chiedeva di cessare la chiamata alla preghiera non a causa del divieto da parte delle autorità civili o per una ragione di inopportunità, ma perché quella forma di adattamento era un errore.

   [...] Io mi sentivo però in comunione profonda con Louis Massignon. Domandandomi perché si dovesse considerare il fatto di chiamare alla preghiera con la voce umana come specificamente musulmano, avevo scritto al riguardo a Massignon, il quale mi rispose: «Mi sono posto anch'io la questione dell'origine dell'adhàn musulmana. È molto probabile che si tratti di un'usanza diffusa nelle laure dei cristiani nel deserto; mi domando se le tradizioni musulmane relative alla sua istituzione non sembrino rinviarci a cristiani abissini o yemeniti. L'idea di farne una cosa specificamente musulmana è insostenibile: la voce umana non ha nulla di specificamente musulmano, soprattutto quando si tratta della gloria di Dio».

   In sé, è evidente che un popolo arabo cristiano poteva perfettamente esprimere la sua fede e la sua vita religiosa con un appello salmodiato o cantato per convocare alle preghiere liturgiche, Louis Massignon ed io avevamo ragione in questa ipotesi. 

   Il nostro errore era però quello di dimenticare che in realtà noi non eravamo un popolo arabo cristiano che si esprimeva nella propria cultura, ma una semplice comunità religiosa composta da alcune persone di cultura latina ed europea. 

   Il nostro secondo errore era stato di attribuire alla popolazione musulmana di EI-Abiodh un atteggiamento e delle reazioni che si rivelarono erronee. Per un musulmano l'insieme dei riti con i quali esprime la sua fede o la sua preghiera è intangibile. Modificare o adattare quei riti è cosa impensabile. Non sta alla religione adattarsi all'uomo, ma all'uomo adattarsi alla religione. Spetta a Dio e alle leggi che ha stabilito trasformare l'uomo. Da un capo all'altro del mondo islamico, i credenti, quale che sia la loro mentalità, parlano allo stesso modo e compiono i medesimi riti. Sapendo del nostro interesse per lo studio della religione musulmana, quando sentirono il nostro richiamo alla preghiera la loro prima reazione fu di pensare che ci facessimo musulmani, poiché l'idea di un adattamento della religione cristiana ai loro riti non poteva venir loro in mente. Insoddisfatti della nostra religione cristiana, noi eravamo sulla via della conversione all'islam; ma, pensavano, noi ci permettevamo di modificarne i riti, il che era per loro inaccettabile e intollerabile. 

   Nella situazione in cui ci trovavamo a EI-Abiodh, utilizzare il richiamo alla preghiera non era in sé un errore, ma un tentativo inopportuno. L' adhàn non è per natura una pratica islamica, ma è considerata come tale dalla comunità musulmana.

   Essendo l'adattamento alle culture non cristiane e in particolare all'ambiente musulmano una caratteristica essenziale della nostra fondazione, era necessario precisare la nostra dottrina al riguardo. Un primo documento era stato redatto nel 1934-1935, per il progetto di un direttorio. I pericoli dell'adattamento e gli errori da evitare vi erano già chiaramente indicati. È difficile dire se quel testo sia stato o meno modificato dopo l'infelice esperienza dell'adhàn.

      
Un anno dopo, nel corso del 1936, fu redatto un altro testo interamente dedicato all'adattamento. Esprimeva perfettamente ciò che pensavamo allora a questo proposito. Quel rapporto fu probabilmente redatto per monsignor Richaud, vescovo ausiliare di Versailles, in vista della Settimana sociale che doveva tenersi in quella città nel luglio del 1936 sul tema "Conflitti di civiltà". Più tardi, nel 1944, il nostro giudizio sugli adattamenti all'Islam fu molto più severo. Quei diversi documenti sull'adattamento mi sembravano importanti. Ma va sottolineato con forza che, al di là delle variazioni sui segni e sulle espressioni esteriori, non fu mai messo in discussione questo adattamento spirituale, fondamento stesso del nostro dono a un popolo e del nostro ministero di intercessione, di adorazione e di lode in suo nome»


                          René Voillaume

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[Fonte: Vita Pastorale - Novembre 2001]

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