Un Anno della Fede a 50 anni dal Concilio.
Tra ermeneutiche in
conflitto
Pubblichiamo un estratto dell’Editoriale di «Fides Catholica» 2
(2011), in uscita. Il testo integrale apparirà nella rivista, corredato
dell’apparato scientifico.
L'Anno della Fede che inizierà ad ottobre 2012 è collegato in modo ideale dal
S. Padre anche all'inizio del Concilio Vaticano II, che è necessario
interpretarlo con una giusta ermeneutica, come ribadisce lo stesso Pontefice. Il
discorso attuale dei teologi sul Vaticano II è piuttosto variegato e a volte
anche contrastante. Recentemente si è registrato un intervento di don Pietro
Cantoni, volto, più che altro, a squalificare il tentativo teologico di
Gherardini, di fare un discorso sul Concilio. L'analisi di Cantoni è ben fondata
teologicamente? Non è forse il momento di affrontare i problemi reali del
Concilio, quali il giusto rapporto tra pastorale e dottrina, la continuità e la
discontinuità a livelli diversi, più che continuare solo a declamare la
continuità?
Il S. Padre ha indetto, con l’anniversario della solenne apertura del
Vaticano II, l’11 ottobre 2012, un Anno della fede, collegandolo idealmente
all’ultima assise conciliare. Il discorso ormai famoso di Benedetto XVI alla
Curia Romana, del 22 dicembre 2005, segnò, in verità, una vera svolta
nell’analisi del Concilio. Avviò una nuova disputa intorno al Concilio; un
confronto non più a senso unico col monopolio di una certa ermeneutica, ma un
dialogo a più voci, molte delle quali nuove e scevre di risentimenti o rancori
di sorta. L’ermeneutica giusta, al dire di Benedetto XVI in quel discorso, è la
«riforma», o «l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Una tale riforma
comporta continuità e discontinuità secondo livelli diversi: «È proprio in
questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la
natura della vera riforma», scrive il Pontefice. Continuità nei principi
dottrinali e discontinuità delle forme storico-contingenti, che facevano da
supporto a tali principi.
Guardando però più da vicino il Vaticano II e in modo globale, si nota una
riforma non solo delle forme storiche e sociali, come poteva essere ad esempio
la nuova concezione dello Stato moderno, tale da indurre la Chiesa a ripensare
la dottrina della libertà religiosa, rinunciando ad una religione di Stato, ma
anche una certa riforma della stessa dottrina: la stessa libertà religiosa, ad
esempio, da aspetto soggettivo come incoercibilità della coscienza nella sua
apertura alla verità, diventa invocazione oggettiva della medesima plausibilità
di tutte le religioni all’interno di uno Stato, in ragione del diritto alla
libertà religiosa, che deve diventare libertà di culto (cf. DH 1 in relazione a
DH 3 e 4): il livello soggettivo della libertà di coscienza diventa anche e
soprattutto oggettiva egualità sociale di tutte le religioni. Libertà religiosa
e libertà di culto sono, in verità, due elementi distinti. Se non le si
distingue, argomentandone la reciproca fondatezza nella verità, accade
facilmente che la prima venga negata e assorbita dalla seconda. La natura è
negata a favore del diritto. Si pensi all’Islam. E la risposta cattolica non può
essere semplicemente l’assicurazione di entrambe, ma solo la subordinazione
della libertà di culto alla libertà religiosa, radicando quest’ultima nella
coscienza morale in quanto aperta alla verità.
Una riforma, perciò, ha interessato anche le dottrine e questo principiando
non dalle dottrine ma dal modo di insegnarle, dalle forme storiche contingenti,
in primis, dalla forma espositiva e linguistica, ovvero da una nuova
metodologia, più pastorale ed ecumenica. Di fatto la dottrina – alcune dottrine
– è così “nuova”. L’accavallamento di soggettivo e oggettivo nella libertà
religiosa è un paradigma. Ma gli esempi riguardano anche altri ambiti come
l’ispirazione dei libri sacri, il rapporto Scrittura e Tradizione, la
Collegialità episcopale, il concetto di ecumenismo, che fa leva quasi
esclusivamente sul sacramento del Battesimo. Si è indubitabilmente di fronte ad
un insegnamento nuovo, che poi possa essere o meno in pieno collegamento con
l’insegnamento precedente è un altro problema, un secondo dato da analizzare.
Nel Vaticano II ciò che è da appurare anzitutto è che la continuità e la
discontinuità, secondo livelli diversi, si collocano sul piano del soggetto
docente e della dottrina insegnata, altrimenti si rischia solo di declamare la
continuità delle dottrine ma senza mai verificarla. Si rischia di voler
conservare col Vaticano II uno status quo nella Chiesa. Se così non fosse, se la
difficoltà ermeneutica cioè non ascendesse fino al rango degli asserti
magisteriali, del loro essere semplice sviluppo o piuttosto una nuova forma, una
ri-forma della dottrina cattolica, sarebbe già risolta tutta la difficoltà
ermeneutica, che invece è il vero rompicapo per valutare correttamente il
Vaticano II. Se la difficoltà ermeneutica non riguarda la dottrina di prima e
quella di dopo, cade la stessa necessità di un’ermeneutica giusta per appurarne
la continuità: questa sarebbe semplicemente evidente.
A nostro giudizio, c’è una nuova forma della dottrina cattolica, che nasce da
un binomio tipico del Concilio, non sempre così chiaro – di qui la difficoltà –
di dottrinarietà e pastoralità: queste due facce a volte si sovrappongono, a
volte si interscambiano. Un solo esempio lampante: in nome del dialogo ecumenico
si volle una dottrina sulla Divina Rivelazione che lasciasse insoluto il
problema dell’insufficienza materiale delle Scritture; al dire di Florit né lo
si affermava né lo si negava, anche se il magistero ordinario nei catechismi
aveva appurato definitivamente che non tutte le verità, oltre al canone sacro,
sono contenute nella Scrittura.
Il problema ermeneutico del Vaticano II implica 3 aspetti distinti:
- nel concilio ci sono delle dottrine nuove;
- queste sono uno sviluppo e/o ri-forma delle dottrine classiche;
- il grado dell’asserto magisteriale delle dottrine conciliari.
A questo punto come coordinare continuità e discontinuità? La domanda, in
modo frettoloso, viene anche formulata così: il Vaticano II è o non è in
continuità con il magistero precedente? La domanda però va oltre la mera e
scontata asserzione dell’autenticità del 21° concilio della Chiesa rispetto ai
20 precedenti. Se ciò non fosse presupposto sarebbe inutile anche la domanda. La
si deve perciò collocare in un substrato teologico molto più sottile, lì dove si
nasconde il vero problema: in che modo il magistero del Vaticano II si colloca
in continuità con quello precedente? Dove si coglie la continuità? Fino ad oggi,
a cinquant’anni dal Vaticano II, una delle soluzioni che trova più favore,
perché forse mai preso di vista in modo scientifico il vero problema, se non
grazie al grido d’allarme di Gherardini, è quella secondo cui la continuità è
garantita dal magistero stesso: per il fatto che siamo dinanzi ad un’asserzione
del Vaticano II, dunque del magistero solenne, abbiamo la continuità.
Fondamentalmente questa è la posizione di P. Giovanni Cavalcoli e, di recente,
di don Pietro Cantoni. Il magistero diventa così ragione di se stesso.
Ma in questo modo non si dà ragione delle effettive “riforme” del Vaticano
II, che si leggono per la libertà religiosa, confrontando la visione
ecclesiologica di Pio XII e quella del Vaticano II, per la collegialità del
Vaticano II quale “perfezionamento” del primato petrino nel Vaticano I. Come
intendere questo perfezionamento? Basta esporre una nuova dottrina o invece è
necessario radicarla nella Tradizione della Chiesa?
Il problema “cuore”, dunque, è coordinare continuità e discontinuità secondo
livelli differenti, in modo da leggere una nuova dottrina insegnata dal
medesimo
soggetto. È proprio qui il nodo: la continuità è assicurata dall’unico soggetto
che insegna, il magistero, che però non si identifica con la Chiesa e con
l’infallibilità totale di essa, rimanendo questa più ampia e includendo ad
esempio il sensus fidei del Popolo credente, dunque un’infallibilità in credendo
che precede e fonda quella in docendo. È necessario radicare in modo assoluto,
oggi più che mai, l’infallibilità del magistero, nelle Verità credute
infallibilmente per mezzo della fede, per evitare di scadere in una visione
meramente “burocratica”, in cui il soggetto docente diventerebbe l’ultima
ragione del porsi della verità stessa. Ci sarà sempre un Küng che potrà inveire
contro il monopolio del “potere romano”, dimenticando che la gerarchia è
un’origine sacra, scende dall’alto quale munus, ministero, servizio alla Verità.
La discontinuità invece riguarda fondamentalmente due cose:
- la nuova forma che assume il magistero nell’ultimo Concilio: un magistero fontalmente pastorale. Infallibile quando? Sempre, o non piuttosto solo quando
reitera il dato di fede definitivo? Un magistero solenne/straordinario quanto
alla forma ma ordinario autentico quanto all’effettivo esercizio;
- i nuovi contenuti, le nuove dottrine. Negare infatti che ci siano delle
dottrine nuove e che siano una ri-forma rispetto a quelle di prima, significa
non vedere il Vaticano II. Il magistero può insegnare delle dottrine nuove, ma
non per il fatto che le insegna sono (automaticamente) infallibili. Non
infallibili poi non significa per sé erronee, ma solo non definitive. La
non-infallibilità è un giudizio di valore sul grado magisteriale di cui è
rivestita (dal magistero) la dottrina insegnata. L’errore è un giudizio logico
che si dà ad una proposizione quanto alla sua conformità o meno al vero.
Confondere errore (molto spesso tradotto con fallibilità) con non-infallibilità
è un’operazione contraria alla logica e alla teologia.
Il problema c’è, ed è soprattutto di ermeneutica del magistero conciliare in
quanto tale, e quindi delle dottrine. Così si presenta, a nostro giudizio,
nell’insieme del quadro ermeneutico, un altro aspetto da non trascurare: quale
ermeneutica teologica è necessaria per il magistero del Vaticano II? Purtroppo,
non abbiamo una categoria per un’ermeneutica dell’aggiornamento magisteriale. Il
Concilio volle essere un aggiornamento, ma come capire l’aggiornamento? Basta
rispondere: con il magistero?
Alle tesi di Gherardini ha risposto in modo infuocato e con un fare quasi
comminatorio di scomunica Don Pietro Cantoni. L’analisi di Cantoni, a nostro
giudizio, sorvola il vero problema, e ci lascia amareggiati per il modo in cui
tutto il libro viene organizzato: una stroncatura di una persona, mentre avrebbe
potuto offrire, mostrando anche le reticenze, un valido contributo alla ricerca
ermeneutica sul Vaticano II. Si condanna con la persona non solo una soluzione
ma lo stesso problema. Di seguito ci concentreremo sui passaggi salienti di
Cantoni in obiezione a Gherardini, onde scorgere i punti più delicati di questo
proficuo dibattito.
Tutto l’impianto di Cantoni è fondamentalmente basato su questo concetto:
Gherardini scredita il magistero conciliare; invece di mostrarne la continuità
con quello precedente, assume un atteggiamento lefebvriano mostrandone la
rottura, atteggiamento in antitesi con la Scuola Romana, del resto, sua eredità
teologica. Gherardini sarebbe caduto in un sorta di “manualismo”, e il vero
argomento per scongiurare ciò è l’accettazione del magistero, visto come
soggetto docente più che come dottrina insegnata. Scrive Cantoni:
«Se il concilio ecumenico Vaticano II appare a qualcuno problematico,
erroneo, perlomeno confuso, è proprio perché è letto in un’ottica sbagliata. Si
tratta di quella “teologia manualistica” che – a contatto con il concilio – non
ha retto, ma è andata in frantumi. Non è il concilio che è poco chiaro, è la
teologia con cui è interpretato che è tale».
Ma sarà proprio con i grandi manuali dei teologi romani che Cantoni cerca di
far vedere le contraddizioni di Gherardini nella sua critica al magistero del
Concilio. E sono gli stessi teologi romani, con i loro manuali, ai quali si
appella Gherardini quando spiega il concetto di Tradizione: quel quod ubique
quod semper quod ab omnibus creditum est, che, quale regola aurea, è principio
di ogni sviluppo omogeneo della dottrina cattolica, quanto alla sua accresciuta
comprensione, dove Scrittura e Tradizione sono la norma remota della fede,
mentre il Magistero è la norma prossima.
Il problema dei manuali che non reggono al confronto col Vaticano II viene
corretto da Cantoni col fare appello all’autorità magisteriale, che a suo modo
di vedere,
«è di carattere carismatico, non “epistemico”, è la sua stessa proposizione
che garantisce della sua continuità con la Tradizione, perché è essa stessa
componente e componente costitutiva e formale di questa stessa Tradizione, e
costituisce quindi per il teologo un fatto a partire dal quale condurre la sua
indagine».
Questa affermazione è del tutto nuova. Significa scindere nell’organo
magisteriale il soggetto docente dall’oggetto dell’insegnamento, sia materiale
che formale. Se la si esaspera si potrà arrivare a trarre dal magistero ogni
possibile conclusione. Il magistero stesso non sarà più vincolato da res fidei
et morum e potrebbe diventare fautore anche di una nuova Rivelazione. Il che è
impossibile. Nel magistero ecclesiastico bisogna considerare unitamente e
distintamente: il soggetto attivo che insegna (il Papa e il Collegio dei
vescovi), l’oggetto materiale (la verità rivelata) e l’oggetto formale
(l’autorità del magistero, che ammette diversi gradi). Dei Verbum al n. 9
precisa i confini del magistero, che non sono dati da se stesso, ma dalla
Scrittura e dalla Tradizione:
«Il … magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve,
insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e
con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e
fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge
tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».
Questa visione “carismatica” del magistero favorisce in Cantoni anche il
tentativo di dedurre dal Vaticano II, come teologi privati o come fedeli, delle
conclusioni irrinunciabili (infallibili), o almeno una dottrina «davanti alla
quale non si può assolutamente escludere a priori che qualcosa sia infallibile».
Cosa sia infallibile Cantoni non lo dice. Dice però, col sostegno del p. U.
Betti, che,
«mentre a Trento e al Vaticano I i capitoli trovavano per lo più (ma non
sempre…) nei canoni la conclusione perentoria del loro discorso, qui questa
formulazione – che sarebbe infallibile in se stessa nella sua propria
formulazione – manca per dichiarata scelta dell’autorità. Nulla però impedisce
che una tale conclusione venga tirata dal teologo e dal fedele».
Tralasciamo l’allusione ai fedeli, sovraccaricati di un lavoro veramente
immane. Spetta al teologo trarre le conclusione dogmatiche dai documenti del
Vaticano II? E così appurarne l’infallibilità, almeno in qualche sua parte? Qui
Cantoni scambia ciò che spetta propriamente al magistero, e cioè dichiarare una
dottrina come definitiva, con l’opera della teologia, per quanto riguarda invece
le “note teologiche”. Cosa può fare il teologo, o meglio, cosa possono fare i
teologi? Non fa testo il singolo, ma è necessaria l’unanimità, analogicamente ai
Padri.
È bene rivisitare a questo proposito il Commentarius al cap. VII “De
Ecclesiae Magisterio”, dello schema preparatorio De Ecclesia, che a sua volta
tiene conto del Votum Universitatis Lateranensis de necessitudine inter
Magisterium Ecclesiae et sacram theologiam. Qui si distingueva due classi,
ovvero due categorie dottrinali teologiche: la «doctrina certa» e le «sententiae
theologicae», dove è richiesta, per entrambe, la partecipazione dei teologi e
l’antichità e la reiterazione della dottrina: un «communi costanti consensu» e
le «venerandae theologicae traditioni». Tutto questo si riscontra tra i teologi
per quanto riguarda le dottrine (nuove) del Vaticano II? A tutt’oggi non sembra.
Cantoni giustifica il lavoro del teologo in ragione dell’infallibilità del
magistero ordinario e universale, secondo quanto dice il Vaticano I.
Circa il magistero ordinario universale, sembra che Cantoni alluda ad
un’universalità solamente de facto, la quale basterebbe a rendere infallibile
l’asserto magisteriale del Vaticano II o almeno intoccabile e da accettare
indiscutibilmente. Gherardini violenterebbe questa infallibilità/indiscutibilità
di dottrine, a cui Cantoni con Scheeben dà la qualifica di “doctrina catholica”.
Qui rileviamo due elementi. La qualifica di “doctrina catholica”, genericamente
intesa, ci sembra alquanto sovrabbondante per il Vaticano II. La si attribuisce
al Concilio come unicum magisteriale o alle singole dottrine? A tutti i
documenti o solo alle Costituzioni dogmatiche? Cantoni tiene veramente conto
dell’intenzione dei Padri nel redigere i documenti, in ragione della quale
appurare la qualificazione della dottrina di ogni singolo documento? Se al
Concilio come unicum risulta deficitaria perché il Vaticano II insegna in alcuni
contesti in modo solenne e definitivo, ad esempio quando il Concilio utilizza
l’espressione «docet Sacra Synodus» (LG 20), o «docet autem Sancta Synodus» (LG
21), o in altri insegnamenti introdotti dalla parola «credimus» o anche
«creditur» (cf. LG 39; UR 3 e 4). Se invece alle singole nuove dottrine, qui sì
che si vede ampiamente la sovrabbondanza: come si può attribuire sic et
simpliciter una tale qualifica teologica a delle dottrine, in buona parte,
ancora discusse dai teologi (si pensi particolarmente alla collegialità
episcopale: il Papa e il Collegio sono due soggetti inadequatae distinctum?), e
talvolta richiedenti un ulteriore intervento chiarificatore del Magistero stesso
(si pensi alla questione del subsistit in)?; a dottrine cioè insegnate dal
magistero ordinario ed universale (impropriamente “ordinario universale” perché
qui si tratta di un raduno in un concilio, quindi di un magistero straordinario
o solenne), senza che però venga dichiarata la loro definitività? Non è
sufficiente, infatti, che ci sia un magistero ordinario ed universale (il
collegio dei Vescovi sparso nel mondo che concorda con il suo Capo) perché la
dottrina sia doctrina catholica (certa), ovvero definitivamente insegnata dalla
Chiesa, muovendo verso il proximae fidei (è in questa direzione che va la
qualificazione di Scheeben): è invece indispensabile che sia altresì insegnata
tamquam definitive tenendam.
Il testo della Costituzione dogmatica Dei Filius, del Vaticano I, a cui
Cantoni si appella, recita così:
«Si devono credere con fede cattolica e divina tutte quelle cose che sono
contenute nella Parola di Dio, scritta o trasmessa, e tramite un giudizio
solenne, o il suo magistero ordinario universale, vengono proposte alla chiesa
come divinamente rivelate e, in quanto tali, da credersi» (cf. DH 3011, a cui
faceva già riferimento il b. Pio IX nella Tuas libenter, del 21.12.1863).
Qui è detto che il magistero ordinario universale è infallibile per sé?
Certamente non espressamente, ma vien detto che è necessario proporre alla
Chiesa le verità come divinamente rivelate. Per rispondere a questa domanda,
comunque, è necessario leggere il testo del Vaticano I alla luce di Lumen gentium 25, che recita:
«Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa
dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando
il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano
per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si
impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di
Cristo».
Quel «si impone in maniera assoluta», che suona teologicamente molto povero
nel nostro italiano, in latino invece esprime la giusta qualificazione teologica
della dottrina ordinaria universale ed irreformabile: «[…] in unam sententiam
tamquam definitive tenendam conveniunt, doctrinam Christi infallibiliter
enuntiant».
Una tale spiegazione era già offerta da uno dei manuali più importanti
nell’immediata preparazione al Vaticano II, quello del gesuita J. Salaverri, il
quale spiegava la definitività del magistero ordinario universale in questo
modo:
«I vescovi insegnano una dottrina da ritenersi come definitiva quando, con il
sommo grado della loro autorità, obbligano i fedeli a dare ad essa un assenso
irrevocabile».
Crediamo che qui il vero problema dell’analisi di Cantoni consista
nell’appoggiarsi a Scheeben che, quantunque autore sicurissimo e validissimo,
non ha conosciuto il Vaticano II, concilio con una natura e un fine diversi da
Trento e dal Vaticano I, e al p. Betti, sostanzialmente isolato nella sua
visione massimalista dei documenti (della Costituzione Lumen gentium) del
Vaticano II.
La tesi del “magistero carismatico” non risolve il problema di un magistero a
più livelli all’interno dello stesso corpo conciliare, di una nuova forma
dell’insegnamento conciliare, di nuove dottrine il cui grado di autorità non è
una ricetta fissa, ma va scorto in un lavoro di ricerca della mens conciliare
nelle intenzioni dei Padri.
Della complessità del problema se ne era accorto anche l’acuto K. Barth, il
quale, tra le varie domande poste a Roma, analizzate egregiamente da Gherardini,
chiedeva:
«Il Vaticano II è stato un Concilio di riforma (la cosa è discussa!)? Che
cosa significa aggiornamento? Aggiornamento in base ed in vista di che? Si è
trattato: a) del rinnovamento, teoretico pratico, dell’autocoscienza della
Chiesa alla luce della Rivelazione che ne costituisce il fondamento? oppure b)
del rinnovamento del suo pensiero della sua predicazione, del suo operare oggi
alla luce del mondo moderno?».
È ancora difficile rispondere a queste domande. Un Anno della fede però
potrebbe essere l’occasione propizia.
p. Serafino M. Lanzetta, FI