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    VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello - “Il dialogo ecumenico e la libertà religiosa”

Nei giorni scorsi la Santa Sede ha richiamato più volte gli Stati sull’urgenza del rispetto della libertà religiosa, “fondamento - diceva Giovanni Paolo II - di ogni altra libertà”. Questo, però, non riguarda soltanto gli stati ‘islamici’ ma, purtroppo, anche alcuni stati a maggioranza cristiano-ortodossa. È di questa settimana la denuncia su Famiglia cristiana dell’Arcivescovo latino di Atene Nikolaos Foscolos: “Non credo che un miglioramento delle relazioni generali con l’ortodossia migliori la situazione dei cattolici in Grecia”. Poi un elenco di fatti tra cui: i cattolici greci sono ritenuti stranieri in patria; per costruire una chiesa ci vuole il permesso del metropolita ortodosso del luogo; i cattolici che si sposano devono sottoscrivere un atto notarile, che assicuri il battesimo dei figli nell’ortodossia. Tutto questo mentre in Italia e in Europa vengono concesse chiese agli ortodossi per culto e attività missionaria. E poi appena entri in esse, come in Calabria, un cartello dichiara: “questa è la vera Chiesa di Cristo” e giù le differenze per mettere in cattiva luce la cattolica.

Sono note a tutti le obiezioni e le rivendicazioni degli ortodossi sia riguardo al cosiddetto “proselitismo”, cioè la presenza di circoscrizioni cattoliche in territori attualmente a maggioranza “Ortodossa”, sia a proposito del cosiddetto “uniatismo”, cioè la presenza nella comunione della Chiesa Cattolica delle Chiese Orientali Cattoliche.

Queste obiezioni sono già state oggetto di studio in varie sedi, come quelli di Adriano Garuti e David Jaeger. Sembra però che occorra ora, sempre nella prospettiva della Verità, consacrare attenzione particolare alla questione che si potrebbe dire, in questo contesto, alquanto “pregiudiziale”, e cioè il diritto umano alla libertà di coscienza e di religione, che, come insegna il Concilio Vaticano II, è radicato non solo nel diritto divino naturale, ma anche nella Verità rivelata. 

È noto infatti che, anche su istanza delle Comunità ecclesiali separate dell’Occidente, questo insegnamento Conciliare sarebbe stato visto come intimamente connesso con quello sull’ecumenismo. Infatti perché il dialogo nella Verità sia credibile, occorre che le parti riconoscano innanzitutto la libertà da ogni costrizione meramente umana della coscienza dell’uomo alla ricerca della Verità. Non è compatibile con questo riconoscimento una impostazione che vedrebbe negli uomini dei sudditi costretti ad appartenere ad una confessione determinata in ragione del territorio, dell’ascendenza, della nazionalità o della cultura. Come non è ammissibile una concezione, seppur implicita, dei rapporti tra le Chiese come comprendenti la spartizione dei territori e dei popoli, pretendendo che le anime possano essere quasi delle “proprietà” di questa o quell’altra organizzazione ecclesiastica. Anche chi non condivide la scelta di tanti ceti cristiani di rito e di cultura “orientale” di aderire alla piena comunione con la Chiesa di Roma, non deve mancare di riconoscere la piena legittimità di tale adesione, e della sua accettazione, nell’ottica della libertà religiosa; come non può pretendere che la Chiesa Cattolica non sia presente ed operante ovunque, in questa stessa ottica.

È vero che le Chiese Ortodosse non hanno beneficiato degli sviluppi dottrinali e teologici compiuti dal Concilio Vaticano II, ed in connessione con esso, per cui mancano tuttora gli appositi agganci nel loro insegnamento. Proprio per questo però, risulterebbe massimamente opportuno, o addirittura del tutto necessario, che la ripresa, approfondita, del dialogo propriamente teologico con loro, privilegi innanzitutto queste premesse, che sole potrebbero permettere di uscire dall’apparente vicolo cieco delle aspre discussioni circa l’ “uniatismo” e il “proselitismo”. Esse potrebbero essere gentilmente invitate ad esaminare nella stessa prospettiva anche i propri comportamenti, quali la creazione di numerose circoscrizioni e altre forme di presenza pastorale proprio “in Occidente”, con relativa iscrizione ad esse anche di “occidentali”, e la benevola accoglienza che tale forme di presenza hanno trovato presso la società e la stessa Chiesa Cattolica.

Quanto osservato circa il dialogo ecumenico, specie con l’Ortodossia, vale non meno per il dialogo interreligioso (pur in mancanza della possibilità di riferire l’argomento direttamente alla Verità rivelata). In questo contesto pare ancor più palese la necessità di privilegiare, di ritenere oggetto primario e prioritario del dialogo, i diritti umani, e soprattutto il diritto più fondamentale di tutti, quello alla libertà da ogni costrizione meramente umana in materia di coscienza e religione. 

Ciò varrebbe in modo particolare, anche se certamente non solo, per il dialogo con i musulmani, ma anche con gli ebrei di Israele. In paesi a maggioranza “islamici” è ancora non di rado negata la legittimità della presenza, e della testimonianza, all’interno della comunità nazionale, dei credenti in Cristo. Così pure, in Israele, non è ancora sufficientemente compreso da tutti, che si possa essere nello stesso tempo un membro leale della Nazione e un credente in Cristo Gesù. Non per caso, infatti, nei trattati storici, rispettivamente, con Israele (1993) e con la Palestina (2000), la Santa Sede ha voluto mettere al primo posto l’obbligo di osservare la libertà di religione e di coscienza. È vero che essi sono trattati “politici”, di stampo concordatario, e non direttamente documenti di dialogo interreligioso, ma anche all’epoca non c’era chi non vi intravedeva il profondo significato anche per i rapporti più propriamente interreligiosi.
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[Fonte: Agenzia Fides 25 maggio 2006]

   
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