Mons. Brunero Gherardini da coraggioso ed intrepido toscano rompe il
ghiaccio raggelante di un certa assuefazione
theologically correct,
cioè di quel modo di pensare e di fare secondo cui il Vaticano II è solo un
dono, un mistero da scoprire sempre e nuovamente. È tutto rose e fiori! Ma
solo per la gran confusione dottrinale che oggi impera sovrana sarà anche un
problema? Ci si può porre da un versante critico, per amore della Chiesa e
del Papa, e far venire i nodi al pettine?
Questo cerca di fare il novello
libro di Gherardini sul Vaticano II, edito da Casa Mariana Editrice. L’A. in
fondo arieggia il memorando discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana
(dicembre 2005) in cui il Papa evidenziava il problema ermeneutico nella
ricezione del Concilio, distinguendo «un’ermeneutica della continuità e
della riforma» da «un’ermeneutica della rottura» e della «discontinuità»,
imputando a quest’ultima i numerosi smarrimenti dottrinali seguiti nella
stagione post-conciliare. La rottura vede nel Vaticano II quasi un nuovo
cominciamento della Chiesa, suggellato dal principio di pastoralità della
Chiesa. Questo principio precluderebbe di attestarsi all’istituzione, ai
documenti, per fare spazio al nuovo modo di concepire la Chiesa: un esserci
nel mondo per la storia. La continuità, invece, non strappa il tessuto
ecclesiale, non frammenta la Chiesa in momenti, ma vede in essa un unico
Soggetto di fede che cammina nel tempo e viene dall’alto, ci porta verso
l’alto, nella vita eterna. Benedetto XVI di recente è ritornato sul tema del
Vaticano II, segno che qui si radica, in qualche modo, la problematicità che
investe la fede e che richiede una chiara ed autentica risposta da parte
della competente autorità. Precisamente il Papa ha riparlato del Concilio in
due occasioni: prima nella
lettera ai Vescovi (10 marzo 2009), in seguito
alla remissione della scomunica ai 4 Vescovi consacrati da Lefebvre, poi,
dopo poco tempo, nel Discorso ai partecipanti alla Plenaria della
Congregazione per il Clero, il 16 marzo 2009.
Gherardini, mosso dalle premure papali, evidenzia che un’errata
ermeneutica della rottura applicata al Vaticano II ha portato la Chiesa di
oggi a considerarsi ormai come la vera Chiesa e l’unica Chiesa degna di
sopravvivere. È «vero ed incontestabile – scrive – che Magistero teologia ed
operatori pastorali han fatto del Vaticano II un assoluto. Un errore di
fondo, sul quale si è costruito l’edificio postconciliare e contro il quale
occorre finalmente reagire» (p. 24).
Accanto ad un reiterato appello ad organizzare gruppi di studi
specializzati che studino in modo critico e scientifico i documenti del
Concilio mostrandone la loro vera indole e il loro legame dogmatico con la
Tradizione, espungendone quello spirito soggettivo che anima l’analisi,
Gherardini propone fondamentalmente due cose per ricucire lo strappo che si
è verificato tra la Chiesa pre-conciliare e quella post-conciliare (una
distinzione già sintomatica di un notevole disagio dogmatico): definire in
modo teologico ed inequivocabile la natura pastorale del Vaticano II e
rispiegare precisamente il lemma “Tradizione”, leggendolo nel solco della
fede della Chiesa come altro dalla Scrittura e non come inglobato in essa,
fino a risultare un duplicato di cui sbarazzarsi.
Gherardini parte dall’ermeneutica della continuità come indicato dal
Pontefice a cui aggiunge un attributo interessante, (in verità sin dal suo
insegnamento universitario) e la definisce «ermeneutica evolutiva» (p. 87),
unica capace di rispondere a quella domanda di capitale importanza: «il
Vaticano II s’iscrive o no nella Tradizione ininterrotta della Chiesa, dai
suoi inizi ad oggi?» (p. 84). Proprio in ragione di un’evoluzione della
comprensione della verità e non di una mutazione della verità in sé, il
Vaticano II fa parte dell’unica vita della Chiesa, n’è un momento solenne ed
espressivo di tutta la storia che lo ha preceduto e in questo modo diventa
anche profezia per il tempo che verrà. La Chiesa «non è una successione di
quanti, ma una sua ininterrotta ed armonica durata, della quale ogni Concilio
Ecumenico è un momento essenziale, organicamente – direi perfino
“biologicamente” – collegato con quelli che l’avevano preceduto, costituendo
con essi il patrimonio “biologico”, grazie al quale la Chiesa ha finora
vissuto, vive e vivrà» (p. 85).
Questo approccio ermeneutico però non sarà proficuo senza decidersi a
riconoscere la natura pastorale del Concilio. Dire che il Vaticano II è un
Concilio pastorale significa che non lo si può considerare come l’unico
Concilio della Chiesa e non si può attribuire valore dogmatico-definitorio
ai suoi testi a meno che non faccia un chiaro ed esplicito riferimento ai
dogmi definiti in precedenti Concili e all’insegnamento dogmatico
precedente. «È pertanto lecito riconoscere – scrive Gherardini – al Vaticano
II un’indole dogmatica solamente là dov’esso ripropone come verità di Fede
dogmi definiti in precedenti Concili. Le dottrine, invece, che gli son
proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione
che son prive dell’ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa
“voluntas definiendi”» (p. 51). Il Magistero del Concilio è dunque un
magistero solenne della Chiesa ma non irreformabile, di natura pastorale, e
perciò suscettibile, in diversi luoghi, di perfettibilità dogmatica, di
ancoraggio più esplicito alla Fede della Chiesa. L’afflato pastorale che
anima il Concilio deve essere necessariamente verificato alla luce della
ricezione storica dei suoi documenti, dei miglioramenti verificatisi, degli
approfondimenti, come dei disguidi, delle perplessità, degli smarrimenti
dottrinali e di tanta superficialità prodottasi. È proprio il criterio
pastorale che invoca una revisione, onde essere all’altezza dei tempi con i
quali chiede il confronto. Bisogna nuovamente bilanciare quel rapporto
diadico di dogmatica e pastorale: questa in funzione di quella e mai
viceversa.
Di qui deriva l’altro punto fondamentale da chiarire, intorno al quale si
attesta l’attuale enfasi che vede il Vaticano II come correttivo al
Tridentino e al Vaticano I circa il senso della Traditio, vista non
eccessivamente distinta dalla Scrittura. Gherardini su questo è molto
palese: «Sì il Vaticano II portò al riguardo un suo correttivo. Ma non è
detto ch’esso sia stato anche un grande progresso» (p. 117). In che senso?
L’A. prima di tutto si chiede cosa significhi Traditio presso i Padri e
appura che la regula fidei oltre alla Scrittura è costituita anche dalla
Tradizione orale, intesa come Tradizione apostolica, non riducibile alla
Scrittura, ma di essa più ampia e col medesimo valore normativo. Questa è la
linea comune fino al Vaticano I. Il valore normativo della Tradizione come
regola prossima della fede (a differenza della Scrittura, regola remota
della fede, cf p. 128), viene ravvisato da Gherardini nel vicendevole
integrarsi di Successione e Tradizione, «perché qui si radica la “regula
fidei” e perché il parlarne dovrebbe partire da qui, non da quel sovrapporsi
ed integrarsi di Scrittura e Tradizione che ne farebbe “una cosa sola”»
(Ibid.). Invece, il Vaticano II predilige in Dei verbum 9 una certa
unificazione tra Scrittura e Tradizione in base ad una eguaglianza di
origine e coincidenza di contenuti, riservando alla Tradizione solo una
differenza di espressione rispetto a quella della Scrittura, correndo però
il rischio di rendere superflua o l’una o l’altra (cf pp. 126-127). Dice
Gherardini: «Per il Vaticano II e per la sua volgata interpretativa, la
Tradizione trasmette soltanto quanto contiene la Scrittura e ne applica il
contenuto scritto alla esigenze dei tempi. La qual cosa, però, è già fuori
della nozione classica di Tradizione [...] come la storia della Chiesa
dimostra e qualche Padre apertamente dichiara» (cf pp. 125-126).
Nei capitoli successivi (dal sesto al nono) l’A. affronta, in modo più
sistematico, alcuni “argomenti scottanti” che richiedono una precisazione
dottrinale perché proprio su di essi si attesta un’interpretabilità a volte
equivoca, volutamente discontinua. Chi è responsabile di tutto ciò? L’A.
salva sempre la buona fede dei Padri Conciliari e l’errore è visto e
giudicato sempre dal punto di vista materiale. Ma, in ogni caso, un legame
con l’assise conciliare ci deve essere, almeno indirettamente, altrimenti
non si capirebbe il motivo dello smarrimento. Non è il Concilio in sé la
causa della confusione delle interpretazioni ma sì il suo possibilismo, «il
suo aprirsi pregiudiziale verso tutto quello che fosse – o apparisse –
un’esigenza dell’uomo» (p. 156). Questo certo potrebbe scandalizzare molti.
Da qui potrebbero partire tante scomuniche ai critici insofferenti del
Vaticano II. Ma, se si tratta di un Concilio pastorale, non si sta negando
la fede. Dunque, non si è eretici mostrando i punti dolenti. Sottolineando
queste discontinuità non si è contro il Concilio (l’A. lo ripete, da par
suo, fino all’inverosimile), bensì se ne desidera caldamente una lettura
giusta e in continuità con tutta la Chiesa. Ecco il motivo dell’accorata
supplica che Gherardini muove al Pontefice in chiusura del suo libro, perché
in questo marasma di idee che circolano sul Concilio si degni di intervenire
in modo autorevole, chiarendo cosa la Chiesa è in sé, cosa la Chiesa deve
credere per essere Chiesa e cosa invece deve rifiutare per essere ancora
Chiesa.
I punti dolenti sui quali Gherardini si sofferma con notevole acribia
teologica sono: la riforma liturgica, la libertà religiosa, l’ecumenismo, in
tanti casi depauperato in sincretismo e infine la Lumen gentium nel
suo subsistit in, in riferimento alla Chiesa di Cristo interrelata
alla Chiesa Cattolica, ad un tempo, in una unità sostanziale e in una
distinzione formale per cogliere a livello teologico le peculiarità
ecclesificanti delle altre Chiese e comunità ecclesiali. Solo un cieco
mistificherebbe la dottrina cattolica dell’unica Chiesa di Cristo, quella
cattolica appunto, affermando con Lumen gentium una Chiesa allargata
alla pluralità, alla confusione di Babele. Eppure questi ciechi ci sono.
Segno che questo libro merita di essere attentamente meditato. Ci auguriamo
che sia sprone ad una presa in seria considerazione della posta in gioco: il
nostro essere Chiesa oggi.
(Per approfondire il tema del Concilio Vaticano II, si veda l’Editoriale
della Rivista di apologetica Fides Catholica 1 [2009]:
Concilio Ecumenico
Vaticano II. Un nodo da sciogliere).