Perché
il concepito è vero uomo fin dal primo istante
di Romano Guardini
La difesa della vita, in Guardini, coincide con la
difesa dell’umanità dalla barbarie, appena sperimentata nella
dittatura hitleriana, e il suo lucido ragionare mette in guardia da
ripetere gli stessi errori, perché “le azioni sbagliate, anche se
appaiono utili, alla fine conducono alla rovina”.
Guardini confuta chi sostiene che l’aborto, la selezione degli
embrioni e il loro uso a fini di ricerca sono libere decisioni
individuali e non coercizione dello stato, come al tempo del nazismo. La
sostanza, sostiene, è la stessa e uguale il pericolo di barbarie.
Può dirsi essere umano il frutto che matura nel grembo materno? Che lo
sia negli ultimi mesi del suo sviluppo è incontestabile, perché dire
che lo diventa soltanto al momento in cui si stacca dal grembo materno
sarebbe troppo ingenuo. La psicologia è in grado di avanzare, sulla
strada dell’inconscio, persino nella vita psichica del nascituro, e la
pedagogia parla di un’educazione prenatale.
Ma il frutto è forse un essere umano fin dal primo momento del suo
sviluppo? Oppure lo diventa in un momento qualsiasi, che va determinato
con esattezza, tra il concepimento e la nascita, di modo che, riguardo
al nostro problema, risulterebbe veramente importante determinare in
modo esatto tale momento, onde poter effettuare l’intervento
[abortivo] senza scrupoli morali?
Si dice che nel primo periodo, ossia fino al centesimo giorno,
l’embrione non sia ancora un vero e proprio essere autonomo, bensì
una formazione del tutto appartenente all’organismo materno. Non
appena si esamini senza pregiudizi questa dichiarazione, si vede subito
che non è dettata necessariamente dall’oggetto medesimo, ma
dall’esterno, da motivi che hanno a che fare con determinati interessi
vitali. E si vede inoltre che si fonda su una concezione meccanicistica
dell’essere vivente.
Che cosa si obietterebbe se qualcuno asserisse che un certo vegetale
c’è come tale soltanto quando si manifesta chiaramente il carattere
di albero? O se qualcuno asserisse che un animale, il cui sviluppo
avviene fuori dall’organismo materno, ad esempio un pesce, è questo
pesce soltanto quando ha squame e pinne e quant’altro ancora
appartiene alla sua forma caratteristica? Si risponderebbe che si tratta
di un’assurdità. Poiché il modo di esistere del vivente proviene da
un inizio semplice, ossia dalla divisione di una cellula o dall’unione
di due, passa attraverso una serie di trasformazioni fino al pieno
svolgimento morfologico, per giungere poi attraverso le varie forme
della stabilizzazione e del decadimento fino alla morte.
Questi singoli stadi però – e ciò è essenziale – non si
susseguono l’uno dopo l’altro in una serie esteriore, ma formano un
tutto, una forma [Gestalt] nel senso stretto del termine.
Ciò che chiamiamo organismo, da questo punto di vista, ha due forme per
manifestarsi.
Una è sincronica, laddove le varie formazioni (a cominciare dalle
molecole proteiche fino agli organi più complessi) si congiungono in
una struttura complessiva, o, per meglio dire, ogni momento singolo si
forma fin dall’inizio secondo la struttura complessiva: chiamiamo
questa prima forma “forma strutturale” [Baugestalt].
Ma v’è anche l’altra forma, quella diacronica, laddove i vari stadi
attraverso i quali è passato o deve ancora passare l’individuo (a
cominciare dalla prima forma delle cellule originarie che si separano o
delle cellule dei genitori che si uniscono, per passare per la piena
maturità ed arrivare all’ultimo decadimento) portano a formare la
struttura complessiva, o per meglio dire: ogni fase si coordina nel
complessivo processo di sviluppo; chiamiamo questa seconda forma
“forma in divenire” [Werdegestalt]. Questa forma in divenire è
necessaria e caratteristica per l’essere vivente in questione, tanto
quanto la forma strutturale, e non è possibile togliere né una fase a
quella, né un membro a questa.
Da parte loro entrambe le forme, quella strutturale e quella in
divenire, si coappartengono, vale a dire rappresentano entrambe appunto
l’organismo, la prima nello spazio, l’altra nel tempo. In entrambi i
casi si tratta di un’unità indivisibile, poiché ogni elemento è
determinato dal tutto e viceversa il tutto ha necessità di ogni
elemento. “L’albero” è quella figura che ha la sua presenza nello
spazio, disposta in radici, tronco, rami, fogliame – ma è pure quella
serie di fasi che vanno attuandosi nella successione temporale di seme,
embrione, pianticella, albero adulto pienamente sviluppato. L’albero,
in ogni fase sempre identico a se stesso, si attua interamente soltanto
nella serie completa fino all’ultimo morire della radice.
Sostenere che l’essere da noi considerato incominci a esser se stesso
solamente quando ha già percorso un certo numero di forme evolutive,
sarebbe piatto meccanicismo, essendo posta in tal caso una somma di
particelle in luogo di una totalità vivente. Chi in qualche modo ha
compreso che cosa sia l’”organismo”, non può far a meno di dire
che l’essere vivente in questione incomincia fin dalla divisione della
prima cellula ovvero dall’unione delle due cellule dei procreatori.
E ciò vale anche per l’uomo. La curva della sua forma in divenire
inizia con l’unione delle cellule dei genitori, culmina nella
perfezione morfologica e giunge alla morte. Egli dunque è già essere
umano fin dal concepimento – come lo è ancora all’ultimo momento
del morire. Non è logicamente possibile pensare altrimenti.
Se poi si vorrà obiettare come i primi stadi dell’evoluzione possano
comportare già l’importanza spirituale della dignità umana, si deve
nuovamente rispondere: è materialismo porre un pensare secondo la
quantità al posto di un pensare secondo la qualità. Poiché già le
prime cellule possiedono infatti tutta la potenzialità strutturale
della vita futura, esse contengono in potenza tutte le forme che si
generano non solo durante lo sviluppo embrionale ma pure in quello che
seguirà alla nascita, attraverso infanzia, età matura, decadimento.
Affinché dalla quantità 2 risulti la quantità 5, bisogna aggiungervi
la quantità 3, altrimenti rimane ancora 2. Ma affinché dal primo
stadio dell’organismo si formino i seguenti stadi, non c’è bisogno
di aggiunta alcuna, bensì di uno svolgimento; v’è già in potenza
tutto ciò che verrà.
Una concezione meccanicistica non può rendersi conto dell’essere
vivente, poiché lo vede come giustapposizione esteriore, come macchina.
Inoltre tale concezione comporta un grande pericolo rispetto alla
comprensione del valore: quello di essere improntata dalla quantità,
sia in quanto massa, sia in quanto somma degli elementi formativi in
atto. Chi pensa in tal modo, vedrà tanto meno l’uomo nell’embrione,
quanto minore sarà la grandezza e meno differenziata l’organizzazione
del relativo stadio evolutivo; e quindi si sentirà sempre meno impedito
a intervenire nella vita embrionale.
Non dobbiamo inoltre dimenticare le altre conseguenze di una simile
visione che, in termini generali, sostiene che l’essere-uomo non è un
carattere essenziale, ma qualcosa che è dato in grado superiore o
inferiore, e precisamente in quella misura in cui lo stadio di sviluppo
preso in considerazione si avvicina all’optimum, alla situazione
suprema di ricchezza formale e di energia vitale.
Viene così manifestandosi una graduatoria, non solo nelle evoluzioni
embrionali che siamo andati finora esaminando, ma anche in altri punti
del complesso vitale. La distanza dal punto ottimo può essere
proiettata all’indietro, in direzione del principio, con questa
conclusione: quanto più lo stadio dell’evoluzione embrionale è
primitivo, tanto meno umano è il prodotto. Si può però proiettarla
anche in avanti, per concludere: quanto più lo stadio dell’evoluzione
autonoma dista dal culmine già raggiunto, ossia quanto più
l’individuo è vecchio, tanto meno è ancora uomo. La distanza
dall’optimum può inoltre manifestarsi mediante tutte quelle
menomazioni che si chiamano malattia, debolezza, sventura, e allora si
conclude: quanto più un individuo è malato, debole, sventurato, tanto
meno può pretendere al carattere di vero essere umano.
Ma allora tutto dipende da come si fissa la scala esplicativa con cui
‘indicizzare’ l’eliminazione delle forme indebolite, non solo
quelle embrionali, ma anche quelle postnatali.
E si deve nuovamente ricordare che teoria e prassi del non lontano
passato sono giunte a questa conclusione anche effettivamente e con
piena coscienza, ammettendo lo spaventoso concetto di una “vita priva
di valore vitale”. Prime vittime furono i malati mentali e gli idioti,
sarebbero seguiti gli incurabili – e, infatti, molti di essi vennero
uccisi – e i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la serie.
Ma a questo punto la sfera dell’esistenza degna dell’uomo era
definitivamente abbandonata, poiché una tale mentalità è barbarie
nuda e cruda.
In verità concepimento e morte, ascesa e decadenza, infanzia e maturità,
salute e malattia, appartengono a quel tutto che chiamiamo “uomo”.
Sono elementi della totalità della sua esistenza [Gesamtdasein], che
non è infatti soltanto natura, ma anche storia; che non possiede
soltanto uno sviluppo, ma anche un destino; in cui si compiono non solo
incremento e danneggiamento, ma anche conservazione e deperimento,
vittoria e sconfitta, superamento ed espiazione. E la malattia
sopportata con coraggio, la incapacità di rendimento dalla quale
fioriscano bontà, saggezza, maturità sono assai più “valori
vitali” di una salute che renda brutali e di una perizia tecnica che
estrometta l’esistenza.
Chi pensa in maniera conseguente non può non concludere che l’uomo è
realmente un vero uomo fin dal primo momento del suo sviluppo, ossia
dall’unione delle cellule dei genitori, cosicché tutti gli stadi del
suo divenire sono soggetti alle norme che valgono per l’uomo.
Sia lecito dirlo ancora più chiaramente: la maturità etica presente si
rivela nel caso in cui qualcuno, spinto dal fatto che l’esteriore
somiglianza dell’embrione con l’uomo diminuisce sempre più
guardando all’indietro, o si senta indotto a non considerarlo come
uomo, o invece protegga l’umanità ancora latente dell’embrione con
vigilante coscienza.
Al forte è affidato l’indifeso, e nel fatto che l’uno usa la sua
superiorità per proteggere l’altro, sta la differenza tra forza e
prepotenza [Gewalttätigkeit]. Questo prendersi cura, laddove si tratta
della vita in divenire, assume uno speciale carattere decisivo per tutta
la vita umana. Perciò ci si commuove sempre per il sacrificio che la
vera madre compie a favore di questo compito. Lo stesso compito adempie
il padre quando protegge la madre e il bambino che in lei si forma. E
così pure fa il medico, che sa vedere l’essere umano laddove
l’occhio inesperto non lo riconosce ancora, e si fa quasi suo
procuratore contro tutte le considerazioni utilitaristiche che lo
sollecitano.
Con ciò è stato detto qualcosa che stabilisce il più profondo ethos
del medico. Il maestro di pedagogia Hermann Nohl definì una volta
l’educatore come quell’uomo che rappresenta il senso della gioventù
di fronte alle pretese autoritarie della società – e quindi
ovviamente anche di fronte ai suoi stessi impulsi istintivi. Per il
medico si può dire qualcosa di simile: egli rappresenta il diritto
dell’uomo malato di fronte alla brutalità dei sani. E così pure
rappresenta il diritto dell’uomo in divenire di fronte all’egoismo
degli adulti – anche all’egoismo che nasce in un caso di necessità.
Qui occorre quell’incorruttibilità che riposa su una chiara visione
dell’essenza dell’uomo e dell’incondizionata obbligazione di
tutelarne la dignità. Il medico conosce più di ogni altro il dolore e
i casi urgenti della vita. Sa pure che il dolore e i casi urgenti degli
uomini sono d’altra natura di quelli degli animali, poiché l’uomo
è una persona inalienabile nella sua dignità spirituale,
insostituibile nella sua responsabilità eterna. Al medico è affidata
la situazione di malattia e di incompiutezza del singolo, non solo come
fenomeno psicofisico o come utente della pubblica assistenza, ma in
quanto contenuto della persona, del suo essere e della sua
conservazione. Perciò non deve mai fare come se la persona non fosse;
è piuttosto obbligato a proteggerla nell’ambito della sua competenza,
anche contro la pressione dei motivi in sé buoni ma che debbono
rimanere subordinati a ragioni superiori, prima di tutto
all’inviolabilità della persona.
___________________
In Italia, la conferenza di Romano Guardini del 1947 è stata edita
quest’anno dalla Morcelliana di Brescia nel VI volume, “Scritti
politici” (pp. 696, euro 50,00), degli Opera Omnia del filosofo e
teologo, in corso di pubblicazione a cura di Michele Nicoletti.
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