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Vorrei proporre tre prospettive di lavoro e di maturazione per il cammino che ci attende: le prime due riguardano la ricerca interreligiosa in rapporto al problema del pluralismo, la terza la coerenza ecumenica nelle relazioni tra cristiani. Nella relazione con persone e comunità di altre religioni forse si può cercare di mettere a fuoco più l'incontro tra esperienze religiose che il confronto tra sistemi religiosi. Se è vero che una cosa non esclude l'altra, è innegabile che l'attenzione del dialogo interreligioso si sia finora concentrata molto più sulle religioni come sistemi che sull'esperienza religiosa. Recentemente a Milano - nel contesto dell'iniziativa "Religioni per la pace nello spirito di Assisi", durante la tavola rotonda con il buddhista, l'ebreo e il musulmano - il card. Martini, parlando di esperienza di dialogo in prima persona, ha elencato gli elementi che "costituiscono un ampio terreno condivisibile tra me e i seguaci di altre religioni. È una piattaforma comune di riferimento, un luogo di dialogo e di scambio. Mi sembra che l'atteggiamento che ho descritto non considera tanto i sistemi religiosi come tali (dialogo tra le religioni) né la professione esterna o la rappresentanza ufficiale di religioni (dialogo tra uomini di religione) ma le profondità del cuore di ciascuno nell'intento di scoprire i tanti elementi comuni che abbiamo insieme, al di là del vocabolario, dei sistemi teorici e delle teologie differenti… (dialogo tra esperienze religiose o dialogo dell'interiorità)". L'intuizione di Martini, che qui vorrei proporre di considerare per il lavoro futuro, non è certo di trascurare il dialogo teologico di cui nessuno sottovaluta la necessità, ma di spostare l'obiettivo della ricerca e del dialogo, dai sistemi religiosi all'esperienza religiosa che è comune ad ogni persona pur nella diversità dei linguaggi. Sappiamo che il fenomeno di una società pluralista, con diverse etnie, culture e religioni, pone problemi di convivenza e provoca conflitti sociali, che non possono essere risolti se non nel dialogo pacifico e costruttivo tra le parti in causa. La convivenza civile tra differenti identità fa problema per più ragioni. Una in particolare soggiace alle altre come questione di fondo: la diversa concezione del rapporto tra società e religione nei vari universi culturali da cui proviene il flusso migratorio. In essi è sconosciuto il concetto di laicità della società e delle sue istituzioni, che è invece cardine nel nostro universo culturale. Il senso della laicità è infatti maturato attraverso un processo storico di emancipazione dal clericalismo religioso della cristianità, sulla spinta anche di valori e istanze evangeliche. Non lo ritroviamo nelle culture sviluppatesi intorno ad altre religioni. Pertanto di fronte ai problemi di una società pluralista la laicità è valore fondamentale e non negoziabile della nostra identità culturale: dobbiamo esserne più consapevoli come europei, cristiani e non cristiani. Una società è laica se i suoi ordinamenti giuridici e le sue istituzioni sono a servizio della libertà delle coscienze nell'uguaglianza dei diritti: è laica nella misura in cui si pone come la casa comune per tutti coloro che vi vengono ad abitare. Non si può contraddire questo principio, magari in nome di una presunta difesa dei valori cristiani, senza rinnegare di fatto la fecondità storica del cristianesimo, che ha nella laicità un frutto maturato nel suo seno attraverso un sofferto ma benefico processo dialettico. Lo dimentica chi dice: concediamo libertà religiosa all'immigrato solo se il paese da cui proviene concede altrettanto. Non si può barattare il valore della laicità come merce di scambio. Chi poi paventa la islamizzazione del paese o la penetrazione di culture esotiche deve capire che non ci si difende ricorrendo a fondamentalismi uguali e contrari. Spetta invece allo stato laico e alle istituzioni pubbliche far accettare da tutti il principio della laicità e, grazie ad esso, coniugare la salvaguardia del patrimonio spirituale della nostra storia con l'accoglienza di differenti identità. Ciò che è carente nella nostra storia italiana è la maturazione del senso della laicità. L'incontro tra differenti identità religiose può promuovere una più matura esperienza di laicità. Non è ancora scomparsa la mentalità che emargina "a priori" il fenomeno religioso o rifiuta di avere con esso un qualsiasi rapporto: è un clericalismo alla rovescia, eredità di passate lotte anticlericali. Laicità implica invece rapporto razionale con la realtà intera come essa è: il fenomeno religioso fa parte della realtà. Ora il pluralismo religioso offre l'occasione per ridefinire la necessaria neutralità confessionale dello stato laico in termini positivi e non più negativi: una neutralità non più intesa come presa di distanza dall'unica religione dominante, perché invadente, ma intesa come rispetto di ogni legittima espressione religiosa. Per questa ridefinizione della laicità e neutralità confessionale delle istituzioni pubbliche è urgente in Italia dialogare tra esponenti delle religioni e della cultura. L'ho già segnalato e qui mi permetto di ribadirlo. Vorrei infine richiamare l'esigenza di porci un obiettivo di maturazione anche tra noi cristiani delle diverse confessioni impegnati nel movimento ecumenico. Diciamo che l'ecumenismo spirituale è l'anima del movimento ecumenico, ma molto spesso valutazioni e reazioni del mondo ecumenico ai fatti ecclesiali registrano un linguaggio più politico che spirituale. Quanto al documento Dominus Iesus condivido, come spero molti cristiani, l'esigenza di mettere in guardia da reali pericoli di vanificare la cristologia e di cadere nel relativismo religioso. Riguardo alla parte che interessa i risvolti dell'ecumenismo intracristiano, proporrei tre annotazioni. In un documento di denuncia dei pericoli del relativismo che si incontrano nel dialogo interreligioso era opportuno evitare riferimenti al dialogo ecumenico intracristiano. Sono ambiti con problematiche troppo differenti. Il loro accostamento può creare confusione e ha suscitato di fatto equivoci sulla volontà da parte cattolica di continuare il dialogo ecumenico. Ma il papa continua a ribadire che la Chiesa cattolica non può recedere dal cammino ecumenico. Martini ha suggerito di leggere la dichiarazione di Ratzinger alla luce dell'enciclica papale sull'impegno ecumenico Ut unum sint. La stessa affermazione che l'unica e universale Chiesa di Gesù Cristo sussiste nella chiesa cattolica appartiene, come è noto, all'ecclesiologia del Vaticano II, dove pure si parla di comunità ecclesiali (protestanti) per riservare il termine chiese a quelle orientali antiche e ortodosse. Tuttavia sulla base di questa ecclesiologia del Vaticano II i cattolici dialogano da anni con i cristiani delle altre confessioni e le loro chiese. Infatti il dialogo ecumenico nasce proprio dal fatto che cristiani di diverse confessioni ritengono di essere Chiesa in senso pieno e di essere Chiesa in continuità storica con quella di Gesù Cristo. Nel dialogo ecumenico ci si ascolta reciprocamente e non si può prescindere da ciò che ciascuno dice di se stesso. Anche quando non condivido l'ecclesiologia altrui, non posso non prendere sul serio l'autocoscienza del mio interlocutore. Questo è un principio imprescindibile del dialogo, sulla base del quale abbiamo dialogato in questi anni dopo il Vaticano II e continueremo a dialogare anche dopo la Dominus Iesus. È pure necessario che prendere sul serio l'altro, per quello che dice di se stesso, sia sempre un fatto reciproco: vale per i cattolici nei confronti dei cristiani di altre confessioni che si percepiscono come chiese in senso proprio, vale per gli appartenenti a queste che si rapportano con i cattolici, i quali nella Dominus Iesus si ritrovano un'ecclesiologia puntuale, più ispirata alle esigenze apologetiche che a quelle ecumeniche. Sarebbe inoltre stato opportuno che sui temi affrontati dalla Dominus Iesus si fosse ripetuta la felice esperienza del documento Dialogo e annuncio del 1991, che redatto in modo congiunto dai due organismi vaticani competenti per il dialogo interreligioso e per l'evangelizzazione dei popoli, ebbe una ricezione molto favorevole. La collaborazione esplicita tra più organismi vaticani, secondo le diverse competenze, produce effetti migliori. Alla Dominus Iesus non ha giovato la mancata intesa della Congregazione per la dottrina della fede con il Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, che avrebbe fatto tenere in conto le acquisizioni più recenti sul piano della sensibilità e del linguaggio. C'è un problema di linguaggio, certamente nell'ambito della relazione ecumenica, ma anche di quella interreligiosa. Noi spesso rimaniamo invischiati in una logica di confronto comparativo e il nostro linguaggio, sia pure in nome della verità, tende più a esibire le nostre grandezze e superiorità che a lodare Dio della sua azione in noi e negli altri. Ma il Signore nell'Evangelo propone una logica opposta a quella comparativa: quando i discepoli lo interrogano su chi è più grande nel Regno dei cieli, egli chiede a loro, come a noi, di farsi piccoli. Perché i primi saranno gli ultimi e chi si esalta sarà umiliato. Certamente non è facile in documenti dottrinali trovare un linguaggio trasparente al paradosso evangelico. Sempre, però, ci è richiesta la sequela del Signore, il quale non ritenne gelosamente per sé la sua identità divina, ma seppe abbassarsi senza per questo perderla o contraddirla. È sempre un'identità incerta quella che si confronta per cercare di esaltarsi, mentre "il cristiano radicato nella propria Chiesa locale - ci ricorda il card. Martini - ama e coltiva il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso a partire da una coscienza della propria identità che è così serena e certa da lasciarsi volentieri arricchire dai tesori degli altri". La qualità spirituale delle nostre relazioni ecumeniche implica e suscita non
tanto atteggiamenti apologetici, quanto di diaconia all'Evangelo, fino a farsi
carico dei limiti e delle incoerenze altrui e fino a chiedere perdono di quello
che anche involontariamente una Chiesa può far soffrire alle altre. Pertanto,
anche se la mia voce non conta nulla, vorrei concludere chiedendo perdono a
tutte le sorelle e a tutti i fratelli che si sono sentiti feriti dal linguaggio
mio e della Chiesa a cui appartengo. |