Ioannes Paulus PP. II
Evangelium vitae
25 marzo 1995
Ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici e
a tutte le persone di buona volontà sul valore e l'inviolabilità della vita umana
INTRODUZIONE torna
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1. Il
Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù. Accolto dalla Chiesa ogni giorno con amore, esso va annunciato
con coraggiosa fedeltà come buona novella agli uomini di ogni epoca e cultura.
All'aurora della salvezza, è la nascita di un
bambino che viene proclamata come lieta notizia: «Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi
è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2, 10-11). A sprigionare questa «grande
gioia» è certamente la nascita del Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita umana, e
la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16, 21).
Presentando il nucleo centrale della sua missione
redentrice, Gesù dice: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). In
verità, Egli si riferisce a quella vita «nuova» ed «eterna», che consiste nella comunione con il Padre, a cui
ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale «vita»
acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell'uomo.
Il valore incomparabile della persona umana
2. L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va
ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio.
L'altezza di questa vocazione soprannaturale rivela
la grandezza e la preziosità della vita umana anche nella sua fase temporale. La vita nel tempo,
infatti, è condizione basilare, momento iniziale e parte integrante dell'intero e unitario processo dell'esistenza
umana. Un processo che, inaspettatamente e immeritatamente, viene illuminato dalla promessa e rinnovato dal dono della
vita divina, che raggiungerà il suo pieno compimento nell'eternità (cf. 1 Gv 3, 1-2). Nello stesso tempo,
proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena dell'uomo e della donna.
Essa, in verità, non è realtà «ultima», ma «penultima»; è comunque realtà sacra che ci viene affidata
perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell'amore e nel dono di noi stessi a
Dio e ai fratelli.
La Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatole
dal suo Signore,1 ha un'eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona,
credente e anche non credente, perché esso, mentre ne supera infinitamente le attese, vi corrisponde in modo
sorprendente. Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce
della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta
nel cuore (cf. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad
affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento
di tale diritto si fonda l'umana convivenza e la stessa comunità politica.
Questo diritto devono, in modo particolare, difendere
e promuovere i credenti in Cristo, consapevoli della meravigliosa verità ricordata dal Concilio Vaticano II: «Con
l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo».2 In
questo evento di salvezza, infatti, si rivela all'umanità non solo l'amore sconfinato di Dio che «ha tanto amato il
mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16), ma anche il valore incomparabile di ogni persona umana.
E la Chiesa, scrutando assiduamente il mistero della
Redenzione, coglie questo valore con sempre rinnovato stupore 3 e si sente
chiamata ad annunciare agli uomini di tutti i tempi questo «vangelo», fonte di speranza invincibile e di gioia vera
per ogni epoca della storia. Il Vangelo dell'amore di Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e il
Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo.
È per questo che l'uomo, l'uomo vivente, costituisce
la prima e fondamentale via della Chiesa.4
Le
nuove minacce alla vita umana
3. Ciascun uomo, proprio a motivo del mistero
del Verbo di Dio che si è fatto carne (cf. Gv 1, 14), è affidato alla sollecitudine materna della Chiesa.
Perciò ogni minaccia alla dignità e alla vita dell'uomo non può non ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa,
non può non toccarla al centro della propria fede nell'incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può non
coinvolgerla nella sua missione di annunciare il Vangelo della vita in tutto il mondo e ad ogni creatura (cf. Mc
16, 15).
Oggi questo annuncio si fa particolarmente urgente
per l'impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto
quando essa è debole e indifesa. Alle antiche dolorose piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche,
della violenza e delle guerre, se ne aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle dimensioni inquietanti.
Già il Concilio Vaticano II, in una pagina di
drammatica attualità, ha deplorato con forza molteplici delitti e attentati contro la vita umana. A trent'anni di
distanza, facendo mie le parole dell'assise conciliare, ancora una volta e con identica forza li deploro a nome della
Chiesa intera, con la certezza di interpretare il sentimento autentico di ogni coscienza retta: «Tutto ciò che è
contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio
volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e
alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le
condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il
mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro con le quali i lavoratori sono
trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre
simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, inquinano coloro che così si comportano
ancor più che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l'onore del Creatore».5
4. Purtroppo, questo inquietante panorama,
lungi dal restringersi, si va piuttosto dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e
tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell'essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova
situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più
iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell'opinione pubblica giustificano alcuni delitti
contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l'impunità,
ma persino l'autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l'intervento
gratuito delle strutture sanitarie.
Ora, tutto questo provoca un cambiamento profondo nel
modo di considerare la vita e le relazioni tra gli uomini. Il fatto che le legislazioni di molti Paesi, magari
allontanandosi dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni, abbiano acconsentito a non punire o addirittura
a riconoscere la piena legittimità di tali pratiche contro la vita è insieme sintomo preoccupante e causa non
marginale di un grave crollo morale: scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune
senso morale, diventano a poco a poco socialmente rispettabili. La stessa medicina, che per sua vocazione è ordinata
alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi settori si presta sempre più largamente a realizzare questi
atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce la dignità di quanti la
esercitano. In un simile contesto culturale e legale, anche i gravi problemi demografici, sociali o familiari, che
pesano su numerosi popoli del mondo ed esigono un'attenzione responsabile ed operosa delle comunità nazionali e di
quelle internazionali, si trovano esposti a soluzioni false e illusorie, in contrasto con la verità e il bene delle
persone e delle Nazioni.
L'esito al quale si perviene è drammatico: se è
quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell'eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto,
non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti,
fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore
della vita umana.
In comunione con tutti i Vescovi del mondo
5. Al problema delle minacce alla vita umana
nel nostro tempo è stato dedicato il Concistoro straordinario dei Cardinali, svoltosi a Roma dal 4 al 7 aprile
1991. Dopo un'ampia e approfondita discussione del problema e delle sfide poste all'intera famiglia umana e, in
particolare, alla comunità cristiana, i Cardinali, con voto unanime, mi hanno chiesto di riaffermare con l'autorità
del Successore di Pietro il valore della vita umana e la sua inviolabilità, in riferimento alle attuali circostanze
ed agli attentati che oggi la minacciano.
Accogliendo tale richiesta, ho scritto nella
Pentecoste del 1991 una lettera personale a ciascun Confratello perché, nello spirito della collegialità
episcopale, mi offrisse la sua collaborazione in vista della stesura di uno specifico documento.6
Sono profondamente grato a tutti i Vescovi che hanno risposto, fornendomi preziose informazioni, suggerimenti e
proposte. Essi hanno testimoniato anche così la loro unanime e convinta partecipazione alla missione dottrinale e
pastorale della Chiesa circa il Vangelo della vita.
Nella medesima lettera, a pochi giorni dalla
celebrazione del centenario dell'Enciclica Rerum novarum, attiravo l'attenzione di tutti su questa singolare
analogia: «Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con
grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando
un'altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con
immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti
sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti umani».7
Ad essere calpestata nel diritto fondamentale alla
vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora
nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era consentito tacere davanti alle ingiustizie allora
operanti, meno ancora essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo non ancora
superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni anche più gravi, magari scambiate per
elementi di progresso in vista dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale.
La presente Enciclica, frutto della collaborazione
dell'Episcopato di ogni Paese del mondo, vuole essere dunque una riaffermazione precisa e ferma del valore della
vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di
Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia,
sviluppo, libertà vera, pace e felicità!
Giungano queste parole a tutti i figli e le figlie
della Chiesa! Giungano a tutte le persone di buona volontà, sollecite del bene di ogni uomo e donna e del destino
dell'intera società!
6. In profonda comunione con ogni fratello e sorella
nella fede e animato da sincera amicizia per tutti, voglio rimeditare e annunciare il Vangelo della vita, splendore
di verità che illumina le coscienze, limpida luce che risana lo sguardo ottenebrato, fonte inesauribile di costanza e
coraggio per affrontare le sempre nuove sfide che incontriamo sul nostro cammino.
E mentre ripenso alla ricca esperienza vissuta
durante l'Anno della Famiglia, quasi completando idealmente la Lettera da me indirizzata «ad ogni famiglia
concreta di qualunque regione della terra»,8 guardo con rinnovata fiducia a
tutte le comunità domestiche ed auspico che rinasca o si rafforzi ad ogni livello l'impegno di tutti a sostenere la
famiglia, perché anche oggi — pur in mezzo a numerose difficoltà e a pesanti minacce — essa si conservi sempre,
secondo il disegno di Dio, come «santuario della vita».9
A tutti i membri della Chiesa, popolo della vita e
per la vita, rivolgo il più pressante invito perché, insieme, possiamo dare a questo nostro mondo nuovi segni di
speranza, operando affinché crescano giustizia e solidarietà e si affermi una nuova cultura della vita umana, per
l'edificazione di un'autentica civiltà della verità e dell'amore.
CAPITOLO
I torna
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LA
VOCE DEL SANGUE DI TUO FRATELLO GRIDA A ME DAL SUOLO
LE ATTUALI MINACCE ALLA VITA UMANA
«Caino alzò la mano contro il fratello
Abele e lo uccise» (Gn 4, 8): alla radice della violenza
contro la vita.
7. «Dio non ha creato la morte e non gode per la
rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì,
Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine
della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per
invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono»
(Sap 1, 13-14; 2, 23-24).
Il Vangelo della vita, risuonato al
principio con la creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di
vita piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9, 2-3), viene
contraddetto dall'esperienza lacerante della morte che entra nel
mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera esistenza dell'uomo.
La morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3, 1.4-5) e del peccato dei progenitori
(cf. Gn 2,
17; 3, 17-19). E vi entra in modo violento, attraverso l'uccisione di
Abele da parte del fratello Caino: «Mentre erano in campagna, Caino
alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8).
Questa prima uccisione è presentata con una
singolare eloquenza in una pagina paradigmatica del libro della Genesi:
una pagina ritrascritta ogni giorno, senza sosta e con avvilente
ripetizione, nel libro della storia dei popoli.
Vogliamo rileggere insieme questa pagina biblica,
che, pur nella sua arcaicità ed estrema semplicità, si presenta quanto
mai ricca di insegnamenti.
«Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore
del suolo. Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in
sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e
il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì
Caino e la sua offerta.
Caino ne fu molto irritato e il suo volto era
abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: "Perché sei irritato e
perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse
tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua
porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala".
Caino disse al fratello Abele: "Andiamo in
campagna!". Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il
fratello Abele e lo uccise.
Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è
Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il
guardiano di mio fratello?". Riprese: "Che hai fatto? La voce
del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi
da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo
fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi
prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra".
Disse Caino al Signore: "Troppo grande è
la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e
io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco
sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere".
Ma il Signore gli disse: "Però chiunque
ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!". Il Signore
impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse
incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod,
ad oriente di Eden» (Gn 4, 2-16).
8. Caino è «molto irritato» e ha il volto «abbattuto»
perché «il Signore gradì Abele e la sua offerta» (Gn 4, 4).
Il testo biblico non rivela il motivo per cui Dio preferisce il
sacrificio di Abele a quello di Caino; indica però con chiarezza che,
pur preferendo il dono di Abele, non interrompe il suo dialogo con
Caino. Lo ammonisce ricordandogli la sua libertà di fronte al
male: l'uomo non è per nulla un predestinato al male. Certo, come
già Adamo, egli è tentato dalla potenza malefica del peccato che, come
bestia feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in attesa di
avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al peccato. Lo
può e lo deve dominare: «Verso di te è la sua bramosia, ma tu
dominala!» (Gn 4, 7).
Sull'ammonimento del Signore hanno il
sopravvento la gelosia e l'ira, e così Caino s'avventa sul proprio
fratello e lo uccide. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, «la Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da
parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la
presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del
peccato originale. L'uomo è diventato il nemico del suo simile».10
Il fratello uccide il fratello. Come nel
primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela «spirituale»,
che accomuna gli uomini in un'unica grande famiglia,11
essendo tutti partecipi dello stesso bene fondamentale: l'uguale dignità
personale. Non poche volte viene violata anche la parentela «della
carne e del sangue», ad esempio quando le minacce alla vita si
sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto
o quando, nel più vasto contesto familiare o parentale, viene favorita
o procurata l'eutanasia.
Alla radice di ogni violenza contro il prossimo c'è
un cedimento alla «logica» del maligno, cioè di colui che «è
stato omicida fin da principio» (Gv 8, 44), come ci ricorda
l'apostolo Giovanni: «Poiché questo è il messaggio che avete udito
fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che
era dal maligno e uccise il suo fratello» (1 Gv 3, 11-12). Così
l'uccisione del fratello, fin dagli albori della storia, è la triste
testimonianza di come il male progredisca con rapidità impressionante:
alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso terrestre si accompagna
la lotta mortale dell'uomo contro l'uomo.
Dopo il delitto, Dio interviene a vendicare
l'ucciso. Di fronte a Dio, che lo interroga sulla sorte di Abele,
Caino, anziché mostrarsi impacciato e scusarsi, elude la domanda con
arroganza: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn
4, 9). «Non lo so»: con la menzogna Caino cerca di coprire
il delitto. Così è spesso avvenuto e avviene quando le più diverse
ideologie servono a giustificare e a mascherare i più atroci delitti
verso la persona. «Sono forse io il guardiano di mio fratello?»:
Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere quella
responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene spontaneo pensare
alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo
simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà
verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli
ammalati, gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso si
registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori
fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace.
9. Ma Dio non può lasciare impunito il delitto:
dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che
Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez 24,
7-8). Da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di «peccati
che gridano vendetta al cospetto di Dio» e vi ha incluso, anzitutto,
l'omicidio volontario.12
Per gli ebrei, come per molti popoli dell'antichità, il sangue è la
sede della vita, anzi «il sangue è la vita» (Dt 12, 23) e la
vita, specie quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi
attenta alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso.
Caino è maledetto da Dio e anche dalla
terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf. Gn 4, 11-12). Ed è punito:
abiterà nella steppa e nel deserto. La violenza omicida cambia
profondamente l'ambiente di vita dell'uomo. La terra da «giardino di
Eden» (Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni
interpersonali e di amicizia con Dio, diventa «paese di Nod» (Gn 4,
16), luogo della «miseria», della solitudine e della lontananza da
Dio. Caino sarà «ramingo e fuggiasco sulla terra» (Gn 4, 14):
incertezza e instabilità lo accompagneranno sempre.
Dio, tuttavia, sempre misericordioso anche quando
punisce, «impose a Caino un segno, perché non lo colpisse
chiunque l'avesse incontrato» (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un
contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all'esecrazione degli
altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno
ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure
l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa
garante. Ed è proprio qui che si manifesta il paradossale mistero
della misericordiosa giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio: «Poiché
era stato commesso un fratricidio, cioè il più grande dei crimini, nel
momento in cui si introdusse il peccato, subito dovette essere estesa la
legge della misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito
immediatamente il colpevole, non accadesse che gli uomini, nel punire,
non usassero alcuna tolleranza né mitezza, ma consegnassero
immediatamente al castigo i colpevoli. (...) Dio respinse Caino dal suo
cospetto e, rinnegato dai suoi genitori, lo relegò come nell'esilio di
una abitazione separata, per il fatto che era passato dall'umana mitezza
alla ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle punire l'omicida con un
omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua
morte».13
«Che hai fatto?» (Gn 4, 10): l'eclissi
del valore della vita
10. Il Signore disse a Caino: «Che hai fatto? La
voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn 4,
10). La voce del sangue versato dagli uomini non cessa di gridare, di
generazione in generazione, assumendo toni e accenti diversi e sempre
nuovi.
La domanda del Signore «Che hai fatto?», alla
quale Caino non può sfuggire, è rivolta anche all'uomo contemporaneo
perché prenda coscienza dell'ampiezza e della gravità degli attentati
alla vita da cui continua ad essere segnata la storia dell'umanità;
vada alla ricerca delle molteplici cause che li generano e li
alimentano; rifletta con estrema serietà sulle conseguenze che derivano
da questi stessi attentati per l'esistenza delle persone e dei popoli.
Alcune minacce provengono dalla natura stessa, ma
sono aggravate dall'incuria colpevole e dalla negligenza degli uomini
che non raramente potrebbero porvi rimedio; altre invece sono il frutto
di situazioni di violenza, di odi, di contrapposti interessi, che
inducono gli uomini ad aggredire altri uomini con omicidi, guerre,
stragi, genocidi.
E come non pensare alla violenza che si fa alla
vita di milioni di esseri umani, specialmente bambini, costretti alla
miseria, alla sottonutrizione e alla fame, a causa di una iniqua
distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le classi sociali? o alla
violenza insita, prima ancora che nelle guerre, in uno scandaloso
commercio delle armi, che favorisce la spirale dei tanti conflitti
armati che insanguinano il mondo? o alla seminagione di morte che si
opera con l'inconsulto dissesto degli equilibri ecologici, con la
criminale diffusione della droga o col favorire modelli di esercizio
della sessualità che, oltre ad essere moralmente inaccettabili, sono
anche forieri di gravi rischi per la vita? È impossibile registrare in
modo completo la vasta gamma delle minacce alla vita umana, tante sono
le forme, aperte o subdole, che esse rivestono nel nostro tempo!
11. Ma la nostra attenzione intende concentrarsi,
in particolare, su un altro genere di attentati, concernenti la
vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al
passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che
tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di «delitto»
e ad assumere paradossalmente quello del «diritto», al punto che se ne
pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato
e la successiva esecuzione mediante l'intervento gratuito degli stessi
operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in
situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di
difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono
consumati proprio all'interno e ad opera di quella famiglia che
costitutivamente è invece chiamata ad essere «santuario della vita».
Come s'è potuta determinare una simile situazione?
Occorre prendere in considerazione molteplici fattori. Sullo sfondo c'è
una profonda crisi della cultura, che ingenera scetticismo sui
fondamenti stessi del sapere e dell'etica e rende sempre più difficile
cogliere con chiarezza il senso dell'uomo, dei suoi diritti e dei suoi
doveri. A ciò si aggiungono le più diverse difficoltà esistenziali e
relazionali, aggravate dalla realtà di una società complessa, in cui
le persone, le coppie, le famiglie rimangono spesso sole con i loro
problemi. Non mancano situazioni di particolare povertà, angustia o
esasperazione, in cui la fatica della sopravvivenza, il dolore ai limiti
della sopportabilità, le violenze subite, specialmente quelle che
investono le donne, rendono le scelte di difesa e di promozione della
vita esigenti a volte fino all'eroismo.
Tutto ciò spiega, almeno in parte, come il valore
della vita possa oggi subire una specie di «eclissi», per quanto la
coscienza non cessi di additarlo quale valore sacro e intangibile, come
dimostra il fatto stesso che si tende a coprire alcuni delitti contro la
vita nascente o terminale con locuzioni di tipo sanitario, che
distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto all'esistenza
di una concreta persona umana.
12. In realtà, se molti e gravi aspetti
dell'odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il
clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la
responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte a una
realtà più vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura
di peccato, caratterizzata dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera «cultura
di morte». Essa è attivamente promossa da forti correnti culturali,
economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica
della società.
Guardando le cose da tale punto di vista, si può,
in certo senso, parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la
vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta
inutile, o è considerata come un peso insopportabile e, quindi, è
rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo
handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette
in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più
avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o
da eliminare. Si scatena così una specie di «congiura contro la
vita». Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro rapporti
individuali, familiari o di gruppo, ma va ben oltre, sino ad intaccare e
stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati.
13. Per facilitare la diffusione dell'aborto, si
sono investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate alla
messa a punto di preparati farmaceutici, che rendono possibile
l'uccisione del feto nel grembo materno, senza la necessità di
ricorrere all'aiuto del medico. La stessa ricerca scientifica, su questo
punto, sembra quasi esclusivamente preoccupata di ottenere prodotti
sempre più semplici ed efficaci contro la vita e, nello stesso tempo,
tali da sottrarre l'aborto ad ogni forma di controllo e responsabilità
sociale.
Si afferma frequentemente che la contraccezione,
resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace
contro l'aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto
l'aborto perché continua ostinatamente a insegnare l'illiceità morale
della contraccezione.
L'obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa. Può
essere, infatti, che molti ricorrano ai contraccettivi anche
nell'intento di evitare successivamente la tentazione dell'aborto. Ma i
disvalori insiti nella «mentalità contraccettiva» — ben diversa
dall'esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel
rispetto della piena verità dell'atto coniugale — sono tali da
rendere più forte proprio questa tentazione, di fronte all'eventuale
concepimento di una vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista
è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano
l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Certo, contraccezione
ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente
diversi: l'una contraddice all'integra verità dell'atto sessuale
come espressione propria dell'amore coniugale, l'altro distrugge la vita
di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della castità
matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola
direttamente il precetto divino «non uccidere».
Ma pur con questa diversa natura e peso morale,
essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima
pianta. È vero che non mancano casi in cui alla contraccezione e allo
stesso aborto si giunge sotto la spinta di molteplici difficoltà
esistenziali, che tuttavia non possono mai esonerare dallo sforzo di
osservare pienamente la Legge di Dio. Ma in moltissimi altri casi tali
pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e
deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un
concetto egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo
al dispiegarsi della propria personalità. La vita che potrebbe
scaturire dall'incontro sessuale diventa così il nemico da evitare
assolutamente e l'aborto l'unica possibile risposta risolutiva di fronte
ad una contraccezione fallita.
Purtroppo la stretta connessione che, a livello di
mentalità, intercorre tra la pratica della contraccezione e quella
dell'aborto emerge sempre di più e lo dimostra in modo allarmante anche
la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi intrauterini e di
vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei contraccettivi,
agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della
vita del nuovo essere umano.
14. Anche le varie tecniche di riproduzione
artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che
sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono
la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto che esse
sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la
procreazione dal contesto integralmente umano dell'atto coniugale,14
queste tecniche registrano alte percentuali di insuccesso: esso riguarda
non tanto la fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell'embrione,
esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi. Inoltre,
vengono prodotti talvolta embrioni in numero superiore a quello
necessario per l'impianto nel grembo della donna e questi cosiddetti «embrioni
soprannumerari» vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche che,
con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono
la vita umana a semplice «materiale biologico» di cui poter
liberamente disporre.
Le diagnosi pre-natali, che non presentano
difficoltà morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie al
bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per proporre
e procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui legittimazione
nell'opinione pubblica nasce da una mentalità — a torto ritenuta
coerente con le esigenze della «terapeuticità» — che accoglie la
vita solo a certe condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap,
l'infermità.
Seguendo questa stessa logica, si è giunti a
negare le cure ordinarie più elementari, e perfino l'alimentazione, a
bambini nati con gravi handicap o malattie. Lo scenario contemporaneo,
inoltre, si fa ancora più sconcertante a motivo delle proposte,
avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del diritto
all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando così ad uno
stadio di barbarie che si sperava di aver superato per sempre.
15. Minacce non meno gravi incombono pure sui malati
inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale
che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza,
acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire
eliminandolo alla radice con l'anticipare la morte al momento
ritenuto più opportuno.
In tale scelta confluiscono spesso elementi di
diverso segno, purtroppo convergenti a questo terribile esito. Può
essere decisivo, nel soggetto malato, il senso di angoscia, di
esasperazione, persino di disperazione, provocato da un'esperienza di
dolore intenso e prolungato. Ciò mette a dura prova gli equilibri a
volte già instabili della vita personale e familiare, sicché, da una
parte, il malato, nonostante gli aiuti sempre più efficaci
dell'assistenza medica e sociale, rischia di sentirsi schiacciato dalla
propria fragilità; dall'altra, in coloro che gli sono effettivamente
legati, può operare un senso di comprensibile anche se malintesa pietà.
Tutto ciò è aggravato da un'atmosfera culturale che non coglie nella
sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per
eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente
quando non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare
positivamente il mistero del dolore.
Ma nell'orizzonte culturale complessivo non manca
di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell'uomo che,
in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte
perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato
da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad
ogni speranza. Riscontriamo una tragica espressione di tutto ciò nella
diffusione dell'eutanasia, mascherata e strisciante o attuata
apertamente e persino legalizzata. Essa, oltre che per una presunta pietà
di fronte al dolore del paziente, viene talora giustificata con una
ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive troppo
gravose per la società. Si propone così la soppressione dei neonati
malformati, degli handicappati gravi, degli inabili, degli anziani,
soprattutto se non autosufficienti, e dei malati terminali. Né ci è
lecito tacere di fronte ad altre forme più subdole, ma non meno gravi e
reali, di eutanasia. Esse, ad esempio, potrebbero verificarsi quando,
per aumentare la disponibilità di organi da trapiantare, si procedesse
all'espianto degli stessi organi senza rispettare i criteri oggettivi ed
adeguati di accertamento della morte del donatore.
16. Un altro fenomeno attuale, al quale si
accompagnano frequentemente minacce e attentati alla vita, è quello
demografico. Esso si presenta in modo differente nelle diverse parti
del mondo: nei Paesi ricchi e sviluppati si registra un preoccupante
calo o crollo delle nascite; i Paesi poveri, invece, presentano in
genere un tasso elevato di aumento della popolazione, difficilmente
sopportabile in un contesto di minore sviluppo economico e sociale, o
addirittura di grave sottosviluppo. Di fronte alla sovrapopolazione dei
Paesi poveri mancano, a livello internazionale, interventi globali —
serie politiche familiari e sociali, programmi di crescita culturale e
di giusta produzione e distribuzione delle risorse — mentre si
continua a mettere in atto politiche antinataliste.
Contraccezione, sterilizzazione e aborto vanno
certamente annoverati tra le cause che contribuiscono a determinare le
situazioni di forte denatalità. Può essere facile la tentazione di
ricorrere agli stessi metodi e attentati contro la vita anche nelle
situazioni di «esplosione demografica».
L'antico faraone, sentendo come un incubo la
presenza e il moltiplicarsi dei figli di Israele, li sottopose ad ogni
forma di oppressione e ordinò che venisse fatto morire ogni neonato
maschio delle donne ebree (cf. Es 1, 7-22). Allo stesso modo si
comportano oggi non pochi potenti della terra.
Essi pure avvertono come un incubo lo sviluppo
demografico in atto e temono che i popoli più prolifici e più poveri
rappresentino una minaccia per il benessere e la tranquillità dei loro
Paesi. Di conseguenza, piuttosto che voler affrontare e risolvere questi
gravi problemi nel rispetto della dignità delle persone e delle
famiglie e dell'inviolabile diritto alla vita di ogni uomo, preferiscono
promuovere e imporre con qualsiasi mezzo una massiccia pianificazione
delle nascite. Gli stessi aiuti economici, che sarebbero disposti a
dare, vengono ingiustamente condizionati all'accettazione di una
politica antinatalista.
17. L'umanità di oggi ci offre uno spettacolo
davvero allarmante, se pensiamo non solo ai diversi ambiti nei quali si
sviluppano gli attentati alla vita, ma anche alla loro singolare
proporzione numerica, nonché al molteplice e potente sostegno che viene
loro dato dall'ampio consenso sociale, dal frequente riconoscimento
legale, dal coinvolgimento di parte del personale sanitario.
Come ebbi a dire con forza a Denver, in occasione dell'VIII Giornata Mondiale della Gioventù, «con il tempo, le minacce
contro la vita non vengono meno. Esse, al contrario, assumono dimensioni
enormi. Non si tratta soltanto di minacce provenienti dall'esterno, di
forze della natura o dei "Caino" che assassinano gli
"Abele"; no, si tratta di minacce programmate in maniera
scientifica e sistematica. Il ventesimo secolo verrà considerato
un'epoca di attacchi massicci contro la vita, un'interminabile serie di
guerre e un massacro permanente di vite umane innocenti. I falsi profeti
e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile».15
Al di là delle intenzioni, che possono essere varie e magari assumere
forme suadenti persino in nome della solidarietà, siamo in realtà di
fronte a una oggettiva «congiura contro la vita» che vede
implicate anche Istituzioni internazionali, impegnate a incoraggiare e
programmare vere e proprie campagne per diffondere la contraccezione, la
sterilizzazione e l'aborto. Non si può, infine, negare che i mass media
sono spesso complici di questa congiura, accreditando nell'opinione
pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla contraccezione,
alla sterilizzazione, all'aborto e alla stessa eutanasia come segno di
progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della
libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della
vita.
«Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn
4, 9): un'idea perversa di libertà
18. Il panorama descritto chiede di essere
conosciuto non soltanto nei fenomeni di morte che lo caratterizzano, ma
anche nelle molteplici cause che lo determinano. La domanda del
Signore «Che hai fatto?» (Gn 4, 10) sembra essere quasi un
invito rivolto a Caino ad andare oltre la materialità del suo gesto
omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che ne
sono all'origine e nelle conseguenze che ne derivano.
Le scelte contro la vita nascono, talvolta, da
situazioni difficili o addirittura drammatiche di profonda sofferenza,
di solitudine, di totale mancanza di prospettive economiche, di
depressione e di angoscia per il futuro. Tali circostanze possono
attenuare anche notevolmente la responsabilità soggettiva e la
conseguente colpevolezza di quanti compiono queste scelte in sé
criminose. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso
riconoscimento di queste situazioni personali. Esso si pone anche sul
piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più
sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più largamente
condivisa, a interpretare i menzionati delitti contro la vita come legittime
espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come
veri e propri diritti.
In questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche
conseguenze un lungo processo storico, che dopo aver scoperto l'idea dei
«diritti umani» — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti
ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente
contraddizione: proprio in un'epoca in cui si proclamano
solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma
pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene
praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più
emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire.
Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti
dell'uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono
l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta
a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto
tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione,
opinione politica, ceto sociale.
Dall'altro lato, a queste nobili proclamazioni si
contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è
ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si
realizza in una società che fa dell'affermazione e della tutela dei
diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come
mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il
continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla
vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più
debole, del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito? Questi
attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della
vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei
diritti dell'uomo. È una minaccia capace, al limite, di mettere a
repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da
società di «conviventi», le nostre città rischiano di diventare
società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi
lo sguardo si allarga ad un orizzonte planetario, come non pensare che
la stessa affermazione dei diritti delle persone e dei popoli, quale
avviene in alti consessi internazionali, si riduce a sterile esercizio
retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi ricchi che chiudono
l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi
divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Non
occorre forse mettere in discussione gli stessi modelli economici,
adottati sovente dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di
carattere internazionale, che generano ed alimentano situazioni di
ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere popolazioni
viene avvilita e conculcata?
19. Dove stanno le radici di una contraddizione
tanto paradossale?
Le possiamo riscontrare in complessive valutazioni
di ordine culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che,
esasperando e persino deformando il concetto di soggettività,
riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o
almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza
dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione
dell'uomo quale essere «indisponibile»? La teoria dei diritti
umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo,
diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al
dominio di nessuno. Si deve pure accennare a quella logica che tende a identificare
la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed
esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali
presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il
morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente
assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente
dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una
profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a farsi criterio di
scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza
sociale. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto
storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale
alle «ragioni della forza» si sostituisce la «forza della ragione».
Ad un altro livello, le radici della contraddizione
che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la
loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione
della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e
non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio
dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente
o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di
umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo
insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto
individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti»
contro i deboli destinati a soccombere.
Proprio in questo senso si può interpretare la
risposta di Caino alla domanda del Signore «Dov'è Abele, tuo fratello?»:
«Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4,
9). Sì, ogni uomo è «guardiano di suo fratello», perché Dio affida
l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a
ogni uomo la libertà, che possiede un'essenziale dimensione
relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com'è al
servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé
e l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in chiave
individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario
ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità.
C'è un aspetto ancora più profondo da
sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si
dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta
più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni volta che la
libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si
chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune,
fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con
l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte
non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e
mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo
capriccio.
20. In questa concezione della libertà, la
convivenza sociale viene profondamente deformata. Se la promozione
del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta,
inevitabilmente si giunge alla negazione dell'altro, sentito come un
nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme
di individui posti l'uno accanto all'altro, ma senza legami reciproci:
ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall'altro, anzi vuol far
prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi
dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di compromesso,
se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di
libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e
a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle
sabbie mobili di un relativismo totale. Allora tutto è
convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti
fondamentali, quello alla vita.
È quanto di fatto accade anche in ambito più
propriamente politico e statale: l'originario e inalienabile diritto
alla vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto
parlamentare o della volontà di una parte — sia pure maggioritaria
— della popolazione. È l'esito nefasto di un relativismo che regna
incontrastato: il «diritto» cessa di essere tale, perché non è più
solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene
assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia,
ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale
totalitarismo. Lo Stato non è più la «casa comune» dove tutti
possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale, ma si
trasforma in Stato tiranno, che presume di poter disporre della
vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio,
in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che
l'interesse di alcuni.
Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della
legalità, almeno quando le leggi che permettono l'aborto o l'eutanasia
vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità,
siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l'ideale
democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità
di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: «Come
è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si
permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di
quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle
discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad
altre questa dignità è negata?».16
Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei
dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica convivenza umana
e alla disgregazione della stessa realtà statuale.
Rivendicare il diritto all'aborto,
all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad
attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello
di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa
è la morte della vera libertà: «In verità, in verità vi dico:
chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34).
«Mi dovrò nascondere lontano da te» (Gn 4,
14): l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo
21. Nel ricercare le radici più profonde della
lotta tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte», non ci
si può fermare all'idea perversa di libertà sopra ricordata. Occorre
giungere al cuore del dramma vissuto dall'uomo contemporaneo:l'eclissi
del senso di Dio e dell'uomo, tipica del contesto sociale e
culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non
manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi
si lascia contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice
di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire
anche il senso dell'uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua
volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave
materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una
sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la
presenza vivificante e salvante di Dio.
Ancora una volta possiamo ispirarci al racconto
dell'uccisione di Abele da parte del fratello. Dopo la maledizione
inflittagli da Dio, Caino così si rivolge al Signore: «Troppo grande
è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo
e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e
fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere» (Gn
4, 13-14).
Caino ritiene che il suo peccato non potrà
ottenere perdono dal Signore e che il suo destino inevitabile sarà di
doversi «nascondere lontano» da lui. Se Caino riesce a confessare che
la sua colpa è «troppo grande», è perché egli sa di trovarsi di
fronte a Dio e al suo giusto giudizio. In realtà, solo davanti al
Signore l'uomo può riconoscere il suo peccato e percepirne tutta la
gravità. È questa l'esperienza di Davide, che dopo «aver fatto male
agli occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan (cf. 2 Sam 11-12),
esclama: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi
occhi, io l'ho fatto» (Sal 511, 5-6).
22. Per questo, quando viene meno il senso di Dio,
anche il senso dell'uomo viene minacciato e inquinato, come
lapidariamente afferma il Concilio Vaticano II: «La creatura senza il
Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura
stessa».17
L'uomo non riesce più a percepirsi come «misteriosamente altro»
rispetto alle diverse creature terrene; egli si considera come uno dei
tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt'al più, ha raggiunto
uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto orizzonte
della sua fisicità, si riduce in qualche modo a «una cosa» e non
coglie più il carattere «trascendente» del suo «esistere come uomo».
Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà
«sacra» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole
custodia, alla sua «venerazione». Essa diventa semplicemente «una
cosa», che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente
dominabile e manipolabile.
Così, di fronte alla vita che nasce e alla vita
che muore, non è più capace di lasciarsi interrogare sul senso più
autentico della sua esistenza, assumendo con vera libertà questi
momenti cruciali del proprio «essere». Egli si preoccupa solo del «fare»
e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si affanna a programmare,
controllare e dominare la nascita e la morte. Queste, da esperienze
originarie che chiedono di essere «vissute», diventano cose che si
pretende semplicemente di «possedere» o di «rifiutare».
Del resto, una volta escluso il riferimento a Dio,
non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente
deformato, e la stessa natura, non più «mater», sia ridotta a «materiale»
aperto a tutte le manipolazioni. A ciò sembra condurre una certa
razionalità tecnico-scientifica, dominante nella cultura contemporanea,
che nega l'idea stessa di una verità del creato da riconoscere o di un
disegno di Dio sulla vita da rispettare. E ciò non è meno vero, quando
l'angoscia per gli esiti di tale «libertà senza legge» induce alcuni
all'opposta istanza di una «legge senza libertà», come avviene, ad
esempio, in ideologie che contestano la legittimità di qualunque
intervento sulla natura, quasi in nome di una sua «divinizzazione»,
che ancora una volta ne misconosce la dipendenza dal disegno del
Creatore. In realtà, vivendo «come se Dio non esistesse», l'uomo
smarrisce non solo il mistero di Dio, ma anche quello del mondo e il
mistero del suo stesso essere.
23. L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce
inevitabilmente al materialismo pratico, nel quale proliferano
l'individualismo, l'utilitarismo e l'edonismo. Si manifesta anche qui la
perenne validità di quanto scrive l'Apostolo: «Poiché hanno
disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una
intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1,
28). Così i valori dell'essere sono sostituiti da quelli dell'avere.
L'unico fine che conta è il perseguimento del
proprio benessere materiale. La cosiddetta «qualità della vita» è
interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica,
consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica,
dimenticando le dimensioni più profonde — relazionali, spirituali e
religiose — dell'esistenza.
In un simile contesto la sofferenza, inevitabile
peso dell'esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita
personale, viene «censurata», respinta come inutile, anzi combattuta
come male da evitare sempre e comunque. Quando non la si può superare e
la prospettiva di un benessere almeno futuro svanisce, allora pare che
la vita abbia perso ogni significato e cresce nell'uomo la tentazione di
rivendicare il diritto alla sua soppressione.
Sempre nel medesimo orizzonte culturale, il corpo
non viene più percepito come realtà tipicamente personale, segno e
luogo della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è
ridotto a pura materialità: è semplice complesso di organi, funzioni
ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità ed efficienza.
Conseguentemente, anche la sessualità è depersonalizzata e
strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell'amore, ossia del
dono di sé e dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera ricchezza
della persona, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione
del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e
istinti. Così si deforma e falsifica il contenuto originario della
sessualità umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti
nella natura stessa dell'atto coniugale, vengono artificialmente
separati: in questo modo l'unione è tradita e la fecondità è
sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna. La procreazione
allora diventa il «nemico» da evitare nell'esercizio della sessualità:
se viene accettata, è solo perché esprime il proprio desiderio, o
addirittura la propria volontà, di avere il figlio «ad ogni costo» e
non, invece, perché dice totale accoglienza dell'altro e, quindi,
apertura alla ricchezza di vita di cui il figlio è portatore.
Nella prospettiva materialistica fin qui descritta,
le relazioni interpersonali conoscono un grave impoverimento. I
primi a subirne i danni sono la donna, il bambino, il malato o
sofferente, l'anziano. Il criterio proprio della dignità personale —
quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio — viene
sostituito dal criterio dell'efficienza, della funzionalità e
dell'utilità: l'altro è apprezzato non per quello che «è», ma per
quello che «ha, fa e rende». È la supremazia del più forte sul più
debole.
24. È nell'intimo della coscienza morale che
l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, con tutte le sue molteplici e
funeste conseguenze sulla vita, si consuma. È in questione, anzitutto,
la coscienza di ciascuna persona, che nella sua unicità e
irripetibilità si trova sola di fronte a Dio.18
Ma è pure in questione, in un certo senso, la «coscienza morale» della
società: essa è in qualche modo responsabile non solo perché
tollera o favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché
alimenta la «cultura della morte», giungendo a creare e a consolidare
vere e proprie «strutture di peccato» contro la vita. La coscienza
morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta, anche per
l'influsso invadente di molti strumenti della comunicazione sociale, a
un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione tra
il bene e il male in riferimento allo stesso fondamentale diritto
alla vita. Tanta parte dell'attuale società si rivela tristemente
simile a quell'umanità che Paolo descrive nella Lettera ai Romani. È
fatta «di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia» (1, 18):
avendo rinnegato Dio e credendo di poter costruire la città terrena
senza di lui, «hanno vaneggiato nei loro ragionamenti» sicché «si è
ottenebrata la loro mente ottusa» (1, 21); «mentre si dichiaravano
sapienti sono diventati stolti» (1, 22), sono diventati autori di opere
degne di morte e «non solo continuano a farle, ma anche approvano chi
le fa» (1, 32). Quando la coscienza, questo luminoso occhio dell'anima (cf. Mt 6, 22-23), chiama «bene il male e male il bene» (Is 5,
20), è ormai sulla strada della sua degenerazione più inquietante e
della più tenebrosa cecità morale.
Eppure tutti i condizionamenti e gli sforzi per
imporre il silenzio non riescono a soffocare la voce del Signore che
risuona nella coscienza di ogni uomo: è sempre da questo intimo
sacrario della coscienza che può ripartire un nuovo cammino di amore,
di accoglienza e di servizio alla vita umana.
«Vi siete accostati al sangue
dell'aspersione» (cf. Eb 12, 22.24): segni di speranza e
invito all'impegno
25. «La voce del sangue di tuo fratello grida a me
dal suolo!» (Gn 4, 10). Non è solo la voce del sangue di Abele,
il primo innocente ucciso, a gridare verso Dio, sorgente e difensore
della vita. Anche il sangue di ogni altro uomo ucciso dopo Abele è voce
che si leva al Signore. In una forma assolutamente unica, grida a Dio la
voce del sangue di Cristo, di cui Abele nella sua innocenza è
figura profetica, come ci ricorda l'autore della Lettera agli Ebrei: «Voi
vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente...
al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell'aspersione dalla voce
più eloquente di quello di Abele» (12, 22.24).
È il sangue dell'aspersione. Ne era stato
simbolo e segno anticipatore il sangue dei sacrifici dell'Antica
Alleanza, con i quali Dio esprimeva la volontà di comunicare la sua
vita agli uomini, purificandoli e consacrandoli (cf. Es 24, 8; Lv
17, 11). Ora, tutto questo in Cristo si compie e si avvera: il suo
è il sangue dell'aspersione che redime, purifica e salva; è il sangue
del Mediatore della Nuova Alleanza «versato per molti, in remissione
dei peccati» (Mt 26, 28). Questo sangue, che fluisce dal fianco
trafitto di Cristo sulla croce (cf. Gv 19, 34), ha la «voce più
eloquente» del sangue di Abele; esso infatti esprime ed esige una più
profonda «giustizia», ma soprattutto implora misericordia,19
si fa presso il Padre intercessione per i fratelli (cf. Eb 7,
25), è fonte di redenzione perfetta e dono di vita nuova.
Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza
dell'amore del Padre, manifesta come l'uomo sia prezioso agli occhi
di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita. Ce lo ricorda l'apostolo Pietro: «Voi sapete che non a
prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri
padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1 Pt 1, 18-19).
Proprio contemplando il sangue prezioso di Cristo, segno della sua donazione d'amore (cf. Gv 13, 1), il credente
impara a riconoscere e ad apprezzare la dignità quasi divina di ogni uomo e può esclamare con sempre rinnovato e grato
stupore: «Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se "ha meritato di avere un tanto nobile e
grande Redentore" (Exultet della Veglia pasquale), se "Dio ha dato il suo Figlio", affinché egli,
l'uomo, "non muoia, ma abbia la vita eterna" (cf. Gv 3, 16)!».20
Il sangue di Cristo, inoltre, rivela all'uomo che la sua
grandezza, e quindi la sua vocazione, consiste nel dono
sincero di sé. Proprio perché viene versato come dono di vita, il sangue di Gesù non è più segno di morte, di
separazione definitiva dai fratelli, ma strumento di una comunione che è ricchezza di vita per tutti. Chi nel sacramento
dell'Eucaristia beve questo sangue e dimora in Gesù (cf. Gv 6, 56) è coinvolto nel suo stesso dinamismo di amore
e di donazione di vita, per portare a pienezza l'originaria vocazione all'amore che è propria di ogni uomo (cf. Gn 1,
27; 2, 18-24).
È ancora nel sangue di Cristo che tutti gli uomini
attingono la forza per impegnarsi a favore della vita. Proprio questo sangue è il motivo più forte di speranza,
anzi è il
fondamento dell'assoluta certezza che secondo il disegno di Dio la
vittoria sarà della vita. «Non ci sarà più la morte», esclama la voce potente che esce dal trono di Dio nella
Gerusalemme celeste (Ap
21, 4). E san Paolo ci assicura che la vittoria attuale sul peccato è segno e anticipazione della vittoria definitiva
sulla morte, quando «si compirà la parola della Scrittura: "La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o
morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?"» (1 Cor 15, 54-55).
26. In realtà, segni anticipatori di questa vittoria non
mancano nelle nostre società e culture, pur così fortemente segnate dalla «cultura della morte». Si darebbe dunque
un'immagine unilaterale, che potrebbe indurre a uno sterile scoraggiamento, se alla denuncia delle minacce alla vita non
si accompagnasse la presentazione dei segni positivi operanti nell'attuale situazione dell'umanità.
Purtroppo tali segni positivi faticano spesso a
manifestarsi e ad essere riconosciuti, forse anche perché non trovano adeguata attenzione nei mezzi della comunicazione
sociale. Ma quante iniziative di aiuto e di sostegno alle persone più deboli e indifese sono sorte e continuano a
sorgere, nella comunità cristiana e nella società civile, a livello locale, nazionale e internazionale, ad opera di
singoli, gruppi, movimenti ed organizzazioni di vario genere!
Sono ancora molti gli sposi che, con generosa
responsabilità, sanno accogliere i figli come «il preziosissimo dono del matrimonio».21
Né mancano famiglie che, al di là del loro quotidiano servizio alla vita, sanno aprirsi all'accoglienza di
bambini abbandonati, di ragazzi e giovani in difficoltà, di persone portatrici di handicap, di anziani rimasti soli. Non
pochi centri di aiuto alla vita, o istituzioni analoghe, sono promossi da persone e gruppi che, con ammirevole
dedizione e sacrificio, offrono un sostegno morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di ricorrere all'aborto.
Sorgono pure e si diffondono gruppi di volontari impegnati a dare ospitalità a chi è senza famiglia, si trova in
condizioni di particolare disagio o ha bisogno di ritrovare un ambiente educativo che lo aiuti a superare abitudini
distruttive e a ricuperare il senso della vita.
La medicina, promossa con grande impegno da
ricercatori e professionisti, prosegue nel suo sforzo per trovare rimedi sempre più efficaci: risultati un tempo del
tutto impensabili e tali da aprire promettenti prospettive sono oggi ottenuti a favore della vita nascente, delle persone
sofferenti e dei malati in fase acuta o terminale. Enti e organizzazioni varie si mobilitano per portare, anche nei Paesi
più colpiti dalla miseria e da malattie endemiche, i benefici della medicina più avanzata. Così pure associazioni
nazionali e internazionali di medici si attivano tempestivamente per recare soccorso alle popolazioni provate da calamità
naturali, da epidemie o da guerre. Anche se una vera giustizia internazionale nella ripartizione delle risorse mediche è
ancora lontana dalla sua piena realizzazione, come non riconoscere nei passi sinora compiuti il segno di una crescente
solidarietà tra i popoli, di un'apprezzabile sensibilità umana e morale e di un maggiore rispetto per la vita?
27. Di fronte a legislazioni che hanno permesso l'aborto
e a tentativi, qua e là riusciti, di legalizzare l'eutanasia, sono sorti in tutto il mondo movimenti e iniziative di
sensibilizzazione sociale in favore della vita. Quando, in conformità alla loro ispirazione autentica, agiscono con
determinata fermezza ma senza ricorrere alla violenza, tali movimenti favoriscono una più diffusa presa di coscienza del
valore della vita e sollecitano e realizzano un più deciso impegno per la sua difesa.
Come non ricordare, inoltre, tutti quei gesti
quotidiani di accoglienza, di sacrificio, di cura disinteressata che un numero incalcolabile di persone compie con
amore nelle famiglie, negli ospedali, negli orfanotrofi, nelle case di riposo per anziani e in altri centri o comunità a
difesa della vita? Lasciandosi guidare dall'esempio di Gesù «buon samaritano» (cf. Lc 10, 29-37) e sostenuta
dalla sua forza, la Chiesa è sempre stata in prima linea su queste frontiere della carità: tanti suoi figli e figlie,
specialmente religiose e religiosi, in forme antiche e sempre nuove, hanno consacrato e continuano a consacrare la loro
vita a Dio donandola per amore del prossimo più debole e bisognoso.
Questi gesti costruiscono nel profondo quella «civiltà
dell'amore e della vita», senza la quale l'esistenza delle persone e della società smarrisce il suo significato più
autenticamente umano. Anche se nessuno li notasse e rimanessero nascosti ai più, la fede assicura che il Padre, «che
vede nel segreto» (Mt 6, 4), non solo saprà ricompensarli, ma già fin d'ora li rende fecondi di frutti duraturi
per tutti.
Tra i segni di speranza va pure annoverata la crescita,
in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova
sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più
orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma «non violenti» per bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte
si pone altresì la sempre
più diffusa avversione dell'opinione pubblica alla pena di morte
anche solo come strumento di «legittima difesa» sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna
società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l'ha commesso, non gli
tolgono definitivamente la possibilità di redimersi.
È da salutare con favore anche l'accresciuta attenzione
alla qualità della vita e all'ecologia, che si registra soprattutto nelle società a sviluppo avanzato,
nelle quali le attese delle persone non sono più concentrate tanto sui problemi della sopravvivenza quanto piuttosto
sulla ricerca di un miglioramento globale delle condizioni di vita. Particolarmente significativo è il risveglio di una
riflessione etica attorno alla vita: con la nascita e lo sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono
favoriti la riflessione e il dialogo — tra credenti e non credenti, come pure tra credenti di diverse religioni — su
problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita dell'uomo.
28. Questo orizzonte di luci ed ombre deve renderci tutti
pienamente consapevoli che ci troviamo di fronte ad uno scontro immane e drammatico tra il male e il bene, la morte e la
vita, la «cultura della morte» e la «cultura della vita». Ci troviamo non solo «di fronte», ma necessariamente «in
mezzo» a tale conflitto: tutti siamo coinvolti e partecipi, con l'ineludibile responsabilità di scegliere
incondizionatamente a favore della vita.
Anche per noi risuona chiaro e forte l'invito di Mosè:
«Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male...; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la
benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua
discendenza» (Dt 30, 15.19). È un invito che ben si addice anche a noi, chiamati ogni giorno a dover decidere
tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte». Ma l'appello del Deuteronomio è ancora più profondo, perché
ci sollecita ad una scelta propriamente religiosa e morale. Si tratta di dare alla propria esistenza un orientamento
fondamentale e di vivere in fedeltà e coerenza con la legge del Signore: «Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di
camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme...; scegli dunque la
vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e
la tua longevità» (30, 16.19-20).
La scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in
pienezza il suo significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è alimentata dalla fede in Cristo. Nulla
aiuta ad affrontare positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi, come la fede nel Figlio di
Dio che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini «perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,
10): è la fede nel Risorto, che ha
vinto la morte; è la fede nel sangue di Cristo «dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Eb 12, 24).
Con la luce e la forza di tale fede, quindi, di fronte
alle sfide dell'attuale situazione, la Chiesa prende più viva coscienza della grazia e della responsabilità che le
vengono dal suo Signore per annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita.
CAPITOLO II
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SONO VENUTO PERCHÉ ABBIANO LA VITA
IL MESSAGGIO CRISTIANO SULLA VITA
«La
vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta» (1 Gv 1, 2): lo sguardo rivolto a Cristo, «il
Verbo della vita»
29. Di fronte alle innumerevoli e gravi minacce alla vita
presenti nel mondo contemporaneo, si potrebbe rimanere come sopraffatti dal senso di un'impotenza insuperabile: il bene
non potrà mai avere la forza di vincere il male!
È questo il momento nel quale il Popolo di Dio, e in
esso ciascun credente, è chiamato a professare, con umiltà e coraggio, la propria fede in Gesù Cristo «il Verbo della
vita» (1 Gv 1, 1). Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se originale e profonda,
sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi
cambiamenti nella società; tanto meno è un'illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è una
realtà concreta e personale, perché consiste nell'annuncio della persona stessa di Gesù. All'apostolo Tommaso, e
in lui a ogni uomo, Gesù si presenta con queste parole: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). È la
stessa identità indicata a Marta, la sorella di Lazzaro: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se
muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv
11, 25-26). Gesù è il Figlio che dall'eternità riceve la vita dal Padre (cf. Gv 5, 26) ed è venuto tra gli
uomini per farli partecipi di questo dono: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,
10).
È allora dalla parola, dall'azione, dalla persona stessa
di Gesù che all'uomo è data la possibilità di «conoscere» la
verità intera circa il valore della vita umana; è da quella «fonte» che gli viene, in particolare, la capacità di
«fare» perfettamente tale verità (cf. Gv 3, 21), ossia di assumere e realizzare in pienezza la responsabilità
di amare e servire, di difendere e promuovere la vita umana.
In Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è
pienamente donato quel Vangelo della vita che, offerto già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed anzi
scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona in ogni coscienza «dal principio», ossia dalla
creazione stessa, così che, nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi
tratti essenziali anche dalla ragione umana. Come scrive il Concilio Vaticano II, Cristo «con tutta la sua presenza e
con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte
e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione
e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte
e risuscitarci per la vita eterna».22
30. È dunque con lo sguardo fisso al Signore Gesù che
intendiamo riascoltare da lui «le parole di Dio» (Gv 3, 34) e rimeditare il Vangelo della vita. Il senso
più profondo e originale di questa meditazione sul messaggio rivelato circa la vita umana è stato colto dall'apostolo
Giovanni, quando scrive, all'inizio della sua Prima Lettera: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e
vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi
lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1, 1-3).
In Gesù, «Verbo della vita», viene quindi annunciata e
comunicata la vita divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e a tale dono, la vita fisica e spirituale dell'uomo, anche
nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui
l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato. Il Vangelo della vita racchiude così quanto la stessa
esperienza e ragione umana dicono circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento.
«Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi
ha salvato» (Es 15, 2): la vita è sempre un bene
31. In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio
sulla vita è preparata già nell'Antico Testamento. È soprattutto nella vicenda dell'Esodo, fulcro dell'esperienza di
fede dell'Antico Testamento, che Israele scopre quanto la sua vita sia preziosa agli occhi di Dio. Quando sembra ormai
votato allo sterminio, perché su tutti i suoi neonati maschi incombe la minaccia di morte (cf.
Es 1, 15-22), il Signore gli si rivela come salvatore, capace di assicurare un futuro a chi è senza speranza.
Nasce così in Israele una precisa consapevolezza: la sua vita non si trova alla mercé di un faraone che può
usarne con dispotico arbitrio; al contrario, essa è
l'oggetto di un tenero e forte amore da parte di Dio.
La liberazione dalla schiavitù è il dono di una
identità, il riconoscimento di una dignità indelebile e l'inizio di
una storia nuova, in cui la scoperta di Dio e la scoperta di sé vanno di pari passo. È una esperienza, quella
dell'Esodo, fondante ed esemplare. Israele vi apprende che, ogni volta in cui è minacciato nella sua esistenza, non ha
che da ricorrere a Dio con rinnovata fiducia per trovare in lui efficace assistenza: «Io ti ho formato, mio servo sei tu;
Israele, non sarai dimenticato da me» (Is 44, 21).
Così, mentre riconosce il valore della propria esistenza
come popolo, Israele progredisce anche nella percezione del
senso e del valore della vita in quanto tale. È una riflessione che si sviluppa in modo particolare nei libri
sapienziali, muovendo dalla quotidiana esperienza della precarietà della vita e dalla consapevolezza delle minacce
che la insidiano. Di fronte alle contraddizioni dell'esistenza, la fede è provocata ad offrire una risposta.
È soprattutto il problema del dolore ad incalzare la
fede e a metterla alla prova. Come non cogliere il gemito universale dell'uomo nella meditazione del libro di Giobbe?
L'innocente schiacciato dalla sofferenza è, comprensibilmente, portato a chiedersi: «Perché dare la luce ad un infelice
e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro?»
(3, 20-21). Ma anche nella più fitta oscurità la fede orienta al riconoscimento fiducioso e adorante del «mistero»:
«Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te» (Gb 42, 2).
Progressivamente la Rivelazione fa cogliere con sempre
maggiore chiarezza il germe di vita immortale posto dal Creatore nel cuore degli uomini: «Egli ha fatto bella ogni cosa a
suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell'eternità nel loro cuore» (Qo 3, 11). Questo germe di totalità e di pienezza attende
di manifestarsi nell'amore e di compiersi, per dono gratuito di Dio, nella partecipazione alla sua vita eterna.
«Il nome di Gesù ha dato vigore a questo uomo» (At 3,
16): nella precarietà dell'esistenza umana Gesù porta a compimento il senso della vita
32. L'esperienza del popolo dell'Alleanza si rinnova in
quella di tutti i «poveri» che incontrano Gesù di Nazaret. Come già il Dio «amante della vita» (Sap 11, 26)
aveva rassicurato Israele in mezzo ai pericoli, così ora il Figlio di Dio, a quanti si sentono minacciati e impediti
nella loro esistenza, annuncia che anche la loro vita è un bene, al quale l'amore del Padre dà senso e valore.
«I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i
lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella» (Lc 7, 22).
Con queste parole del profeta Isaia (35, 5-6; 61, 1), Gesù presenta il significato della propria missione: così quanti
soffrono per un'esistenza in qualche modo «diminuita», ascoltano da lui la
buona novella dell'interesse di Dio nei loro confronti ed hanno la conferma che anche la loro vita è un dono
gelosamente custodito nelle mani del Padre (cf. Mt 6, 25-34).
Sono i «poveri» ad essere interpellati particolarmente
dalla predicazione e dall'azione di Gesù. Le folle di malati e di emarginati, che lo seguono e lo cercano (cf. Mt 4,
23-25), trovano nella sua parola e nei suoi gesti la rivelazione di quale grande valore abbia la loro vita e di come siano
fondate le loro attese di salvezza.
Non diversamente accade nella missione della Chiesa, fin
dalle sue origini. Essa, che annuncia Gesù come colui che «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto
il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10, 38), sa di essere portatrice di un messaggio di salvezza
che risuona in tutta la sua novità proprio nelle situazioni di miseria e di povertà della vita dell'uomo. Così fa
Pietro con la guarigione dello storpio, posto ogni giorno presso la porta «Bella» del tempio di Gerusalemme a chiedere
l'elemosina: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno,
cammina!» (At 3, 6). Nella fede in Gesù, «autore della vita» (At 3, 15), la vita che giace abbandonata e
implorante ritrova consapevolezza di sé e dignità piena.
La parola e i gesti di Gesù e della sua Chiesa non
riguardano solo chi è nella malattia, nella sofferenza o nelle varie forme di emarginazione sociale. Più profondamente
toccano il senso
stesso della vita di ogni uomo nelle sue dimensioni morali e spirituali.
Solo chi riconosce che la propria vita è segnata dalla malattia del peccato, nell'incontro con Gesù Salvatore può
ritrovare la verità e l'autenticità della propria esistenza, secondo le sue stesse parole: «Non sono i sani che hanno
bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi» (Lc 5,
31-32).
Chi, invece, come il ricco agricoltore della parabola
evangelica, pensa di poter assicurare la propria vita mediante il possesso dei soli beni materiali, in realtà si illude:
essa gli sta sfuggendo, ed egli ne resterà ben presto privo, senza essere arrivato a percepirne il vero significato:
«Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc
12, 20).
33. È nella vita stessa di Gesù, dall'inizio alla fine,
che si ritrova questa singolare «dialettica» tra l'esperienza della precarietà della vita umana e l'affermazione del
suo valore. Infatti, la precarietà segna la vita di Gesù fin dalla sua nascita. Egli trova certamente l'accoglienza dei
giusti, che si uniscono al «sì» pronto e gioioso di Maria (cf. Lc 1, 38). Ma c'è anche, da subito, il rifiuto di
un mondo che si fa ostile e cerca il bambino «per ucciderlo» (Mt 2, 13), oppure resta indifferente e disattento
al compiersi del mistero di questa vita che entra nel mondo: «non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2, 7).
Proprio dal contrasto tra le minacce e le insicurezze da una parte e la potenza del dono di Dio dall'altra, risplende con
maggior forza la gloria che si sprigiona dalla casa di Nazaret e dalla mangiatoia di Betlemme: questa vita che nasce è
salvezza per l'intera umanità (cf. Lc
2, 11).
Contraddizioni e rischi della vita vengono assunti
pienamente da Gesù: «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua
povertà» (2 Cor 8, 9). La povertà, di cui parla Paolo, non è solo spogliamento dei privilegi divini, ma anche
condivisione delle condizioni più umili e precarie della vita umana (cf. Fil 2, 6-7). Gesù vive questa povertà
lungo tutto il corso della sua vita, fino al momento culminante della Croce: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino
alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro
nome» (Fil 2, 8-9). È proprio nella
sua morte che Gesù rivela tutta la grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi in croce diventa
fonte di vita nuova per tutti gli uomini (cf. Gv 12, 32). In questo peregrinare nelle contraddizioni e nella stessa
perdita della vita, Gesù è guidato dalla certezza che essa è nelle mani del Padre. Per questo sulla Croce può dirgli:
«Padre nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23, 46), cioè la mia vita. Davvero grande è il valore della
vita umana se il Figlio di Dio l'ha assunta e l'ha resa luogo nel quale la salvezza si attua per l'intera umanità!
«Chiamati... ad essere conformi
all'immagine del Figlio suo» (Rm 8, 28-29): la gloria di Dio risplende
sul volto dell'uomo
34. La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione
o addirittura un dato di esperienza, di cui l'uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda.
Perché la vita è un bene? L'interrogativo
attraversa tutta la Bibbia e fin dalle sue prime pagine trova una risposta efficace e mirabile. La vita che Dio dona
all'uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente, in quanto egli, pur imparentato con la
polvere della terra (cf. Gn 2, 7; 3, 19; Gb 34, 15; Sal 103/102, 14; 104/103, 29), è nel
mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua
gloria (cf. Gn 1, 26-27; Sal 8, 6). È quanto ha voluto sottolineare anche sant'Ireneo di Lione con la
sua celebre definizione: «l'uomo che vive è la gloria di Dio».23 All'uomo è
donata un'altissima dignità, che ha le sue radici nell'intimo legame che lo unisce al suo Creatore: nell'uomo
risplende un riflesso della stessa realtà di Dio.
Lo afferma il libro della Genesi nel primo racconto delle
origini, ponendo l'uomo al vertice dell'attività creatrice di Dio, come suo coronamento, al termine di un processo che
dall'indistinto caos porta alla creatura più perfetta. Tutto nel creato è ordinato
all'uomo e tutto è a lui sottomesso: «Riempite la terra; soggiogatela e dominate... su ogni essere vivente» (1,
28), comanda Dio all'uomo e alla donna. Un messaggio simile viene anche dall'altro racconto delle origini: «Il Signore
Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15). Si riafferma
così il primato dell'uomo sulle cose: esse sono finalizzate a lui e affidate alla sua responsabilità, mentre per nessuna
ragione egli può essere asservito ai suoi simili e quasi ridotto al rango di cosa.
Nella narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle
altre creature è evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come frutto di una speciale
decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello stabilire un
legame particolare e specifico con il Creatore: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gn 1,
26). La vita che Dio offre all'uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé
alla sua creatura.
Israele si interrogherà a lungo sul senso di questo
legame particolare e specifico dell'uomo con Dio. Anche il libro del Siracide riconosce che Dio nel creare gli uomini
«secondo la sua natura li rivestì di forza, e a sua immagine li formò» (17, 3). A ciò l'autore sacro riconduce non
solo il loro dominio sul mondo, ma anche le
facoltà spirituali più proprie dell'uomo, come la ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera:
«Li riempì di dottrina e d'intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male» (Sir
17, 6). La capacità di attingere la verità e la libertà sono
prerogative dell'uomo in quanto creato ad immagine del suo Creatore, il Dio vero e giusto (cf. Dt 32, 4).
Soltanto l'uomo, fra tutte le creature visibili, è «capa- ce di conoscere e di amare il proprio Creatore».24
La vita che Dio dona all'uomo è ben più di un esistere nel tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è germe di una esistenza che va
oltre i limiti stessi del tempo: «Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria
natura» (Sap 2, 23).
35. Anche il racconto jahvista delle origini esprime la
stessa convinzione. L'antica narrazione, infatti, parla di un
soffio divino che viene inalato nell'uomo perché questi entri nella vita: «Il Signore Dio plasmò l'uomo
con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente» (Gn 2, 7).
L'origine divina di questo spirito di vita spiega la
perenne insoddisfazione che accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto da Dio, portando in sé una traccia indelebile di
Dio, l'uomo tende naturalmente a lui. Quando ascolta l'aspirazione profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare
propria la parola di verità espressa da sant'Agostino: «Tu ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto
sino a quando non riposa in Te».25
Quanto mai eloquente è l'insoddisfazione di cui è preda
la vita dell'uomo nell'Eden fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (cf. Gn 2, 20).
Solo l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gn 2,
23), e in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare l'esigenza di dialogo inter-personale che è
così vitale per l'esistenza umana. Nell'altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di
ogni persona.
«Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il
figlio dell'uomo perché te ne curi?», si chiede il Salmista (Sal 8,
5). Di fronte all'immensità dell'universo, egli è ben piccola cosa; ma
proprio questo contrasto fa emergere la sua grandezza: «Lo hai fatto
poco meno degli angeli (ma si potrebbe tradurre anche: «poco meno di
Dio»), di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8, 6). La
gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo. In lui il Creatore
trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso sant'Ambrogio:
«È finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del mondo con
la formazione di quel capolavoro che è l'uomo, il quale esercita il
dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell'universo
e la suprema bellezza di ogni essere creato. Veramente dovremmo
mantenere un reverente silenzio, poiché il Signore si riposò da ogni
opera del mondo. Si riposò poi nell'intimo dell'uomo, si riposò nella
sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato l'uomo dotato di
ragione, capace d'imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie
celesti. In queste sue doti riposa Iddio che ha detto: "O su chi
riposerò, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie
parole?" (Is 66, 1-2). Ringrazio il Signore Dio nostro che
ha creato un'opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo».26
36. Purtroppo lo stupendo progetto di Dio viene
offuscato dalla irruzione del peccato nella storia. Con il peccato
l'uomo si ribella al Creatore, finendo con l'idolatrare le creature: «Hanno
venerato e adorato la creatura al posto del Creatore» (Rm 1,
25). In questo modo l'essere umano non solo deturpa in se stesso
l'immagine di Dio, ma è tentato di offenderla anche negli altri,
sostituendo ai rapporti di comunione atteggiamenti di diffidenza, di
indifferenza, di inimicizia, fino all'odio omicida. Quando non si
riconosce Dio come Dio, si tradisce il senso profondo dell'uomo e
si pregiudica la comunione tra gli uomini.
Nella vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a
risplendere e si manifesta in tutta la sua pienezza con la venuta nella
carne umana del Figlio di Dio: «Egli è immagine del Dio invisibile» (Col
1, 15), «irradiazione della sua gloria e impronta della sua
sostanza» (Eb 1, 3). Egli è l'immagine perfetta del Padre.
Il progetto di vita consegnato al primo Adamo trova
finalmente in Cristo il suo compimento. Mentre la disobbedienza di Adamo
rovina e deturpa il disegno di Dio sulla vita dell'uomo e introduce la
morte nel mondo, l'obbedienza redentrice di Cristo è fonte di grazia
che si riversa sugli uomini spalancando a tutti le porte del regno della
vita (cf. Rm 5, 12-21). Afferma l'apostolo Paolo: «Il primo
uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne
spirito datore di vita» (1 Cor 15, 45).
A quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo
viene donata la pienezza della vita: in loro l'immagine divina viene
restaurata, rinnovata e condotta alla perfezione. Questo è il disegno
di Dio sugli esseri umani: che divengano «conformi all'immagine del
Figlio suo» (Rm 8, 29). Solo così, nello splendore di questa
immagine, l'uomo può essere liberato dalla schiavitù dell'idolatria,
può ricostruire la fraternità dispersa e ritrovare la sua identità.
«Chiunque vive e crede in me, non morrà in
eterno» (Gv 11, 26): il dono della vita eterna
37. La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare
agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo. La vita, che da
sempre è «in lui» e costituisce «la luce degli uomini» (Gv
1, 4), consiste nell'essere generati da Dio e nel partecipare alla
pienezza del suo amore: «A quanti l'hanno accolto, ha dato il
potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i
quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma
da Dio sono stati generati» (Gv 1, 12-13).
A volte Gesù chiama questa vita, che egli è
venuto a donare, semplicemente così: «la vita»; e presenta la
generazione da Dio come una condizione necessaria per poter raggiungere
il fine per cui Dio ha creato l'uomo: «Se uno non rinasce dall'alto,
non può vedere il regno di Dio» (Gv 3, 3). Il dono di questa
vita costituisce l'oggetto proprio della missione di Gesù: egli «è
colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6, 33),
così che può affermare con piena verità: «Chi segue me... avrà la
luce della vita» (Gv 8, 12).
Altre volte Gesù parla di «vita eterna», dove
l'aggettivo non richiama soltanto una prospettiva sovratemporale. «Eterna»
è la vita che Gesù promette e dona, perché è pienezza di
partecipazione alla vita dell' «Eterno». Chiunque crede in Gesù ed
entra in comunione con lui ha la vita eterna (cf. Gv 3, 15; 6,
40), perché da lui ascolta le uniche parole che rivelano e infondono
pienezza di vita alla sua esistenza; sono le «parole di vita eterna»
che Pietro riconosce nella sua confessione di fede: «Signore, da chi
andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto
che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 68-69). In che cosa consista
poi la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre nella
grande preghiera sacerdotale: «Questa è la vita eterna: che conoscano
te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,
3). Conoscere Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero della
comunione d'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella
propria vita, che si apre già fin d'ora alla vita eterna nella partecipazione
alla vita divina.
38. La vita eterna è, dunque, la vita stessa di
Dio ed insieme la vita dei figli di Dio. Stupore sempre nuovo e
gratitudine senza limiti non possono non prendere il credente di fronte
a questa inattesa e ineffabile verità che ci viene da Dio in Cristo. Il
credente fa sue le parole dell'apostolo Giovanni: «Quale grande amore
ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo
realmente!... Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che
saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si
sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così
come egli è» (1 Gv 3, 1-2).
Così giunge al suo culmine la verità cristiana
sulla vita. La dignità di questa non è legata solo alle sue
origini, al suo venire da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino di
comunione con Dio nella conoscenza e nell'amore di Lui. È alla luce di
questa verità che sant'Ireneo precisa e completa la sua esaltazione
dell'uomo: «gloria di Dio» è, sì, «l'uomo che vive», ma «la vita
dell'uomo consiste nella visione di Dio».27
Nascono da qui immediate conseguenze per la vita
umana nella sua stessa condizione terrena, nella quale è già
germogliata ed è in crescita la vita eterna. Se l'uomo ama
istintivamente la vita perché è un bene, tale amore trova ulteriore
motivazione e forza, nuova ampiezza e profondità nelle dimensioni
divine di questo bene. In simile prospettiva, l'amore che ogni essere
umano ha per la vita non si riduce alla semplice ricerca di uno spazio
in cui esprimere se stesso ed entrare in relazione con gli altri, ma si
sviluppa nella gioiosa consapevolezza di poter fare della propria
esistenza il «luogo» della manifestazione di Dio, dell'incontro e
della comunione con Lui. La vita che Gesù ci dona non svaluta la nostra
esistenza nel tempo, ma la assume e la conduce al suo ultimo destino: «Io
sono la risurrezione e la vita...; chiunque vive e crede in me, non morrà
in eterno» (Gv 11, 25.26).
«Domanderò conto ... a ognuno di suo
fratello» (Gn 9, 5): venerazione e amore per la vita di
tutti
39. La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono,
sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di
questa vita, pertanto, Dio è l'unico signore: l'uomo non può
disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo il diluvio: «Domanderò
conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello» (Gn 9,
5). E il testo biblico si preoccupa di sottolineare come la sacralità
della vita abbia il suo fondamento in Dio e nella sua azione creatrice:
«Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo» (Gn 9, 6).
La vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle
mani di Dio, in suo potere: «Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e
il soffio d'ogni carne umana», esclama Giobbe (12, 10). «Il Signore fa
morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire» (1 Sam 2,
6). Egli solo può dire: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt
32, 39).
Ma questo potere Dio non lo esercita come arbitrio
minaccioso, bensì come cura e sollecitudine amorosa nei riguardi
delle sue creature. Se è vero che la vita dell'uomo è nelle mani
di Dio, non è men vero che queste sono mani amorevoli come quelle di
una madre che accoglie, nutre e si prende cura del suo bambino: «Io
sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l'anima mia» (Sal 131/130, 2; cf. Is
49, 15; 66, 12-13; Os 11, 4). Così nelle vicende dei popoli
e nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di una pura
casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un disegno d'amore con
il quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le
forze di morte, che nascono dal peccato: «Dio non ha creato la morte e
non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per
l'esistenza» (Sap 1, 13-14).
40. Dalla sacralità della vita scaturisce la sua
inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell'uomo,
nella sua coscienza. La domanda «Che hai fatto?» (Gn 4, 10),
con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello
Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua
coscienza, egli viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita
— della sua vita e di quella degli altri —, come realtà che non gli
appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre.
Il comandamento relativo all'inviolabilità della
vita umana risuona al centro delle «dieci parole» nell'Alleanza del
Sinai (cf. Es 34, 28). Esso proibisce, anzitutto, l'omicidio:
«Non uccidere» (Es 20, 13); «Non far morire l'innocente e il
giusto» (Es 23, 7); ma proibisce anche — come viene
esplicitato nell'ulteriore legislazione di Israele — ogni lesione
inflitta all'altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna riconoscere
che nell'Antico Testamento questa sensibilità per il valore della vita,
pur già così marcata, non raggiunge ancora la finezza del Discorso
della Montagna, come emerge da alcuni aspetti della legislazione allora
vigente, che prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di
morte. Ma il messaggio complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento di
portare alla perfezione, è un forte appello al rispetto
dell'inviolabilità della vita fisica e dell'integrità personale, ed ha
il suo vertice nel comandamento positivo che obbliga a farsi carico del
prossimo come di se stessi: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv
19, 18).
41. Il comandamento del «non uccidere», incluso e
approfondito in quello positivo dell'amore del prossimo, viene
ribadito in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al giovane
ricco che gli chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per
ottenere la vita eterna?», risponde: «Se vuoi entrare nella vita,
osserva i comandamenti» (Mt 19, 16.17). E cita, come primo, il
«non uccidere» (v. 18). Nel Discorso della Montagna, Gesù esige dai
discepoli una giustizia superiore a quella degli scribi e dei
farisei anche nel campo del rispetto della vita: «Avete inteso che fu
detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a
giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà
sottoposto a giudizio» (Mt 5, 21-22).
Con la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita
ulteriormente le esigenze positive del comandamento circa l'inviolabilità
della vita. Esse erano già presenti nell'Antico Testamento, dove la
legislazione si preoccupava di garantire e salvaguardare le situazioni
di vita debole e minacciata: il forestiero, la vedova, l'orfano, il
malato, il povero in genere, la stessa vita prima della nascita (cf. Es
21, 22; 22, 20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano
vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta la loro ampiezza e
profondità: vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare,
appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di
Israele), al farsi carico dell'estraneo, fino all'amare il nemico.
L'estraneo non è più tale per chi deve farsi
prossimo di chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la
responsabilità della sua vita, come insegna in modo eloquente e
incisivo la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10, 25-37).
Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (cf. Mt
5, 38-48; Lc 6, 27-35) e a «fargli del bene» (cf. Lc 6,
27.33.35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza
e senso di gratuità (cf. Lc 6, 34-35). Vertice di questo amore
è la preghiera per il nemico, mediante la quale ci si pone in sintonia
con l'amore provvidente di Dio: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e
pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro
celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e
fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 44-45; cf.
Lc 6, 28.35).
Così il comandamento di Dio a salvaguardia della
vita dell'uomo ha il suo aspetto più profondo nell'esigenza di
venerazione e di amore nei confronti di ogni persona e della sua
vita. È questo l'insegnamento che l'apostolo Paolo, facendo eco alla
parola di Gesù (cf. Mt 19, 17-18), rivolge ai cristiani di Roma:
«Il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non
desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole:
Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male
al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,
9-10).
«Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la
terra; soggiogatela» (Gn 1, 28): le responsabilità
dell'uomo verso la vita
42. Difendere e promuovere, venerare e amare la
vita è un compito che Dio affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua
palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo:
«Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli
uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla
terra"«(Gn 1, 28).
Il testo biblico mette in luce l'ampiezza e la
profondità della signoria che Dio dona all'uomo. Si tratta, anzitutto,
del dominio sulla terra e su ogni essere vivente, come ricorda il
libro della Sapienza: «Dio dei padri e Signore di misericordia... con
la tua sapienza hai formato l'uomo, perché domini sulle creature che tu
hai fatto, e governi il mondo con santità e giustizia» (9, 1.2-3).
Anche il Salmista esalta il dominio dell'uomo come segno della gloria e
dell'onore ricevuti dal Creatore: «Gli hai dato potere sulle opere
delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli
armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci
del mare, che percorrono le vie del mare» (Sal 8, 7-9).
Chiamato a coltivare e custodire il giardino del
mondo (cf. Gn 2, 15), l'uomo ha una specifica responsabilità
sull'ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al
servizio della sua dignità personale, della sua vita: in rapporto non
solo al presente, ma anche alle generazioni future. È la questione
ecologica — dalla preservazione degli «habitat» naturali delle
diverse specie animali e delle varie forme di vita, alla «ecologia
umana» propriamente detta 28
— che trova nella pagina biblica una luminosa e forte indicazione
etica per una soluzione rispettosa del grande bene della vita, di ogni
vita. In realtà, «il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un
potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e
abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La
limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa
simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto
dell'albero" (cf. Gn 2, 16-17), mostra con sufficiente
chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a
leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono
impunemente trasgredire».29
43. Una certa partecipazione dell'uomo alla
signoria di Dio si manifesta anche nella specifica responsabilità che
gli viene affidata nei confronti della vita propriamente umana. È
responsabilità che tocca il suo vertice nella donazione della vita mediante
la generazione da parte dell'uomo e della donna nel matrimonio, come
ci ricorda il Concilio Vaticano II: «Lo stesso Dio che disse: "non
è bene che l'uomo sia solo" (Gn 2, 18) e che "creò
all'inizio l'uomo maschio e femmina" (Mt 19, 4), volendo
comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella sua opera
creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: "crescete e
moltiplicatevi" (Gn 1, 28)».30
Parlando di «una certa speciale partecipazione»
dell'uomo e della donna all'«opera creatrice» di Dio, il Concilio
intende rilevare come la generazione del figlio sia un evento
profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge i coniugi
che formano «una sola carne» (Gn 2, 24) ed insieme Dio stesso
che si fa presente. Come ho scritto nella Lettera alle Famiglie, «quando
dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé
al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella
biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona. Affermando
che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di Dio Creatore nel
concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci
riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare
piuttosto che nella paternità e maternità umane Dio stesso è
presente in modo diverso da come avviene in ogni altra generazione
"sulla terra". Infatti soltanto da Dio può provenire quella
"immagine e somiglianza" che è propria dell'essere umano, così
come è avvenuto nella creazione. La generazione è la continuazione
della creazione».31
È quanto insegna, con linguaggio immediato ed
eloquente, il testo sacro riportando il grido gioioso della prima donna,
«la madre di tutti i viventi» (Gn 3, 20). Consapevole
dell'intervento di Dio, Eva esclama: «Ho acquistato un uomo dal Signore»
(Gn 4, 1). Nella generazione dunque, mediante la comunicazione
della vita dai genitori al figlio, si trasmette, grazie alla creazione
dell'anima immortale,32
l'immagine e la somiglianza di Dio stesso. In questo senso si esprime
l'inizio del «libro della genealogia di Adamo»: «Quando Dio creò
l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li
benedisse e li chiamò uomini quando furono creati. Adamo aveva
centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza, un
figlio e lo chiamò Set» (Gn 5, 1-3). Proprio in questo loro
ruolo di collaboratori di Dio, che trasmette la sua immagine alla
nuova creatura, sta la grandezza dei coniugi disposti «a cooperare
con l'amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro
continuamente dilata e arricchisce la Sua famiglia».33
In questa luce il Vescovo Anfilochio esaltava il «matrimonio santo,
eletto ed elevato al di sopra di tutti i doni terreni» come «generatore
dell'umanità, artefice di immagini di Dio».34
Così l'uomo e la donna uniti in matrimonio sono
associati ad un'opera divina: mediante l'atto della generazione, il dono
di Dio viene accolto e una nuova vita si apre al futuro.
Ma, al di là della missione specifica dei
genitori, il compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e
deve manifestarsi soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggior
debolezza. È Cristo stesso che ce lo ricorda, chiedendo di essere
amato e servito nei fratelli provati da qualsiasi tipo di sofferenza:
affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati... Quanto è
fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso (cf. Mt 25,
31-46).
«Sei tu che hai creato le mie viscere» (Sal
139/138, 13): la dignità del bambino non ancora nato
44. La vita umana viene a trovarsi in situazione di
grande precarietà quando entra nel mondo e quando esce dal tempo per
approdare all'eternità. Sono ben presenti nella Parola di Dio —
soprattutto nei riguardi dell'esistenza insidiata dalla malattia e dalla
vecchiaia — gli inviti alla cura e al rispetto. Se mancano inviti
diretti ed espliciti a salvaguardare la vita umana alle sue origini, in
specie la vita non ancora nata, come anche quella vicina alla sua fine,
ciò si spiega facilmente per il fatto che anche la sola possibilità di
offendere, aggredire o addirittura negare la vita in queste condizioni
esula dall'orizzonte religioso e culturale del popolo di Dio.
Nell'Antico Testamento la sterilità è temuta come
una maledizione, mentre la prole numerosa è sentita come una
benedizione: «Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto
del grembo» (Sal 127/126, 3; cf. Sal 128/127, 3-4). Gioca
in questa convinzione anche la consapevolezza di Israele di essere il
popolo dell'Alleanza, chiamato a moltiplicarsi secondo la promessa fatta
ad Abramo: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle...
tale sarà la tua discendenza» (Gn 15, 5). Ma è soprattutto
operante la certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la sua
origine in Dio, come attestano le tante pagine bibliche che con rispetto
e amore parlano del concepimento, del plasmarsi della vita nel grembo
materno, della nascita e dello stretto legame che v'è tra il momento
iniziale dell'esistenza e l'agire di Dio Creatore.
«Prima di formarti nel grembo materno, ti
conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato» (Ger
1, 5):l'esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è
nel disegno di Dio. Giobbe, dal fondo del suo dolore, si ferma a
contemplare l'opera di Dio nel miracoloso formarsi del suo corpo nel
grembo della madre, traendone motivo di fiducia ed esprimendo la
certezza dell'esistenza di un progetto divino sulla sua vita: «Le tue
mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti
ora distruggermi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in
polvere mi farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto
accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di
nervi mi hai intessuto. Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua
premura ha custodito il mio spirito» (10, 8-12). Accenti di adorante
stupore per l'intervento di Dio sulla vita in formazione nel grembo
materno risuonano anche nei Salmi.35
Come pensare che anche un solo momento di questo
meraviglioso processo dello sgorgare della vita possa essere sottratto
all'opera sapiente e amorosa del Creatore e lasciato in balìa
dell'arbitrio dell'uomo? Non lo pensa certo la madre dei sette fratelli,
che professa la sua fede in Dio, principio e garanzia della vita fin dal
suo concepimento, e al tempo stesso fondamento della speranza della
nuova vita oltre la morte: «Non so come siate apparsi nel mio seno; non
io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di
ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato
all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua
misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora
per le sue leggi non vi curate di voi stessi» (2 Mac 7, 22-23).
45. La rivelazione del Nuovo Testamento conferma l'indiscusso
riconoscimento del valore della vita fin dai suoi inizi.
L'esaltazione della fecondità e l'attesa premurosa della vita risuonano
nelle parole con cui Elisabetta gioisce per la sua gravidanza: «Il
Signore... si è degnato di togliere la mia vergogna» (Lc 1,
25). Ma ancor più il valore della persona fin dal suo concepimento è
celebrato nell'incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta, e tra i due
fanciulli che esse portano in grembo. Sono proprio loro, i bambini, a
rivelare l'avvento dell'era messianica: nel loro incontro inizia ad
operare la forza redentrice della presenza del Figlio di Dio tra gli
uomini. «Subito — scrive sant'Ambrogio — si fanno sentire i
benefici della venuta di Maria e della presenza del Signore...
Elisabetta udì per prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la
grazia; essa udì secondo l'ordine della natura, egli esultò in virtù
del mistero; essa sentì l'arrivo di Maria, egli del Signore; la donna
l'arrivo della donna, il bambino l'arrivo del Bambino. Esse parlano
delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la
grazia e il mistero della misericordia a profitto delle madri stesse: e
queste per un duplice miracolo profetizzano sotto l'ispirazione dei
figli che portano. Del figlio si dice che esultò, della madre che fu
ricolma di Spirito Santo. Non fu prima la madre a essere ricolma dello
Spirito, ma fu il figlio, ripieno di Spirito Santo, a ricolmare anche la
madre».36
«Ho creduto anche quando dicevo: "Sono
troppo infelice"» (Sal 116/115, 10): la vita nella
vecchiaia e nella sofferenza
46. Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti
dell'esistenza, sarebbe anacronistico attendersi dalla rivelazione
biblica un espresso riferimento all'attuale problematica del rispetto
delle persone anziane e malate e un'esplicita condanna dei tentativi di
anticiparne violentemente la fine: siamo infatti in un contesto
culturale e religioso che non è intaccato da simile tentazione, e che
anzi, per quanto riguarda l'anziano, riconosce nella sua saggezza ed
esperienza una insostituibile ricchezza per la famiglia e la società.
La vecchiaia è segnata da prestigio e
circondata da venerazione (cf. 2 Mac 6, 23). E il giusto non
chiede di essere privato della vecchiaia e del suo peso; al contrario
così egli prega: «Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin
dalla mia giovinezza... E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non
abbandonarmi, finché io annunzi la tua potenza, a tutte le generazioni
le tue meraviglie» (Sal 71/70, 5.18). L'ideale del tempo
messianico è proposto come quello in cui «non ci sarà più... un
vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni» (Is 65,
20).
Ma, nella vecchiaia, come affrontare il declino
inevitabile della vita? Come atteggiarsi di fronte alla morte? Il
credente sa che la sua vita sta nelle mani di Dio: «Signore, nelle
tue mani è la mia vita» (cf. Sal 16/15, 5), e da lui accetta
anche il morire: «Questo è il decreto del Signore per ogni uomo; perché
ribellarsi al volere dell'Altissimo?» (Sir 41, 4). Come della
vita, così della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come nella
sua morte, egli deve affidarsi totalmente al «volere dell'Altissimo»,
al suo disegno di amore.
Anche nel momento della malattia, l'uomo è
chiamato a vivere lo stesso affidamento al Signore e a rinnovare la sua
fondamentale fiducia in lui che «guarisce tutte le malattie» (cf. Sal
103/102, 3). Quando ogni orizzonte di salute sembra chiudersi di
fronte all'uomo — tanto da indurlo a gridare: «I miei giorni sono
come ombra che declina, e io come erba inaridisco» (Sal 102/101,
12) —, anche allora il credente è animato dalla fede incrollabile
nella potenza vivificante di Dio. La malattia non lo spinge alla
disperazione e alla ricerca della morte, ma all'invocazione piena di
speranza: «Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo
infelice" (Sal 116/115, 10); «Signore Dio mio, a te ho
gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi,
mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba» (Sal 30/29,
3-4).
47. La missione di Gesù, con le numerose
guarigioni operate, indica quanto Dio abbia a cuore anche la vita
corporale dell'uomo. «Medico della carne e dello spirito»,37
Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri e a
sanare i cuori affranti (cf. Lc 4, 18; Is 61, 1). Inviando
poi i suoi discepoli nel mondo, egli affida loro una missione, nella
quale la guarigione dei malati si accompagna all'annuncio del Vangelo:
«E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite
gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni»
(Mt 10, 7-8; cf. Mc 6, 13; 16, 18).
Certo, la vita del corpo nella sua condizione
terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può
essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù,
«chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,
35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo
Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa
della sua vita una offerta al Padre (cf. Gv 10, 17) e ai suoi (cf.
Gv 10, 15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore
del Salvatore, attesta che l'esistenza terrena non è il bene assoluto:
è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può
mettere in gioco la vita (cf. Mc 6, 17-29). E Stefano, mentre
viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della
risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai
suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At 7, 59-60),
aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri, venerati dalla
Chiesa fin dall'inizio.
Nessun uomo, tuttavia, può scegliere
arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è
padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale «viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28).
«Quanti si attengono ad essa avranno la vita»
(Bar 4, 1): dalla Legge del Sinai al dono dello Spirito
48. La vita porta indelebilmente inscritta in sé una
sua verità. L'uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi a mantenere
la vita in questa verità, che le è essenziale. Distaccarsene
equivale a condannare se stessi all'insignificanza e all'infelicità,
con la conseguenza di poter diventare anche una minaccia per l'esistenza
altrui, essendo stati rotti gli argini che garantiscono il rispetto e la
difesa della vita, in ogni situazione.
La verità della vita è rivelata dal
comandamento di Dio. La parola del Signore indica concretamente
quale indirizzo la vita debba seguire per poter rispettare la propria
verità e salvaguardare la propria dignità. Non è soltanto lo
specifico comandamento «non uccidere» (Es 20, 13; Dt 5,
17) ad assicurare la protezione della vita: tutta intera la Legge del
Signore è a servizio di tale protezione, perché rivela quella
verità nella quale la vita trova il suo pieno significato.
Non meraviglia, dunque, che l'Alleanza di Dio con
il suo popolo sia così fortemente legata alla prospettiva della vita,
anche nella sua dimensione corporea. Il comandamento è in essa
offerto come via della vita: «Io pongo oggi davanti a te la vita
e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il
Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi
comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e
il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a
prendere in possesso» (Dt 30, 15-16). È in questione non
soltanto la terra di Canaan e l'esistenza del popolo di Israele, ma il
mondo di oggi e del futuro e l'esistenza di tutta l'umanità. Infatti,
non è assolutamente possibile che la vita resti autentica e piena
distaccandosi dal bene; e il bene, a sua volta, è essenzialmente legato
ai comandamenti del Signore, cioè alla «legge della vita» (Sir 17,
9). Il bene da compiere non si sovrappone alla vita come un peso che
grava su di essa, perché la ragione stessa della vita è precisamente
il bene e la vita è costruita solo mediante il compimento del bene.
È dunque il complesso della Legge a
salvaguardare pienamente la vita dell'uomo. Ciò spiega come sia
difficile mantenersi fedeli al «non uccidere» quando non vengono
osservate le altre «parole di vita» (At 7, 38), alle quali
questo comandamento è connesso. Al di fuori di questo orizzonte, il
comandamento finisce per diventare un semplice obbligo estrinseco, di
cui ben presto si vorranno vedere i limiti e si cercheranno le
attenuazioni o le eccezioni. Solo se ci si apre alla pienezza della
verità su Dio, sull'uomo e sulla storia, la parola «non uccidere»
torna a risplendere come bene per l'uomo in tutte le sue dimensioni e
relazioni. In questa prospettiva possiamo cogliere la pienezza di verità
contenuta nel passo del libro del Deuteronomio, ripreso da Gesù nella
risposta alla prima tentazione: «L'uomo non vive soltanto di pane,
ma... di quanto esce dalla bocca del Signore» (8, 3; cf. Mt 4,
4). È ascoltando la parola del Signore che l'uomo può vivere secondo
dignità e giustizia; è osservando la Legge di Dio che l'uomo può
portare frutti di vita e di felicità: «quanti si attengono ad essa
avranno la vita, quanti l'abbandonano moriranno» (Bar 4, 1).
49. La storia di Israele mostra quanto sia difficile
mantenere la fedeltà alla legge della vita, che Dio ha inscritto
nel cuore degli uomini e ha consegnato sul Sinai al popolo
dell'Alleanza. Di fronte alla ricerca di progetti di vita alternativi al
piano di Dio, sono in particolare i Profeti a richiamare con forza che
solo il Signore è l'autentica fonte della vita. Così Geremia scrive:
«Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me,
sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che
non tengono l'acqua» (2, 13). I Profeti puntano il dito accusatore su
quanti disprezzano la vita e violano i diritti delle persone: «Calpestano
come la polvere della terra la testa dei poveri» (Am 2, 7); «Essi
hanno riempito questo luogo di sangue innocente» (Ger 19, 4). E
tra essi il profeta Ezechiele più volte stigmatizza la città di
Gerusalemme, chiamandola «la città sanguinaria» (22, 2; 24, 6.9), la
«città che sparge il sangue in mezzo a se stessa» (22, 3).
Ma mentre denunciano le offese alla vita, i Profeti
si preoccupano soprattutto di suscitare l'attesa di un nuovo
principio di vita, capace di fondare un rinnovato rapporto con Dio e
con i fratelli, dischiudendo possibilità inedite e straordinarie per
comprendere e attuare tutte le esigenze insite nel Vangelo della vita
. Ciò sarà possibile unicamente grazie al dono di Dio, che
purifica e rinnova: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati;
io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli;
vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo» (Ez
36, 25-26; cf. Ger 31, 31-34). Grazie a questo «cuore nuovo»
si può comprendere e realizzare il senso più vero e profondo della
vita: quello di essere un dono che si compie nel donarsi. È il
messaggio luminoso che sul valore della vita ci viene dalla figura del
Servo del Signore: «Quan- do offrirà se stesso in espiazione, vedrà
una discendenza, vivrà a lungo... Dopo il suo intimo tormento vedrà la
luce» (Is 53, 10.11).
È nella vicenda di Gesù di Nazaret che la Legge
si compie e il cuore nuovo viene donato mediante il suo Spirito. Gesù,
infatti, non rinnega la Legge, ma la porta a compimento (cf. Mt 5,
17): Legge e Profeti si riassumono nella regola d'oro dell'amore
reciproco (cf. Mt 7, 12). In Lui la Legge diventa definitivamente
«vangelo», buona notizia della signoria di Dio sul mondo, che riporta
tutta l'esistenza alle sue radici e alle sue prospettive originarie. È
la Legge Nuova, «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8, 2), la cui espressione fondamentale, a imitazione
del Signore che dà la vita per i propri amici (cf. Gv 15, 13),
è il dono di sé nell'amore ai fratelli: «Noi sappiamo di
essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1
Gv 3, 14). È legge di libertà, di gioia e di beatitudine.
«Volgeranno lo sguardo a colui che hanno
trafitto» (Gv 19, 37): sull'albero della Croce si compie
il Vangelo della vita
50. Al termine di questo capitolo, nel quale
abbiamo meditato il messaggio cristiano sulla vita, vorrei fermarmi con
ciascuno di voi a contemplare Colui che hanno trafitto e che
attira tutti a sé (cf. Gv 19, 37; 12, 32). Guardando «lo
spettacolo» della Croce (cf. Lc 23, 48), potremo scoprire in
questo albero glorioso il compimento e la rivelazione piena di tutto il Vangelo
della vita.
Nelle prime ore del pomeriggio del venerdì santo,
«il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra... Il velo del
tempio si squarciò nel mezzo» (Lc 23, 44.45). È il simbolo di
un grande sconvolgimento cosmico e di una immane lotta tra le forze del
bene e le forze del male, tra la vita e la morte. Noi pure, oggi, ci
troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la «cultura della morte»
e la «cultura della vita». Ma da questa oscurità lo splendore della
Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida e
luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la
storia e di ogni vita umana.
Gesù è inchiodato sulla Croce e viene innalzato
da terra. Vive il momento della sua massima «impotenza» e la sua vita
sembra totalmente consegnata agli scherni dei suoi avversari e alle mani
dei suoi uccisori: viene beffeggiato, deriso, oltraggiato (cf. Mc 15,
24-36). Eppure, proprio di fronte a tutto ciò e «vistolo spirare in
quel modo», il centurione romano esclama: «Veramente quest'uomo era
Figlio di Dio!» (Mc 15, 39). Si rivela così, nel momento della
sua estrema debolezza, l'identità del Figlio di Dio: sulla Croce si
manifesta la sua gloria!
Con la sua morte, Gesù illumina il senso della
vita e della morte di ogni essere umano. Prima di morire, Gesù prega il
Padre invocando il perdono per i suoi persecutori (cf. Lc 23, 34)
e al malfattore, che gli chiede di ricordarsi di lui nel suo regno,
risponde: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,
43). Dopo la sua morte «i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi
morti risuscitarono» (Mt 27, 52). La salvezza operata da Gesù
è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua esistenza, Gesù
aveva donato salvezza anche sanando e beneficando tutti (cf. At 10,
38). Ma i miracoli, le guarigioni e le stesse risuscitazioni erano segno
di un'altra salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia nella
liberazione dell'uomo dalla malattia più profonda, e nella sua
elevazione alla vita stessa di Dio.
Sulla Croce si rinnova e si realizza nella sua
piena e definitiva perfezione il prodigio del serpente innalzato da Mosè
nel deserto (cf. Gv 3, 14-15; Nm 21, 8-9). Anche oggi,
volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, ogni uomo minacciato
nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e
redenzione.
51. Ma c'è ancora un altro avvenimento preciso che
attira il mio sguardo e suscita la mia commossa meditazione: «Dopo aver
ricevuto l'aceto, Gesù disse: 'Tutto è compiuto!'. E, chinato il capo,
rese lo spirito» (Gv 19, 30). E il soldato romano «gli colpì
il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,
34).
Tutto ormai è giunto al suo pieno compimento. Il
«rendere lo spirito» descrive la morte di Gesù, simile a quella di
ogni altro essere umano, ma sembra alludere anche al «dono dello
Spirito», col quale Egli ci riscatta dalla morte e ci apre a una vita
nuova.
È la vita stessa di Dio che viene partecipata
all'uomo. È la vita che, mediante i sacramenti della Chiesa — di cui
il sangue e l'acqua sgorgati dal fianco di Cristo sono simbolo — viene
continuamente comunicata ai figli di Dio, costituiti così come popolo
della Nuova Alleanza. Dalla Croce, fonte di vita, nasce e si diffonde
il «popolo della vita».
La contemplazione della Croce ci porta così alle
radici più profonde di quanto è accaduto. Gesù, che entrando nel
mondo aveva detto: «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (cf.Eb
10, 9), si rese in tutto obbediente al Padre e, avendo «amato i
suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1),
donando tutto se stesso per loro.
Lui, che non era «venuto per essere servito, ma
per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,
45), raggiunge sulla Croce il vertice dell'amore. «Nessuno ha un amore
più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,
13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori (cf. Rm
5, 8).
In tal modo egli proclama che la vita raggiunge
il suo centro, il suo senso e la sua pienezza quando viene donata.
La meditazione a questo punto si fa lode e
ringraziamento e, nello stesso tempo, ci sollecita a imitare Gesù e a
seguirne le orme (cf. 1 Pt 2, 21).
Anche noi siamo chiamati a dare la nostra vita per
i fratelli realizzando così in pienezza di verità il senso e il
destino della nostra esistenza.
Lo potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai
donato l'esempio e ci hai comunicato la forza del tuo Spirito. Lo
potremo fare se ogni giorno, con Te e come Te, saremo obbedienti al
Padre e faremo la sua volontà.
Concedici, perciò, di ascoltare con cuore docile e
generoso ogni parola che esce dalla bocca di Dio: impareremo così non
solo a «non uccidere» la vita dell'uomo, ma a venerarla, amarla e
promuoverla.
CAPITOLO III torna
su
NON
UCCIDERE
LA LEGGE SANTA DI DIO
Se vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti» (Mt 19, 17): Vangelo e
comandamento
52. «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli
disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?"«(Mt 19, 16). Gesù
rispose: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17). Il Maestro parla della vita
eterna, ossia della partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l'osservanza dei
comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento «non uccidere». Proprio questo è il primo precetto
del Decalogo che Gesù ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: «Gesù rispose:
"Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare..."» (Mt 19, 18).
Il comandamento di Dio non è mai
separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. Come tale, costituisce un
aspetto essenziale e un elemento irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come «vangelo», ossia
buona e lieta notizia. Anche il Vangelo della vita è un grande dono di Dio e insieme un compito
impegnativo per l'uomo. Esso suscita stupore e gratitudine nella persona libera e chiede di essere accolto,
custodito e valorizzato con vivo senso di responsabilità: donandogli la vita, Dio esige dall'uomo che la
ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa
comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono.
L'uomo, immagine vivente di Dio, è voluto dal
suo Creatore come re e signore. «Dio ha fatto l'uomo — scrive san Gregorio di Nissa — in modo tale che
potesse svolgere la sua funzione di re della terra... L'uomo è stato creato a immagine di Colui che governa
l'universo. Tutto dimostra che fin dal principio la sua natura è contrassegnata dalla regalità... Anche l'uomo
è re. Creato per dominare il mondo, ha ricevuto la somiglianza col re universale, è l'immagine viva che
partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino modello».38
Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi, a soggiogare la terra e a dominare sugli esseri infraumani (cf. Gn 1,
28), l'uomo è re e signore non solo delle cose, ma anche ed anzitutto di se stesso 39
e, in un certo senso, della vita che gli è donata e che egli può trasmettere mediante l'opera generatrice
compiuta nell'amore e nel rispetto del disegno di Dio. La sua, tuttavia, non è una
signoria assoluta, ma ministeriale; è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per
questo l'uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all'amore incommensurabili di
Dio. E ciò avviene con l'obbedienza alla sua Legge santa: un'obbedienza libera e gioiosa (cf. Sal 119/118),
che nasce ed è nutrita dalla consapevolezza che i precetti del Signore sono dono di grazia affidati all'uomo
sempre e solo per il suo bene, per la custodia della sua dignità personale e per il perseguimento della sua
felicità.
Come già di fronte alle cose, ancor più di
fronte alla vita, l'uomo non è padrone assoluto e arbitro insindacabile, ma — e in questo sta la sua
impareggiabile grandezza — è «ministro del disegno di Dio».40
La vita viene affidata all'uomo come un tesoro da
non disperdere, come un talento da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere conto al suo Signore (cf. Mt 25,
14-30; Lc 19, 12-27).
«Domanderò
conto della vita dell'uomo all'uomo» (Gn 9, 5): la vita umana è
sacra e inviolabile
53. «La vita umana è sacra perché, fin dal suo
inizio, comporta "l'azione creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il
Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna
circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente».41
Con queste parole l'Istruzione Donum vitae espone il contenuto centrale della rivelazione di Dio sulla
sacralità e inviolabilità della vita umana.
La Sacra Scrittura, infatti, presenta
all'uomo il precetto «non uccidere» come comandamento divino (Es 20, 13; Dt 5, 17). Esso — come
ho già sottolineato — si trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il Signore conclude con il popolo
eletto; ma era già contenuto nell'originaria alleanza di Dio con l'umanità dopo il castigo purificatore del
diluvio, provocato dal dilagare del peccato e della violenza (cf. Gn 9, 5-6).
Dio si proclama Signore assoluto della vita
dell'uomo, plasmato a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita umana presenta, pertanto, un
carattere sacro ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore. Proprio per questo
sarà Dio a farsi giudice severo di ogni violazione del comandamento «non uccidere», posto alle basi dell'intera
convivenza sociale. Egli è il «goel», ossia il difensore dell'innocente (cf. Gn 4, 9-15; Is 41,
14; Ger 50, 34; Sal 19/18, 15). Anche in questo modo Dio dimostra di non godere della rovina dei
viventi (cf. Sap
1, 13). Solo Satana ne può godere: per la sua invidia la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2, 24).
Egli, che è «omicida fin da principio», è anche «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8, 44):
ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di morte, presentati come mete e frutti di vita.
54. Esplicitamente, il precetto «non uccidere»
ha un forte contenuto negativo: indica il confine estremo che non può mai essere valicato. Implicitamente, però,
esso spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la vita portando a promuoverla e a progredire
sulla via dell'amore che si dona, accoglie e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur con lentezze e
contraddizioni, ha conosciuto una maturazione progressiva secondo questo orientamento, preparandosi così al
grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è comandamento simile a quello dell'amore di Dio; «da questi due
comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (cf.
Mt 22, 36-40). «Il precetto... non uccidere... e qualsiasi altro comandamento — sottolinea san Paolo —
si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te stesso"«(Rm 13, 9; cf. Gal 5,
14). Assunto e portato a compimento nella Legge Nuova, il precetto «non uccidere» rimane come condizione
irrinunciabile per poter «entrare nella vita» (cf. Mt 19, 16-19). In questa stessa prospettiva, risuona
perentoria anche la parola dell'apostolo Giovanni: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida e voi sapete che
nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna» (1 Gv 3, 15).
Sin dai suoi inizi, la Tradizione viva
della Chiesa — come testimonia la Didachè, il più antico scritto cristiano non biblico — ha
riproposto in modo categorico il comandamento «non uccidere»: «Vi sono due vie, una della vita, e l'altra della
morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai
perire il bambino con l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ... non hanno
compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli
e con l'aborto fanno perire creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati dei
ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato. Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte
queste colpe!».42
Procedendo nel tempo, la stessa Tradizione della
Chiesa ha sempre unanimemente insegnato il valore assoluto e permanente del comandamento «non uccidere». È noto
che, nei primi secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi — insieme all'apostasia e
all'adulterio — e si esigeva una penitenza pubblica particolarmente onerosa e lunga prima che all'omicida
pentito venissero concessi il perdono e la riammissione nella comunione ecclesiale.
55. La cosa non deve stupire: uccidere l'essere
umano, nel quale è presente l'immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è padrone della
vita! Da sempre, tuttavia, di fronte ai molteplici e spesso drammatici casi che la vita individuale e sociale
presenta, la riflessione dei credenti ha cercato di raggiungere un'intelligenza più completa e profonda di quanto
il comandamento di Dio proibisca e prescriva.43 Vi sono, infatti,
situazioni in cui i valori proposti dalla Legge di Dio appaiono sotto forma di un vero paradosso. È il caso, ad
esempio, della legittima difesa, in cui il diritto a proteggere la propria vita e il dovere di non ledere
quella dell'altro risultano in concreto difficilmente componibili. Indubbiamente, il valore intrinseco della vita
e il dovere di portare amore a se stessi non meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa. Lo
stesso esigente precetto dell'amore per gli altri, enunciato nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, suppone
l'amore per se stessi quale termine di confronto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12,
31). Al diritto di difendersi, dunque, nessuno potrebbe rinunciare per scarso amore alla vita o a se stesso, ma
solo in forza di un amore eroico, che approfondisce e trasfigura lo stesso amore di sé, secondo lo spirito delle
beatitudini evangeliche (cf. Mt 5, 38-48) nella radicalità oblativa di cui è esempio sublime lo stesso
Signore Gesù.
D'altra parte, «la legittima difesa può essere
non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della
famiglia o della comunità civile».44 Accade purtroppo che la necessità
di porre l'aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua soppressione. In tale ipotesi, l'esito
mortale va attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli
non fosse moralmente responsabile per mancanza dell'uso della ragione.45
56. In questo orizzonte si colloca anche il
problema della pena di morte, su cui si registra, nella Chiesa come nella società civile, una crescente
tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una totale abolizione. Il problema va inquadrato
nell'ottica di una giustizia penale che sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e pertanto, in ultima
analisi, al disegno di Dio sull'uomo e sulla società. In effetti, la pena che la società infligge «ha come
primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa».46 La
pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei diritti personali e sociali mediante l'imposizione al
reo di una adeguata espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio della propria
libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle
persone, non senza offrire allo stesso reo uno stimolo e un aiuto a correggersi e redimersi.47
È chiaro che, proprio per conseguire tutte
queste finalità, la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non
devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè
la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più
adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.
In ogni caso resta valido il principio indicato
dal nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo cui «se i mezzi incruenti sono sufficienti per
difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone,
l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene
comune e sono più conformi alla dignità della persona umana».48
57. Se così grande attenzione va posta al
rispetto di ogni vita, persino di quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento «non uccidere» ha
valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente. E ciò tanto più se si tratta di un essere
umano debole e indifeso, che solo nella forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua radicale difesa
rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui.
In effetti, l'inviolabilità assoluta della vita
umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella
Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale unanimità è frutto evidente di quel
«senso soprannaturale della fede» che, suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall'errore il
popolo di Dio, quando «esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi».49
Dinanzi al progressivo attenuarsi nelle coscienze
e nella società della percezione dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni vita
umana innocente, specialmente al suo inizio e al suo termine, il
Magistero della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa della sacralità e dell'inviolabilità
della vita umana. Al Magistero pontificio, particolarmente insistente, s'è sempre unito quello episcopale, con
numerosi e ampi documenti dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di singoli Vescovi. Né è
mancato, forte e incisivo nella sua brevità, l'intervento del Concilio Vaticano II.50
Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito
a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'uccisione
diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre
gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della
ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla
Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale.51
La scelta deliberata di privare un essere umano
innocente della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come fine,
né come mezzo per un fine buono. È, infatti, grave disobbedienza alla legge morale, anzi a Dio stesso, autore e
garante di essa; contraddice le fondamentali virtù della giustizia e della carità. «Niente e nessuno può
autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato
incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro
affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può
legittimamente imporlo né permetterlo».52
Nel diritto alla vita, ogni essere umano
innocente è assolutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto
sociale che, per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla giustizia, riconoscendo e
tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non come una cosa di cui si possa disporre. Di fronte alla norma
morale che proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente «non ci sono privilegi né
eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa
alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali».53
«Ancora
informe mi hanno visto i tuoi occhi» (Sal 139/138, 16): il delitto
abominevole dell'aborto
58. Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere
contro la vita, l'aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile. Il
Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all'infanticidio, «delitto abominevole».54
Ma oggi, nella coscienza di molti, la percezione
della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel
costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre
più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita.
Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro
nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona
categorico il rimprovero del Profeta: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le
tenebre in luce e la luce in tenebre» (Is 5, 20). Proprio nel caso dell'aborto si registra la diffusione
di una terminologia ambigua, come quella di «interruzione della gravidanza», che tende a nasconderne la vera
natura e ad attenuarne la gravità nell'opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso
sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l'aborto procurato è l'uccisione
deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano
nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il
concepimento e la nascita.
La gravità morale dell'aborto procurato appare
in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le
circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia
quanto di più innocente
in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto
aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è
costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente
affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo. Eppure, talvolta, è proprio lei, la
mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.
È vero che molte volte la scelta abortiva
riveste per la madre carattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del
concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si vorrebbero salvaguardare
alcuni importanti beni, quali la propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della
famiglia. Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare che per lui sarebbe
meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai giustificare la
soppressione deliberata di un essere umano innocente.
59. A decidere della morte del bambino non ancora
nato, accanto alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non
solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando indirettamente favorisce tale sua decisione
perché la lascia sola di fronte ai problemi della gravidanza: 55 in tal
modo la famiglia viene mortalmente ferita e profanata nella sua natura di comunità di amore e nella sua vocazione
ad essere «santuario della vita». Né vanno taciute le sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio
contesto familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi
psicologicamente costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava
particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i
medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la
vita.
Ma la responsabilità coinvolge anche i
legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli
amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una responsabilità generale non
meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e
disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto — valide
politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari
difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a
comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la
legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle
singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita gravissima
inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Come ho scritto
nella mia Lettera alle Famiglie, «ci troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la vita, non solo di
singoli individui, ma anche dell'intera civiltà».56 Ci troviamo di
fronte a quella che può definirsi una «struttura
di peccato» contro la vita umana non ancora nata.
60. Alcuni tentano di giustificare l'aborto
sostenendo che il frutto del concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora
considerato una vita umana personale. In realtà, «dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una vita
che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non
sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica moderna
fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che
sarà questo vivente: una persona, questa persona individua con le sue note caratteristiche già ben determinate.
Fin dalla fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede
tempo, per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire».57 Anche se la
presenza di un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione di nessun dato sperimentale, sono le
stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire «un'indicazione preziosa per discernere
razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non
sarebbe una persona umana?».58
Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto
il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per
giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano. Proprio per questo,
al di là dei dibattiti scientifici e delle stesse affermazioni filosofiche nelle quali il Magistero non si è
espressamente impegnato, la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto della generazione umana,
dal primo momento della sua esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere
umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: «L'essere umano va rispettato e trattato come
una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti
della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita».59
61. I testi della Sacra Scrittura, che non
parlano mai di aborto volontario e quindi non presentano condanne dirette e specifiche in proposito, mostrano una
tale considerazione dell'essere umano nel grembo materno, da esigere come logica conseguenza che anche ad esso si
estenda il comandamento di Dio: «non uccidere».
La vita umana è sacra e inviolabile in ogni
momento della sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita. L'uomo, fin dal grembo materno,
appartiene a Dio che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani, che lo vede mentre è
ancora un piccolo embrione informe e che in lui intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati e la cui
vocazione è già scritta nel «libro della vita» (cf. Sal 139/138, 1.13-16). Anche lì, quando è ancora
nel grembo materno, — come testimoniano numerosi testi biblici 60 —
l'uomo è il termine personalissimo dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio.
La Tradizione cristiana — come ben
rileva la Dichiarazione emanata al riguardo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede 61
— è chiara e unanime, dalle origini fino ai nostri giorni, nel qualificare l'aborto come disordine morale
particolarmente grave. Fin dal suo primo confronto con il mondo greco-romano, nel quale erano ampiamente praticati
l'aborto e l'infanticidio, la comunità cristiana si è radicalmente opposta, con la sua dottrina e con la sua
prassi, ai costumi diffusi in quella società, come dimostra la già citata Didachè.62
Tra gli scrittori ecclesiastici di area greca, Atenagora ricorda che i cristiani considerano come omicide le donne
che fanno ricorso a medicine abortive, perché i bambini, anche se ancora nel seno della madre, «sono già
l'oggetto delle cure della Provvidenza divina».63 Tra i latini,
Tertulliano afferma: «È un omicidio anticipato impedire di nascere; poco importa che si sopprima l'anima già
nata o che la si faccia scomparire nel nascere. È già un uomo colui che lo sarà».64
Lungo la sua storia ormai bimillenaria, questa
medesima dottrina è stata costantemente insegnata dai Padri della Chiesa, dai suoi Pastori e Dottori. Anche le
discussioni di carattere scientifico e filosofico circa il momento preciso dell'infusione dell'anima spirituale
non hanno mai comportato alcuna esitazione circa la condanna morale dell'aborto.
62. Il più recente Magistero pontificio
ha ribadito con grande vigore questa dottrina comune. In particolare Pio XI nell'Enciclica Casti connubii ha
respinto le pretestuose giustificazioni dell'aborto; 65 Pio XII ha
escluso ogni aborto diretto, cioè ogni atto che tende direttamente a distruggere la vita umana non ancora nata,
«sia che tale distruzione venga intesa come fine o soltanto come mezzo al fine»; 66
Giovanni XXIII ha riaffermato che la vita umana è sacra, perché «fin dal suo affiorare impegna direttamente
l'azione creatrice di Dio».67 Il Concilio Vaticano II, come già
ricordato, ha condannato con grande severità l'aborto: «La vita, una volta concepita, deve essere protetta con
la massima cura; e l'aborto come l'infanticidio sono abominevoli delitti».68
La disciplina canonica della Chiesa, fin
dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della colpa dell'aborto e tale prassi,
con pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice
di Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della scomunica.69
Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce che «chi procura l'aborto
ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae»,70
cioè automatica. La scomunica colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi
anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: 71
con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così
chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della
scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi
un'adeguata conversione e penitenza.
Di fronte a una simile unanimità nella
tradizione dottrinale e disciplinare della Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che tale insegnamento non è
mutato ed è immutabile.72 Pertanto, con l'autorità che Cristo ha
conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie riprese hanno condannato
l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente
consentito circa questa dottrina — dichiaro
che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo,
costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente.
Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della
Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.73
Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna
legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di
Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa.
63. La valutazione morale dell'aborto è da
applicare anche alle recenti forme di intervento sugli
embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l'uccisione. È il
caso della sperimentazione
sugli embrioni, in crescente espansione nel campo della ricerca biomedica e legalmente ammessa in alcuni
Stati. Se «si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e
l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua
guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale»,74
si deve invece affermare che l'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un
delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino
già nato e ad ogni persona.75
La stessa condanna morale riguarda anche il
procedimento che sfrutta gli embrioni e i feti umani ancora vivi — talvolta «prodotti» appositamente per
questo scopo mediante la fecondazione in vitro — sia come «materiale biologico» da utilizzare sia come fornitori di organi o di
tessuti da trapiantare per la cura di alcune malattie. In realtà, l'uccisione di creature umane innocenti,
seppure a vantaggio di altre, costituisce un atto assolutamente inaccettabile.
Una speciale attenzione deve essere riservata
alla valutazione morale delle tecniche diagnostiche
prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del nascituro. Infatti, per la
complessità di queste tecniche, tale valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando sono esenti da
rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o
anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal
momento però che le possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non poche volte che
queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per impedire
la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è ignominiosa e quanto mai
riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di «normalità»
e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia.
In realtà, però, proprio il coraggio e la
serenità con cui tanti nostri fratelli, affetti da gravi
menomazioni, conducono la loro esistenza quando sono da noi
accettati ed amati, costituiscono una testimonianza
particolarmente efficace dei valori autentici che qualificano la
vita e che la rendono, anche in condizioni di difficoltà,
preziosa per sé e per gli altri. La Chiesa è vicina a quei
coniugi che, con grande ansia e sofferenza, accettano di
accogliere i loro bambini gravemente colpiti da handicap, così
come è grata a tutte quelle famiglie che, con l'adozione,
accolgono quanti sono stati abbandonati dai loro genitori a
motivo di menomazioni o malattie.
Sono io che do la morte e faccio
vivere» (Dt 32, 39): il dramma dell'eutanasia
64. All'altro capo dell'esistenza, l'uomo
si trova posto di fronte al mistero della morte. Oggi, in
seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale
spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si
presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando
prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in
cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno
scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo.
La morte, considerata «assurda» se interrompe improvvisamente
una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze
interessanti, diventa invece una «liberazione rivendicata»
quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché
immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più
acuta sofferenza.
Inoltre, rifiutando o dimenticando il suo
fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa di essere criterio e
norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere
anche alla società di garantirgli possibilità e modi di
decidere della propria vita in piena e totale autonomia. È, in
particolare, l'uomo che vive nei Paesi sviluppati a comportarsi
così: egli si sente spinto a ciò anche dai continui progressi
della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate.
Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la
scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di
risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o
eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita
perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare
artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari
hanno subito tracolli improvvisi, di intervenire per rendere
disponibili organi da trapiantare.
In un tale contesto si fa sempre più forte
la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi
della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine
«dolcemente» alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che
potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si
presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno
dei sintomi più allarmanti della «cultura di morte», che
avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate
da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso
e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e
debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e
dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di
criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita
irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.
65. Per un corretto giudizio morale
sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia
in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o
un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la
morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L'eutanasia si
situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».76
Da essa va distinta la decisione di
rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico»,
ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale
situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati
che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui
e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si
preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare
a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento
precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le
cure normali dovute all'ammalato in simili casi».77
Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare,
ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete;
occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione
siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di
miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati
non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto
l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.78
Nella medicina moderna vanno acquistando
rilievo particolare le cosiddette «cure palliative»,
destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase
finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al
paziente un adeguato accompagnamento umano. In questo contesto
sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai
diversi tipi di analgesici e sedativi per sollevare il malato
dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la
vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi
accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi
antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare,
se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore,
tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso
per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere
il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di
limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono
altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce
l'adempimento di altri doveri religiosi e morali».79
In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata,
nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio:
semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace,
ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina.
Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di
sé senza grave motivo»: 80
avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di
poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e
soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza
all'incontro definitivo con Dio.
Fatte queste distinzioni, in conformità
con il Magistero dei miei Predecessori 81
e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo
che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in
quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una
persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e
sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della
Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.82
Una tale pratica comporta, a seconda delle
circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio.
66. Ora, il suicidio è sempre moralmente
inaccettabile quanto l'omicidio. La tradizione della Chiesa l'ha
sempre respinto come scelta gravemente cattiva.83
Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e
sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così
radicalmente l'innata inclinazione di ognuno alla vita,
attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio,
sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale,
perché comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la
rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo,
verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società
nel suo insieme.84
Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della
sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così
proclamata nella preghiera dell'antico saggio di Israele: «Tu
hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte
degli inferi e fai risalire» (Sap 16, 13; cf. Tb 13,
2).
Condividere l'intenzione suicida di un
altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto «suicidio
assistito» significa farsi collaboratori, e qualche volta
attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai
essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. «Non è
mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant'Agostino
— uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo
chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di
essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del
corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il
malato non fosse più in grado di vivere».85
Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico
dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa
pietà, anzi una preoccupante «perversione» di essa: la
vera «compassione», infatti, rende solidale col dolore altrui,
non sopprime colui del quale non si può sopportare la
sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia
se viene compiuto da coloro che — come i parenti —
dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto
o da quanti — come i medici —, per la loro specifica
professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni
terminali più penose.
La scelta dell'eutanasia diventa più grave
quando si configura come un omicidio che gli altri
praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo e
che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il
colmo dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o
legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere
e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell'Eden:
diventare come Dio «conoscendo il bene e il male» (cf. Gn 3,
5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: «Sono
io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39; cf. 2
Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre
e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l'uomo
usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di
egoismo, inevitabilmente lo usa per l'ingiustizia e per la
morte.
Così la vita del più debole è messa
nelle mani del più forte; nella società si perde il senso
della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca,
fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.
67. Ben diversa, invece, è la via
dell'amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità
impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto,
illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore
dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte,
specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione
e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di
compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È
richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le
speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio
Vaticano II, «in faccia alla morte l'enigma della condizione
umana diventa sommo» per l'uomo; e tuttavia «l'istinto del
cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge
l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo
della sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé,
irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte».86
Questa naturale ripugnanza per la morte e
questa germinale speranza di immortalità sono illuminate e
portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e offre
la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la
vittoria di Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha
liberato l'uomo dalla morte, «salario del peccato» (Rm 6,
23), e gli ha donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita (cf. Rm 8, 11). La certezza dell'immortalità futura e la
speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce
nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel
credente una forza straordinaria per affidarsi al disegno di
Dio.
L'apostolo Paolo ha espresso questa novità
nei termini di un'appartenenza totale al Signore che abbraccia
qualsiasi condizione umana: «Nessuno di noi vive per se stesso
e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo
per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che
viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,
7-8). Morire per il Signore significa vivere la propria
morte come atto supremo di obbedienza al Padre (cf. Fil 2,
8), accettando di incontrarla nell'«ora» voluta e scelta da
lui (cf. Gv 13, 1), che solo può dire quando il cammino
terreno è compiuto. Vivere per il Signore significa
anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa
un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene. Lo
diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella
partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta
personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso. In tal
modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più
pienamente conformato a lui (cf. Fil 3, 10; 1 Pt 2,
21) e intimamente associato alla sua opera redentrice a favore
della Chiesa e dell'umanità.87
È questa l'esperienza dell'Apostolo, che anche ogni persona che
soffre è chiamata a rivivere: «Sono lieto delle sofferenze che
sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca
alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo
corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).
«Bisogna obbedire a Dio piuttosto
che agli uomini» (At 5, 29): la legge civile e la
legge morale
68. Una delle caratteristiche proprie degli
attuali attentati alla vita umana — come si è già detto più
volte — consiste nella tendenza ad esigere una loro legittimazione
giuridica, quasi fossero diritti che lo Stato, almeno a
certe condizioni, deve riconoscere ai cittadini e,
conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro attuazione
con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e degli operatori
sanitari.
Si pensa non poche volte che la vita di chi
non è ancora nato o è gravemente debilitato sia un bene solo
relativo: secondo una logica proporzionalista o di puro calcolo,
dovrebbe essere confrontata e soppesata con altri beni. E si
ritiene pure che solo chi si trova nella situazione concreta e
vi è personalmente coinvolto possa compiere una giusta
ponderazione dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui
potrebbe decidere della moralità della sua scelta. Lo Stato,
perciò, nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia
sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad
ammettere l'aborto e l'eutanasia.
Si pensa, altre volte, che la legge civile
non possa esigere che tutti i cittadini vivano secondo un grado
di moralità più elevato di quello che essi stessi riconoscono
e condividono. Per questo la legge dovrebbe sempre esprimere
l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini e
riconoscere loro, almeno in certi casi estremi, anche il diritto
all'aborto e all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la
punizione dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi
condurrebbero inevitabilmente — così si dice — ad un
aumento di pratiche illegali: esse, peraltro, non sarebbero
soggette al necessario controllo sociale e verrebbero attuate
senza la dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre, se
sostenere una legge concretamente non applicabile non
significhi, alla fine, minare anche l'autorità di ogni altra
legge.
Nelle opinioni più radicali, infine, si
giunge a sostenere che, in una società moderna e pluralistica,
dovrebbe essere riconosciuta a ogni persona piena autonomia di
disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora
nato: non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le
diverse opinioni morali e, tanto meno, essa potrebbe pretendere
di imporne una particolare a svantaggio delle altre.
69. In ogni caso, nella cultura democratica
del nostro tempo si è largamente diffusa l'opinione secondo la
quale l'ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi
a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e,
pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza
stessa riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene
addirittura che una verità comune e oggettiva sia di fatto
inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini — che
in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani —
esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia
delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme
che in ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si
adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque
essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe
separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello
del comportamento pubblico.
Si registrano, di conseguenza, due
tendenze, in apparenza diametralmente opposte. Da un lato, i
singoli individui rivendicano per sé la più completa autonomia
morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e
non imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire
lo spazio più ampio possibile alla libertà di ciascuno, con
l'unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia al
quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro lato, si
pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e
professionali, il rispetto dell'altrui libertà di scelta
imponga a ciascuno di prescindere dalle proprie convinzioni per
mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che le
leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico criterio
morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto è
stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la
responsabilità della persona viene delegata alla legge civile,
con un'abdicazione alla propria coscienza morale almeno
nell'ambito dell'azione pubblica.
70. Comune radice di tutte queste tendenze
è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte
della cultura contemporanea. Non manca chi ritiene che tale
relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto solo
esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone,
e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme
morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero
all'autoritarismo e all'intolleranza.
Ma è proprio la problematica del rispetto
della vita a mostrare quali equivoci e contraddizioni,
accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa
posizione.
È vero che la storia registra casi in cui
si sono commessi dei crimini in nome della «verità». Ma
crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si
sono commessi e si commettono anche in nome del «relativismo
etico». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta
la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni,
della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione
«tirannica» nei confronti dell'essere umano più debole e
indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei
confronti dei crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo
ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini
cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da
tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso
popolare?
In realtà, la democrazia non può essere
mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un
toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento»
e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale»
non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge
morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve
sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue
e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso
pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va
considerato un positivo «segno dei tempi», come anche il
Magistero della Chiesa ha più volte rilevato.88
Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa
incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono
certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei
suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione
del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita
politica.
Alla base di questi valori non possono
esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma
solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in
quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell'uomo, è punto
di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per
un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo
scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi
fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento
democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a
un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e
contrapposti interessi.89
Qualcuno potrebbe pensare che anche una
tale funzione, in mancanza di meglio, sia da apprezzare ai fini
della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di verità
in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un
ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può
assicurare una pace stabile, tanto più che la pace non misurata
sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra
tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi
partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene
spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di
manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la
formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia
diventa facilmente una parola vuota.
71. Urge dunque, per l'avvenire della
società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire
l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che
scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano ed esprimono
e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che
nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno
mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo
riconoscere, rispettare e promuovere.
Occorre riprendere, in tal senso, gli elementi
fondamentali della visione dei rapporti tra legge civile e legge
morale, quali sono proposti dalla Chiesa, ma che pure fanno
parte del patrimonio delle grandi tradizioni giuridiche
dell'umanità.
Certamente, il compito della legge
civile è diverso e di ambito più limitato rispetto a
quello della legge morale. Però «in nessun ambito di vita la
legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare
norme su ciò che esula dalla sua competenza»,90
che è quella di assicurare il bene comune delle persone,
attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali
diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità.91
Il compito della legge civile consiste, infatti, nel garantire
un'ordinata convivenza sociale nella vera giustizia, perché
tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con
tutta pietà e dignità» (1 Tm 2, 2). Proprio per
questo, la legge civile deve assicurare per tutti i membri della
società il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che
appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge
positiva deve riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra
tutti è l'inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano
innocente. Se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a
reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più
grave,92
essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto
dei singoli — anche se questi fossero la maggioranza dei
componenti la società —, l'offesa inferta ad altre persone
attraverso il misconoscimento di un loro diritto così
fondamentale come quello alla vita. La tolleranza legale
dell'aborto o dell'eutanasia non può in alcun modo richiamarsi
al rispetto della coscienza degli altri, proprio perché la
società ha il diritto e il dovere di tutelarsi contro gli abusi
che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il
pretesto della libertà.93
Nell'Enciclica Pacem in
terris, Giovanni
XXIII aveva ricordato in proposito: «Nell'epoca moderna
l'attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo
nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti
precipui dei poteri pubblici consistono, soprattutto, nel
riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei
diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere più
facile l'adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare
l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle
agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio
essenziale di ogni pubblico potere". Per cui ogni atto dei
poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una
violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la loro
stessa ragion d'essere e rimane per ciò stesso destituito
d'ogni valore giuridico».94
72. In continuità con tutta la tradizione
della Chiesa è anche la dottrina sulla necessaria conformità
della legge civile con la legge morale, come appare, ancora
una volta, dall'enciclica citata di Giovanni XXIII: «L'autorità
è postulata dall'ordine morale e deriva da Dio. Qualora
pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con
quell'ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse
non hanno forza di obbligare la coscienza...; in tal caso, anzi,
chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in
sopruso».95
È questo il limpido insegnamento di san Tommaso d'Aquino, che
tra l'altro scrive: «La legge umana in tanto è tale in quanto
è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge
eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione,
la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere
legge e diviene piuttosto un atto di violenza».96
E ancora: «Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di
legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in
qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non
sarà legge bensì corruzione della legge».97
Ora la prima e più immediata applicazione
di questa dottrina riguarda la legge umana che misconosce il
diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto proprio di
ogni uomo. Così le leggi che, con l'aborto e l'eutanasia,
legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti
sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto
inviolabile alla vita proprio di tutti gli uomini e negano,
pertanto, l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Si
potrebbe obiettare che tale non è il caso dell'eutanasia,
quando essa è richiesta in piena coscienza dal soggetto
interessato. Ma uno Stato che legittimasse tale richiesta e ne
autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a legalizzare un
caso di suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali
dell'indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita
innocente. In questo modo si favorisce una diminuzione del
rispetto della vita e si apre la strada a comportamenti
distruttivi della fiducia nei rapporti sociali.
Le leggi che autorizzano e favoriscono
l'aborto e l'eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo
contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e,
pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica.
Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché
porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha
motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente
e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene
comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l'aborto
o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge
civile, moralmente obbligante.
73. L'aborto e l'eutanasia sono dunque
crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare.
Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la
coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo
di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin
dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha
inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità
pubbliche legittimamente costituite (cf. Rm 13, 1-7; 1
Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente
che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,
29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle
minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di
resistenza al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che
aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le levatrici
degli Ebrei si opposero. Esse «non fecero come aveva loro
ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1,
17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro
comportamento: «Le levatrici temettero Dio» (ivi).
È proprio dall'obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel
timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità —
che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi
ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è
disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di
spada, nella certezza che «in questo sta la costanza e la fede
dei santi» (Ap 13, 10).
Nel caso quindi di una legge
intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l'aborto o
l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, «né
partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge
siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto».98
Un particolare problema di coscienza
potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare
risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva,
volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in
alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa
al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato
che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per
l'introduzione di leggi a favore dell'aborto, sostenute non
poche volte da potenti organismi internazionali, in altre
Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno già fatto
l'amara esperienza di simili legislazioni permissive — si
vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato,
quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente
una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta
opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe
lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare
i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti
negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così
facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una
legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso
tentativo di limitarne gli aspetti iniqui.
74. L'introduzione di legislazioni ingiuste
pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili
problemi di coscienza in materia di collaborazione in ragione
della doverosa affermazione del proprio diritto a non essere
costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta
le scelte che si impongono sono dolorose e possono richiedere il
sacrificio di affermate posizioni professionali o la rinuncia a
legittime prospettive di avanzamento nella carriera. In altri
casi, può risultare che il compiere alcune azioni in se stesse
indifferenti, o addirittura positive, previste nell'articolato
di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia
di vite umane minacciate. D'altro canto, però, si può
giustamente temere che la disponibilità a compiere tali azioni
non solo comporti uno scandalo e favorisca l'indebolirsi della
necessaria opposizione agli attentati contro la vita, ma induca
insensibilmente ad arrendersi sempre più ad una logica
permissiva.
Per illuminare questa difficile questione
morale occorre richiamare i principi generali sulla cooperazione
ad azioni cattive. I cristiani, come tutti gli uomini di
buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza,
a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche
che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto
con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è
mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si
verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o
per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto
contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto
contro la vita umana innocente o come condivisione
dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa
cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il
rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che
la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che
ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità
morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno
sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2, 6; 14, 12).
Rifiutarsi di partecipare a commettere
un'ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è anche un
diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana
sarebbe costretta a compiere un'azione intrinsecamente
incompatibile con la sua dignità e in tal modo la sua stessa
libertà, il cui senso e fine autentici risiedono
nell'orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente
compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto essenziale che,
proprio perché tale, dovrebbe essere previsto e protetto dalla
stessa legge civile. In tal senso, la possibilità di rifiutarsi
di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed esecutiva
di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai
medici, agli operatori sanitari e ai responsabili delle
istituzioni ospedaliere, delle cliniche e delle case di cura.
Chi ricorre all'obiezione di coscienza deve essere salvaguardato
non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno sul
piano legale, disciplinare, economico e professionale.
«Amerai il prossimo tuo come te
stesso» (Lc 10, 27): «promuovi» la vita.
75. I comandamenti di Dio ci insegnano la
via della vita. I precetti morali negativi, cioè quelli
che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una
determinata azione, hanno un valore assoluto per la libertà
umana: essi valgono sempre e comunque, senza eccezioni. Indicano
che la scelta di determinati comportamenti è radicalmente
incompatibile con l'amore verso Dio e con la dignità della
persona, creata a sua immagine: tale scelta, perciò, non può
essere riscattata dalla bontà di nessuna intenzione e di
nessuna conseguenza, è in contrasto insanabile con la comunione
tra le persone, contraddice la decisione fondamentale di
orientare la propria vita a Dio.99
Già in questo senso i precetti morali
negativi hanno un'importantissima funzione positiva: il «no»
che esigono incondizionatamente dice il limite invalicabile al
di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme,
indica il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve
partire per pronunciare innumerevoli «sì», capaci di occupare
progressivamente l'intero orizzonte del bene (cf. Mt 5,
48). I comandamenti, in particolare i precetti morali negativi,
sono l'inizio e la prima tappa necessaria del cammino verso la
libertà: «La prima libertà — scrive sant'Agostino —
consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero
l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il
sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi
crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il
capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della
libertà, non la libertà perfetta».100
76. Il comandamento «non uccidere»
stabilisce quindi il punto di partenza di un cammino di vera
libertà, che ci porta a promuovere attivamente la vita e
sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo
servizio: così facendo esercitiamo la nostra responsabilità
verso le persone che ci sono affidate e manifestiamo, nei fatti
e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio per il grande dono
della vita (cf. Sal 139/138, 13-14).
Il Creatore ha affidato la vita dell'uomo
alla sua responsabile sollecitudine, non perché ne disponga in
modo arbitrario, ma perché la custodisca con saggezza e la
amministri con amorevole fedeltà. Il Dio dell'Alleanza ha
affidato la vita di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello,
secondo la legge della reciprocità del dare e del ricevere, del
dono di sé e dell'accoglienza dell'altro. Nella pienezza dei
tempi, incarnandosi e donando la sua vita per l'uomo, il Figlio
di Dio ha mostrato a quale altezza e profondità possa giungere
questa legge della reciprocità. Con il dono del suo Spirito,
Cristo dà contenuti e significati nuovi alla legge della
reciprocità, all'affidamento dell'uomo all'uomo. Lo Spirito,
che è artefice di comunione nell'amore, crea tra gli uomini una
nuova fraternità e solidarietà, vero riflesso del mistero di
reciproca donazione e accoglienza proprio della Trinità
santissima. Lo stesso Spirito diventa la legge nuova, che dona
ai credenti la forza e sollecita la loro responsabilità per
vivere reciprocamente il dono di sé e l'accoglienza dell'altro,
partecipando all'amore stesso di Gesù Cristo e secondo la sua
misura.
77. Da questa legge nuova viene animato e
plasmato anche il comandamento del «non uccidere». Per il
cristiano, quindi, esso implica in definitiva l'imperativo di
rispettare, amare e promuovere la vita di ogni fratello, secondo
le esigenze e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo.
«Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo
dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16).
Il comandamento del «non uccidere», anche
nei suoi contenuti più positivi di rispetto, amore e promozione
della vita umana, vincola ogni uomo. Esso, infatti, risuona
nella coscienza morale di ciascuno come un'eco insopprimibile
dell'alleanza originaria di Dio creatore con l'uomo; da tutti può
essere conosciuto alla luce della ragione e può essere
osservato grazie all'opera misteriosa dello Spirito che,
soffiando dove vuole (cf. Gv 3, 8), raggiunge e coinvolge
ogni uomo che vive in questo mondo.
È dunque un servizio d'amore quello che
tutti siamo impegnati ad assicurare al nostro prossimo, perché
la sua vita sia difesa e promossa sempre, ma soprattutto quando
è più debole o minacciata. È una sollecitudine non solo
personale ma sociale, che tutti dobbiamo coltivare, ponendo
l'incondizionato rispetto della vita umana a fondamento di una
rinnovata società.
Ci è chiesto di amare e onorare la vita di
ogni uomo e di ogni donna e di lavorare con costanza e con
coraggio, perché nel nostro tempo, attraversato da troppi segni
di morte, si instauri finalmente una nuova cultura della vita,
frutto della cultura della verità e dell'amore.
CAPITOLO
IV torna
su
L'AVETE
FATTO A ME
PER UNA NUOVA CULTURA DELLA VITA UMANA
«Voi siete il popolo che Dio
si è acquistato perché proclami le sue opere
meravigliose» (1 Pt 2, 9): il popolo
della vita e per la vita
78. La Chiesa ha ricevuto il
Vangelo come annuncio e fonte di gioia e di salvezza.
L'ha ricevuto in dono da Gesù, inviato dal Padre «per
annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4,
18). L'ha ricevuto mediante gli Apostoli, da Lui mandati
in tutto il mondo (cf. Mc 16, 15; Mt 28,
19-20). Nata da questa azione evangelizzatrice, la
Chiesa sente risuonare in se stessa ogni giorno la
parola ammonitrice dell'Apostolo: «Guai a me se non
predicassi il Vangelo» (1 Cor 9, 16). «Evangelizzare,
infatti, — come scriveva Paolo VI — è la grazia
e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità
più profonda. Essa esiste per evangelizzare».101
L'evangelizzazione è un'azione
globale e dinamica, che coinvolge la Chiesa nella sua
partecipazione alla missione profetica, sacerdotale e
regale del Signore Gesù. Essa, pertanto, comporta
inscindibilmente le dimensioni dell'annuncio, della
celebrazione e del servizio della carità. È un atto
profondamente ecclesiale, che chiama in causa tutti
i diversi operai del Vangelo, ciascuno secondo i propri
carismi e il proprio ministero.
Così è anche quando si tratta di
annunciare il Vangelo della vita, parte
integrante del Vangelo che è Gesù Cristo. Di questo
Vangelo noi siamo al servizio, sostenuti dalla
consapevolezza di averlo ricevuto in dono e di essere
inviati a proclamarlo a tutta l'umanità «fino agli
estremi confini della terra» (At 1, 8). Nutriamo
perciò umile e grata coscienza di essere il popolo
della vita e per la vita e in tal modo ci
presentiamo davanti a tutti.
79. Siamo il popolo della vita perché
Dio, nel suo amore gratuito, ci ha donato il Vangelo
della vita e da questo stesso Vangelo noi siamo
stati trasformati e salvati. Siamo stati riconquistati
dall' «autore della vita» (At 3, 15) a prezzo
del suo sangue prezioso (cf. 1 Cor 6, 20; 7, 23; 1
Pt 1, 19) e mediante il lavacro battesimale siamo
stati inseriti in lui (cf. Rm 6, 4-5; Col 2,
12), come rami che dall'unico albero traggono linfa e
fecondità (cf. Gv 15, 5). Rinnovati
interiormente dalla grazia dello Spirito, «che è
Signore e dà la vita», siamo diventati un popolo
per la vita e come tali siamo chiamati a
comportarci.
Siamo mandati: essere al
servizio della vita non è per noi un vanto, ma un
dovere, che nasce dalla coscienza di essere «il popolo
che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere
meravigliose» (1 Pt 2, 9). Nel nostro cammino ci
guida e ci sostiene la legge dell'amore: è l'amore
di cui è sorgente e modello il Figlio di Dio fatto
uomo, che «morendo ha dato la vita al mondo».102
Siamo mandati come popolo. L'impegno
a servizio della vita grava su tutti e su ciascuno. È
una responsabilità propriamente «ecclesiale», che
esige l'azione concertata e generosa di tutti i membri e
di tutte le articolazioni della comunità cristiana. Il
compito comunitario però non elimina né diminuisce la
responsabilità della singola persona, alla quale
è rivolto il comando del Signore a «farsi prossimo»
di ogni uomo: «Và e anche tu fà lo stesso» (Lc 10,
37).
Tutti insieme sentiamo il dovere di
annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo
nella liturgia e nell'intera esistenza, di servirlo
con le diverse iniziative e strutture di sostegno e
di promozione.
«Quello che abbiamo veduto e
udito noi lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1,
3): annunciare il Vangelo della vita
80. «Ciò che era fin da
principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi
abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo
contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita... noi lo annunziamo anche a
voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1
Gv 1, 1.3). Gesù è l'unico Vangelo: noi non
abbiamo altro da dire e da testimoniare.
È proprio l'annuncio di Gesù
ad essere annuncio della vita. Egli, infatti, è
«il Verbo della vita» (1 Gv 1, 1). In lui «la
vita si è fatta visibile» (1 Gv 1, 2); anzi lui
stesso è «la vita eterna, che era presso il Padre e si
è resa visibile a noi» (ivi). Questa stessa
vita, grazie al dono dello Spirito, è stata comunicata
all'uomo. Ordinata alla vita in pienezza, la «vita
eterna», anche la vita terrena di ciascuno acquista il
suo senso pieno.
Illuminati da questo Vangelo
della vita, sentiamo il bisogno di proclamarlo e di
testimoniarlo nella novità sorprendente che lo
contraddistingue: poiché si identifica con Gesù
stesso, apportatore di ogni novità 103
e vincitore della «vecchiezza» che deriva dal peccato
e porta alla morte,104
tale Vangelo supera ogni aspettativa dell'uomo e svela a
quali sublimi altezze viene elevata, per grazia, la
dignità della persona. Così la contempla san Gregorio
di Nissa: «L'uomo che, tra gli esseri, non conta nulla,
che è polvere, erba, vanità, una volta che è adottato
dal Dio dell'universo come figlio, diventa familiare di
questo Essere, la cui eccellenza e grandezza nessuno
può vedere, ascoltare e comprendere. Con quale parola,
pensiero o slancio dello spirito si potrà esaltare la
sovrabbondanza di questa grazia? L'uomo sorpassa la sua
natura: da mortale diventa immortale, da perituro
imperituro, da effimero eterno, da uomo diventa dio».105
La gratitudine e la gioia per
l'incommensurabile dignità dell'uomo ci spinge a
rendere tutti partecipi di questo messaggio: «Quello
che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a
voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1
Gv 1, 3). È necessario far giungere il Vangelo
della vita al cuore di ogni uomo e donna e
immetterlo nelle pieghe più recondite dell'intera
società.
81. Si tratta di annunciare
anzitutto il centro di questo Vangelo. Esso è
annuncio di un Dio vivo e vicino, che ci chiama a una
profonda comunione con sé e ci apre alla speranza certa
della vita eterna; è affermazione dell'inscindibile
legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la
sua corporeità; è presentazione della vita umana come
vita di relazione, dono di Dio, frutto e segno del suo
amore; è proclamazione dello straordinario rapporto di
Gesù con ciascun uomo, che consente di riconoscere in
ogni volto umano il volto di Cristo; è indicazione del
«dono sincero di sé» quale compito e luogo di
realizzazione piena della propria libertà.
Nello stesso tempo, si tratta di
additare tutte le conseguenze di questo stesso
Vangelo, che così si possono riassumere: la vita umana,
dono prezioso di Dio, è sacra e inviolabile e per
questo, in particolare, sono assolutamente inaccettabili
l'aborto procurato e l'eutanasia; la vita dell'uomo non
solo non deve essere soppressa, ma va protetta con ogni
amorosa attenzione; la vita trova il suo senso
nell'amore ricevuto e donato, nel cui orizzonte
attingono piena verità la sessualità e la procreazione
umana; in questo amore anche la sofferenza e la morte
hanno un senso e, pur permanendo il mistero che le
avvolge, possono diventare eventi di salvezza; il
rispetto per la vita esige che la scienza e la tecnica
siano sempre ordinate all'uomo e al suo sviluppo
integrale; l'intera società deve rispettare, difendere
e promuovere la dignità di ogni persona umana, in ogni
momento e condizione della sua vita.
82. Per essere veramente un popolo
al servizio della vita dobbiamo, con costanza e
coraggio, proporre questi contenuti fin dal primo
annuncio del Vangelo e, in seguito, nella catechesi e
nelle diverse forme di predicazione, nel dialogo
personale e in ogni azione educativa. Agli
educatori, insegnanti, catechisti e teologi, spetta il
compito di mettere in risalto le ragioni
antropologiche che fondano e sostengono il rispetto
di ogni vita umana. In tal modo, mentre faremo
risplendere l'originale novità del Vangelo della
vita, potremo aiutare tutti a scoprire anche alla
luce della ragione e dell'esperienza, come il messaggio
cristiano illumini pienamente l'uomo e il significato
del suo essere ed esistere; troveremo preziosi punti di
incontro e di dialogo anche con i non credenti, tutti
insieme impegnati a far sorgere una nuova cultura della
vita.
Circondati dalle voci più
contrastanti, mentre molti rigettano la sana dottrina
intorno alla vita dell'uomo, sentiamo rivolta anche a
noi la supplica indirizzata da Paolo a Timoteo:
«Annunzia la parola, insisti in ogni occasione
opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta
con ogni magnanimità e dottrina» (2 Tm 4, 2).
Questa esortazione deve risuonare con particolare vigore
nel cuore di quanti, nella Chiesa, partecipano più
direttamente, a diverso titolo, alla sua missione di
«maestra» della verità. Risuoni innanzitutto per noi Vescovi:
a noi per primi è chiesto di farci annunciatori
instancabili del Vangelo della vita; a noi è pure
affidato il compito di vigilare sulla trasmissione
integra e fedele dell'insegnamento riproposto in questa
Enciclica e di ricorrere alle misure più opportune
perché i fedeli siano preservati da ogni dottrina ad
esso contraria. Una speciale attenzione dobbiamo porre
perché nelle facoltà teologiche, nei seminari e nelle
diverse istituzioni cattoliche venga diffusa, illustrata
e approfondita la conoscenza della sana dottrina.106
L'esortazione di Paolo risuoni per tutti i teologi, per
i pastori e per quanti altri svolgono compiti di insegnamento,
catechesi e formazione delle coscienze: consapevoli
del ruolo ad essi spettante, non si assumano mai la
grave responsabilità di tradire la verità e la loro
stessa missione esponendo idee personali contrarie al Vangelo
della vita quale il Magistero fedelmente ripropone e
interpreta.
Nell'annunciare questo Vangelo, non
dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità,
rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci
conformerebbero alla mentalità di questo mondo (cf. Rm
12, 2). Dobbiamo essere nel mondo ma non del
mondo (cf. Gv 15, 19; 17, 16), con la forza
che ci viene da Cristo, che con la sua morte e
risurrezione ha vinto il mondo (cf. Gv 16, 33).
«Ti lodo perché mi hai
fatto come un prodigio» (Sal 139/138, 14): celebrare
il Vangelo della vita
83. Mandati nel mondo come «popolo
per la vita», il nostro annuncio deve diventare anche una
vera e propria celebrazione del Vangelo della vita. È
anzi questa stessa celebrazione, con la forza evocativa
dei suoi gesti, simboli e riti, a diventare luogo
prezioso e significativo per trasmettere la bellezza e
la grandezza di questo Vangelo.
A tal fine, urge anzitutto coltivare,
in noi e negli altri, uno sguardo contemplativo.107
Questo nasce dalla fede nel Dio della vita, che ha
creato ogni uomo facendolo come un prodigio (cf. Sal
139/138, 14). È lo sguardo di chi vede la vita nella
sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità,
di bellezza, di provocazione alla libertà e alla
responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende
d'impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un
dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e
in ogni persona la sua immagine vivente (cf. Gn 1,
27; Sal 8, 6). Questo sguardo non si arrende
sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella
sofferenza, nella marginalità e alle soglie della
morte; ma da tutte queste situazioni si lascia
interpellare per andare alla ricerca di un senso e,
proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel
volto di ogni persona un appello al confronto, al
dialogo, alla solidarietà.
È tempo di assumere tutti questo
sguardo, ridiventando capaci, con l'animo colmo di
religioso stupore, di venerare e onorare ogni uomo, come
ci invitava a fare Paolo VI in uno dei suoi messaggi
natalizi.108
Animato da questo sguardo contemplativo, il popolo nuovo
dei redenti non può non prorompere in inni di gioia,
di lode e di ringraziamento per il dono inestimabile
della vita, per il mistero della chiamata di ogni
uomo a partecipare in Cristo alla vita di grazia e a
un'esistenza di comunione senza fine con Dio Creatore e
Padre.
84. Celebrare il Vangelo della
vita significa celebrare il Dio della vita, il Dio
che dona la vita: «Noi dobbiamo celebrare la Vita
eterna, dalla quale procede qualsiasi altra vita. Da
essa riceve la vita, proporzionalmente alle sue
capacità, ogni essere che partecipa in qualche modo
alla vita. Questa Vita divina, che è al di sopra di
qualsiasi vita, vivifica e conserva la vita. Qualsiasi
vita e qualsiasi movimento vitale procedono da questa
Vita che trascende ogni vita ed ogni principio di vita.
Ad essa le anime debbono la loro incorruttibilità, come
pure grazie ad essa vivono tutti gli animali e tutte le
piante, che ricevono della vita l'eco più debole. Agli
uomini, esseri composti di spirito e di materia, la Vita
dona la vita. Se poi ci accade di abbandonarla, allora
la Vita, per il traboccare del suo amore verso l'uomo,
ci converte e ci richiama a sé. Non solo: ci promette
di condurci, anime e corpi, alla vita perfetta,
all'immortalità. È troppo poco dire che questa Vita è
viva: essa è Principio di vita, Causa e Sorgente unica
di vita. Ogni vivente deve contemplarla e lodarla: è
Vita che trabocca vita».109
Anche noi, come il Salmista, nella preghiera
quotidiana, individuale e comunitaria, lodiamo e
benediciamo Dio nostro Padre, che ci ha tessuti nel seno
materno e ci ha visti e amati quando ancora eravamo
informi (cf. Sal 139/138, 13. 15-16), ed
esclamiamo con gioia incontenibile: «Ti lodo, perché
mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue
opere, tu mi conosci fino in fondo» (Sal 139/138,
14). Sì, «questa vita mortale è, nonostante i suoi
travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la
sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio
sempre originale e commovente, un avvenimento degno
d'essere cantato in gaudio e in gloria».110
Di più, l'uomo e la sua vita non ci appaiono solo come
uno dei prodigi più alti della creazione: all'uomo Dio
ha conferito una dignità quasi divina (cf. Sal 8,
6-7). In ogni bimbo che nasce e in ogni uomo che vive o
che muore noi riconosciamo l'immagine della gloria di
Dio: questa gloria noi celebriamo in ogni uomo, segno
del Dio vivente, icona di Gesù Cristo.
Siamo chiamati ad esprimere stupore
e gratitudine per la vita ricevuta in dono e ad
accogliere, gustare e comunicare il Vangelo della
vita non solo con la preghiera personale e
comunitaria, ma soprattutto con le celebrazioni
dell'anno liturgico. Sono qui da ricordare in
particolare i Sacramenti, segni efficaci della
presenza e dell'azione salvifica del Signore Gesù
nell'esistenza cristiana: essi rendono gli uomini
partecipi della vita divina, assicurando loro l'energia
spirituale necessaria per realizzare nella sua piena
verità il significato del vivere, del soffrire e del
morire. Grazie ad una genuina riscoperta del senso dei
riti e ad una loro adeguata valorizzazione, le
celebrazioni liturgiche, soprattutto quelle
sacramentali, saranno sempre più in grado di esprimere
la verità piena sulla nascita, la vita, la sofferenza e
la morte, aiutando a vivere queste realtà come
partecipazione al mistero pasquale di Cristo morto e
risorto.
85. Nella celebrazione del Vangelo
della vita occorre saper apprezzare e valorizzare
anche i gesti e i simboli, di cui sono ricche le diverse
tradizioni e consuetudini culturali e popolari. Sono
momenti e forme di incontro con cui, nei diversi Paesi e
culture, si manifestano la gioia per una vita che nasce,
il rispetto e la difesa di ogni esistenza umana, la cura
per chi soffre o è nel bisogno, la vicinanza
all'anziano o al morente, la condivisione del dolore di
chi è nel lutto, la speranza e il desiderio
dell'immortalità.
In questa prospettiva, accogliendo
anche il suggerimento offerto dai Cardinali nel
Concistoro del 1991, propongo che si celebri ogni anno
nelle varie Nazioni una Giornata per la Vita,
quale già si attua ad iniziativa di alcune Conferenze
Episcopali. È necessario che tale Giornata venga
preparata e celebrata con l'attiva partecipazione di
tutte le componenti della Chiesa locale. Suo scopo
fondamentale è quello di suscitare, nelle coscienze,
nelle famiglie, nella Chiesa e nella società civile, il
riconoscimento del senso e del valore della vita umana
in ogni suo momento e condizione, ponendo
particolarmente al centro dell'attenzione la gravità
dell'aborto e dell'eutanasia, senza tuttavia trascurare
gli altri momenti e aspetti della vita, che meritano di
essere presi di volta in volta in attenta
considerazione, secondo quanto suggerito dall'evolversi
della situazione storica.
86. Nella logica del culto
spirituale gradito a Dio (cf. Rm 12, 1), la
celebrazione del Vangelo della vita chiede di
realizzarsi soprattutto nell'esistenza quotidiana, vissuta
nell'amore per gli altri e nella donazione di se stessi.
Sarà così tutta la nostra esistenza a farsi
accoglienza autentica e responsabile del dono della vita
e lode sincera e riconoscente a Dio che ci ha fatto tale
dono. È quanto già avviene in tantissimi gesti di
donazione, spesso umile e nascosta, compiuti da uomini e
donne, bambini e adulti, giovani e anziani, sani e
ammalati.
È in questo contesto, ricco di
umanità e di amore, che nascono anche i gesti
eroici. Essi sono la celebrazione più solenne
del Vangelo della vita, perché lo proclamano con
il dono totale di sé; sono la manifestazione
luminosa del grado più elevato di amore, che è dare la
vita per la persona amata (cf. Gv 15, 13); sono
la partecipazione al mistero della Croce, nella quale
Gesù svela quanto valore abbia per lui la vita di ogni
uomo e come questa si realizzi in pienezza nel dono
sincero di sé. Al di là dei fatti clamorosi, c'è
l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi
gesti di condivisione che alimentano un'autentica
cultura della vita. Tra questi gesti merita particolare
apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme
eticamente accettabili, per offrire una possibilità di
salute e perfino di vita a malati talvolta privi di
speranza.
A tale eroismo del quotidiano
appartiene la testimonianza silenziosa, ma quanto mai
feconda ed eloquente, di «tutte le madri coraggiose,
che si dedicano senza riserve alla propria famiglia, che
soffrono nel dare alla luce i propri figli, e poi sono
pronte ad intraprendere ogni fatica, ad affrontare ogni
sacrificio, per trasmettere loro quanto di meglio esse
custodiscono in sé».111
Nel vivere la loro missione «non sempre queste madri
eroiche trovano sostegno nel loro ambiente. Anzi, i
modelli di civiltà, spesso promossi e propagati dai
mezzi di comunicazione, non favoriscono la maternità.
Nel nome del progresso e della modernità vengono
presentati come ormai superati i valori della fedeltà,
della castità, del sacrificio, nei quali si sono
distinte e continuano a distinguersi schiere di spose e
di madri cristiane... Vi ringraziamo, madri eroiche, per
il vostro amore invincibile! Vi ringraziamo per
l'intrepida fiducia in Dio e nel suo amore. Vi
ringraziamo per il sacrificio della vostra vita...
Cristo nel Mistero pasquale vi restituisce il dono che
gli avete fatto. Egli infatti ha il potere di
restituirvi la vita che gli avete portato in offerta».112
«Che giova, fratelli miei se
uno dice di avere la fede ma non ha le opere?» (Gc
2, 14): servire il Vangelo della vita
87. In forza della partecipazione
alla missione regale di Cristo, il sostegno e la
promozione della vita umana devono attuarsi mediante il servizio
della carità, che si esprime nella testimonianza
personale, nelle diverse forme di volontariato,
nell'animazione sociale e nell'impegno politico. È,
questa, un'esigenza particolarmente pressante
nell'ora presente, nella quale la «cultura della
morte» così fortemente si contrappone alla «cultura
della vita» e spesso sembra avere il sopravvento. Ancor
prima, però, è un'esigenza che nasce dalla «fede che
opera per mezzo della carità» (Gal 5, 6), come
ci ammonisce la Lettera di Giacomo: «Che giova,
fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le
opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un
fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti
del cibo quotidiano e uno di voi dice loro:
"Andatevene in pace, riscaldatevi e
saziatevi", ma non date loro il necessario per il
corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le
opere, è morta in se stessa» (2, 14-17).
Nel servizio della carità c'è un
atteggiamento che ci deve animare e contraddistinguere: dobbiamo
prenderci cura dell'altro in quanto persona affidata da
Dio alla nostra responsabilità. Come discepoli di Gesù,
siamo chiamati a farci prossimi di ogni uomo (cf. Lc 10,
29-37), riservando una speciale preferenza a chi è più
povero, solo e bisognoso. Proprio attraverso l'aiuto
all'affamato, all'assetato, al forestiero, all'ignudo,
al malato, al carcerato — come pure al bambino non
ancora nato, all'anziano sofferente o vicino alla morte
— ci è dato di servire Gesù, come Egli stesso ha
dichiarato: «Ogni volta che avete fatto queste cose a
uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete
fatto a me» (Mt 25, 40). Per questo, non
possiamo non sentirci interpellati e giudicati dalla
pagina sempre attuale di san Giovanni Crisostomo: «Vuoi
onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si
trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con
stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce
freddo e nudità».113
Il servizio della carità nei
riguardi della vita deve essere profondamente unitario: non
può tollerare unilateralismi e discriminazioni, perché
la vita umana è sacra e inviolabile in ogni sua fase e
situazione; essa è un bene indivisibile. Si tratta
dunque di «prendersi cura» di tutta la vita e della
vita di tutti. Anzi, ancora più profondamente, si
tratta di andare fino alle radici stesse della vita e
dell'amore.
Proprio partendo da un amore
profondo per ogni uomo e donna, si è sviluppata lungo i
secoli una straordinaria storia di carità, che
ha introdotto nella vita ecclesiale e civile numerose
strutture di servizio alla vita, che suscitano
l'ammirazione di ogni osservatore non prevenuto. È una
storia che, con rinnovato senso di responsabilità, ogni
comunità cristiana deve continuare a scrivere con una
molteplice azione pastorale e sociale. In tal senso si
devono mettere in atto forme discrete ed efficaci di accompagnamento
della vita nascente, con una speciale vicinanza a
quelle mamme che, anche senza il sostegno del padre, non
temono di mettere al mondo il loro bambino e di
educarlo. Analoga cura deve essere riservata alla vita
nella marginalità o nella sofferenza, specie nelle sue
fasi finali.
88. Tutto questo comporta una
paziente e coraggiosa opera educativa che
solleciti tutti e ciascuno a farsi carico dei pesi degli
altri (cf. Gal 6, 2); richiede una continua
promozione di vocazioni al servizio, in
particolare tra i giovani; implica la realizzazione di progetti
e iniziative concrete, stabili ed evangelicamente
ispirate.
Molteplici sono gli strumenti da
valorizzare con competenza e serietà di impegno.
Alle sorgenti della vita, i centri per i metodi
naturali di regolazione della fertilità vanno
promossi come un valido aiuto per la paternità e
maternità responsabili, nella quale ogni persona, a
cominciare dal figlio, è riconosciuta e rispettata per
se stessa e ogni scelta è animata e guidata dal
criterio del dono sincero di sé. Anche i consultori
matrimoniali e familiari, mediante la loro specifica
azione di consulenza e di prevenzione, svolta alla luce
di un'antropologia coerente con la visione cristiana
della persona, della coppia e della sessualità,
costituiscono un prezioso servizio per riscoprire il
senso dell'amore e della vita e per sostenere e
accompagnare ogni famiglia nella sua missione di
«santuario della vita». A servizio della vita nascente
si pongono pure i centri di aiuto alla vita e le case
o i centri di accoglienza della vita. Grazie alla
loro opera, non poche madri nubili e coppie in
difficoltà ritrovano ragioni e convinzioni e incontrano
assistenza e sostegno per superare disagi e paure
nell'accogliere una vita nascente o appena venuta alla
luce.
Di fronte alla vita in condizioni
di disagio, di devianza, di malattia e di marginalità,
altri strumenti — come le comunità di recupero per
tossicodipendenti, le comunità alloggio per i minori o
per i malati mentali, i centri di cura e accoglienza per
malati di AIDS, le cooperative di solidarietà
soprattutto per i disabili — sono espressione
eloquente di ciò che la carità sa inventare per dare a
ciascuno ragioni nuove di speranza e possibilità
concrete di vita.
Quando poi l'esistenza terrena
volge al termine, è ancora la carità a trovare le
modalità più opportune perché gli anziani,
specialmente se non autosufficienti, e i cosiddetti malati
terminali possano godere di un'assistenza veramente
umana e ricevere risposte adeguate alle loro esigenze,
in particolare alla loro angoscia e solitudine.
Insostituibile è in questi casi il ruolo delle
famiglie; ma esse possono trovare grande aiuto nelle
strutture sociali di assistenza e, quando necessario,
nel ricorso alle cure palliative, avvalendosi
degli idonei servizi sanitari e sociali, operanti sia
nei luoghi di ricovero e cura pubblici che a domicilio.
In particolare, deve essere
riconsiderato il ruolo degli ospedali, delle cliniche
e delle case di cura: la loro vera identità
non è solo quella di strutture nelle quali ci si prende
cura dei malati e dei morenti, ma anzitutto quella di
ambienti nei quali la sofferenza, il dolore e la morte
vengono riconosciuti ed interpretati nel loro
significato umano e specificamente cristiano. In modo
speciale tale identità deve mostrarsi chiara ed
efficace negli istituti dipendenti da religiosi o,
comunque, legati alla Chiesa.
89. Queste strutture e luoghi di
servizio alla vita, e tutte le altre iniziative di
sostegno e solidarietà che le situazioni potranno di
volta in volta suggerire, hanno bisogno di essere
animate da persone generosamente disponibili e
profondamente consapevoli di quanto decisivo sia il Vangelo
della vita per il bene dell'individuo e della
società.
Peculiare è la responsabilità
affidata agli operatori sanitari: medici, farmacisti,
infermieri, cappellani, religiosi e religiose,
amministratori e volontari. La loro professione li
vuole custodi e servitori della vita umana. Nel contesto
culturale e sociale odierno, nel quale la scienza e
l'arte medica rischiano di smarrire la loro nativa
dimensione etica, essi possono essere talvolta
fortemente tentati di trasformarsi in artefici di
manipolazione della vita o addirittura in operatori di
morte. Di fronte a tale tentazione la loro
responsabilità è oggi enormemente accresciuta e trova
la sua ispirazione più profonda e il suo sostegno più
forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile
dimensione etica della professione sanitaria, come già
riconosceva l'antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è
chiesto di impegnarsi per il rispetto assoluto della
vita umana e della sua sacralità.
Il rispetto assoluto di ogni vita
umana innocente esige anche l'esercizio dell'obiezione
di coscienza di fronte all'aborto procurato e
all'eutanasia. Il «far morire» non può mai essere
considerato come una cura medica, neppure quando
l'intenzione fosse solo quella di assecondare una
richiesta del paziente: è, piuttosto, la negazione
della professione sanitaria che si qualifica come un
appassionato e tenace «sì» alla vita. Anche la
ricerca biomedica, campo affascinante e promettente di
nuovi grandi benefici per l'umanità, deve sempre
rifiutare sperimentazioni, ricerche o applicazioni che,
misconoscendo l'inviolabile dignità dell'essere umano,
cessano di essere a servizio degli uomini e si
trasformano in realtà che, mentre sembrano soccorrerli,
li opprimono.
90. Uno specifico ruolo sono
chiamate a svolgere le persone impegnate nel
volontariato: esse offrono un apporto prezioso nel
servizio alla vita, quando sanno coniugare capacità
professionale e amore generoso e gratuito. Il Vangelo
della vita le spinge ad elevare i sentimenti di
semplice filantropia all'altezza della carità di
Cristo; a riconquistare ogni giorno, tra fatiche e
stanchezze, la coscienza della dignità di ogni uomo; ad
andare alla scoperta dei bisogni delle persone iniziando
— se necessario — nuovi cammini là dove più
urgente è il bisogno e più deboli sono l'attenzione e
il sostegno.
Il realismo tenace della carità
esige che il Vangelo della vita sia servito anche
mediante forme di animazione sociale e di impegno
politico, difendendo e proponendo il valore della
vita nelle nostre società sempre più complesse e
pluraliste. Singoli, famiglie, gruppi, realtà
associative hanno, sia pure a titolo e in modi
diversi, una responsabilità nell'animazione sociale e
nell'elaborazione di progetti culturali, economici,
politici e legislativi che, nel rispetto di tutti e
secondo la logica della convivenza democratica,
contribuiscano a edificare una società nella quale la
dignità di ogni persona sia riconosciuta e tutelata, e
la vita di tutti sia difesa e promossa.
Tale compito grava in particolare
sui responsabili della cosa pubblica. Chiamati a
servire l'uomo e il bene comune, hanno il dovere di
compiere scelte coraggiose a favore della vita,
innanzitutto nell'ambito delle disposizioni
legislative. In un regime democratico, ove le leggi
e le decisioni si formano sulla base del consenso di
molti, può attenuarsi nella coscienza dei singoli che
sono investiti di autorità il senso della
responsabilità personale. Ma a questa nessuno può mai
abdicare, soprattutto quando ha un mandato legislativo o
decisionale, che lo chiama a rispondere a Dio, alla
propria coscienza e all'intera società di scelte
eventualmente contrarie al vero bene comune. Se le leggi
non sono l'unico strumento per difendere la vita umana,
esse però svolgono un ruolo molto importante e talvolta
determinante nel promuovere una mentalità e un costume.
Ripeto ancora una volta che una norma che viola il
diritto naturale alla vita di un innocente è ingiusta
e, come tale, non può avere valore di legge. Per questo
rinnovo con forza il mio appello a tutti i politici
perché non promulghino leggi che, misconoscendo la
dignità della persona, minano alla radice la stessa
convivenza civile.
La Chiesa sa che, nel contesto di
democrazie pluraliste, per la presenza di forti correnti
culturali di diversa impostazione, è difficile attuare
un'efficace difesa legale della vita. Mossa tuttavia
dalla certezza che la verità morale non può non avere
un'eco nell'intimo di ogni coscienza, essa incoraggia i
politici, cominciando da quelli cristiani, a non
rassegnarsi e a compiere quelle scelte che, tenendo
conto delle possibilità concrete, portino a ristabilire
un ordine giusto nell'affermazione e promozione del
valore della vita. In questa prospettiva, occorre
rilevare che non basta eliminare le leggi inique. Si
dovranno rimuovere le cause che favoriscono gli
attentati alla vita, soprattutto assicurando il dovuto
sostegno alla famiglia e alla maternità: la politica
familiare deve essere perno e motore di tutte le
politiche sociali. Pertanto, occorre avviare
iniziative sociali e legislative capaci di garantire
condizioni di autentica libertà nella scelta in ordine
alla paternità e alla maternità; inoltre è necessario
reimpostare le politiche lavorative, urbanistiche,
abitative e dei servizi, perché si possano conciliare
tra loro i tempi del lavoro e quelli della famiglia e
diventi effettivamente possibile la cura dei bambini e
degli anziani.
91. Un capitolo importante della
politica per la vita è costituito oggi dalla problematica
demografica. Le pubbliche autorità hanno certo la
responsabilità di prendere «iniziative al fine di
orientare la demografia della popolazione»; 114
ma tali iniziative devono sempre presupporre e
rispettare la responsabilità primaria ed inalienabile
dei coniugi e delle famiglie e non possono ricorrere a
metodi non rispettosi della persona e dei suoi diritti
fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita di ogni
essere umano innocente. È, quindi, moralmente
inaccettabile che, per regolare le nascite, si incoraggi
o addirittura si imponga l'uso di mezzi come la
contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto.
Ben altre sono le vie per risolvere
il problema demografico: i Governi e le varie
istituzioni internazionali devono innanzitutto mirare
alla creazione di condizioni economiche, sociali,
medico-sanitarie e culturali che consentano agli sposi
di fare le loro scelte procreative in piena libertà e
con vera responsabilità; devono poi sforzarsi di
«potenzia re le possibilità e distribuire con maggiore
giustizia le ricchezze, affinché tutti possano
partecipare equamente ai beni del creato. Occorre creare
soluzioni a livello mondiale, instaurando un'autentica economia
di comunione e condivisione dei beni, sia sul piano
internazionale che su quello nazionale».115
Questa sola è la strada che rispetta la dignità delle
persone e delle famiglie, oltre che l'autentico
patrimonio culturale dei popoli.
Vasto e complesso è dunque il
servizio al Vangelo della vita. Esso ci appare
sempre più come ambito prezioso e favorevole per una
fattiva collaborazione con i fratelli delle altre Chiese
e Comunità ecclesiali nella linea di quell'ecumenismo
delle opere che il Concilio Vaticano II ha
autorevolmente incoraggiato.116
Esso, inoltre, si presenta come spazio provvidenziale
per il dialogo e la collaborazione con i seguaci di
altre religioni e con tutti gli uomini di buona
volontà: la difesa e la promozione della vita non
sono monopolio di nessuno, ma compito e responsabilità
di tutti. La sfida che ci sta di fronte, alla
vigilia del terzo millennio, è ardua: solo la concorde
cooperazione di quanti credono nel valore della vita
potrà evitare una sconfitta della civiltà dalle
conseguenze imprevedibili.
«Dono del Signore sono i
figli, è sua grazia il frutto del grembo» (Sal 126/125,
3): la famiglia «santuario della vita»
92. All'interno del «popolo della
vita e per la vita», decisiva è la responsabilità
della famiglia: è una responsabilità che
scaturisce dalla sua stessa natura — quella di essere
comunità di vita e di amore, fondata sul matrimonio —
e dalla sua missione di «custodire, rivelare e
comunicare l'amore».117
È in questione l'amore stesso di Dio, del quale i
genitori sono costituiti collaboratori e quasi
interpreti nel trasmettere la vita e nell'educarla
secondo il suo progetto di Padre.118
È quindi l'amore che si fa gratuità, accoglienza,
donazione: nella famiglia ciascuno è riconosciuto,
rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno
ha più bisogno, più intensa e più vigile è la cura
nei suoi confronti.
La famiglia è chiamata in causa
nell'intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla
nascita alla morte. Essa è veramente «il santuario
della vita..., il luogo in cui la vita, dono di Dio,
può essere adeguatamente accolta e protetta contro i
molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi
secondo le esigenze di un'autentica crescita umana».119
Per questo, determinante e insostituibile è il
ruolo della famiglia nel costruire la cultura della
vita.
Come chiesa domestica, la
famiglia è chiamata ad annunciare, celebrare e servire
il Vangelo della vita. È un compito che riguarda
innanzitutto i coniugi, chiamati ad essere trasmettitori
della vita, sulla base di una sempre rinnovata consapevolezza
del senso della generazione, come evento
privilegiato nel quale si manifesta che la vita umana
è un dono ricevuto per essere a sua volta donato. Nella
procreazione di una nuova vita i genitori avvertono che
il figlio «se è frutto della loro reciproca donazione
d'amore, è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono
che scaturisce dal dono».120
È soprattutto attraverso l'educazione
dei figli che la famiglia assolve la sua missione di
annunciare il Vangelo della vita. Con la parola e
con l'esempio, nella quotidianità dei rapporti e delle
scelte e mediante gesti e segni concreti, i genitori
iniziano i loro figli alla libertà autentica, che si
realizza nel dono sincero di sé, e coltivano in loro il
rispetto dell'altro, il senso della giustizia,
l'accoglienza cordiale, il dialogo, il servizio
generoso, la solidarietà e ogni altro valore che aiuti
a vivere la vita come un dono. L'opera educativa dei
genitori cristiani deve farsi servizio alla fede dei
figli e aiuto loro offerto perché adempiano la
vocazione ricevuta da Dio. Rientra nella missione
educativa dei genitori insegnare e testimoniare ai figli
il vero senso del soffrire e del morire: lo potranno
fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza che
trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno
sviluppare atteggiamenti di vicinanza, assistenza e
condivisione verso malati e anziani nell'ambito
familiare.
93. La famiglia, inoltre, celebra
il Vangelo della vita con la preghiera quotidiana, individuale
e familiare: con essa loda e ringrazia il Signore per il
dono della vita ed invoca luce e forza per affrontare i
momenti di difficoltà e di sofferenza, senza mai
smarrire la speranza. Ma la celebrazione che dà
significato ad ogni altra forma di preghiera e di culto
è quella che s'esprime nell'esistenza quotidiana
della famiglia, se è un'esistenza fatta di amore e
donazione.
La celebrazione si trasforma così
in un servizio al Vangelo della vita, che si
esprime attraverso la solidarietà, sperimentata
dentro e intorno alla famiglia come attenzione
premurosa, vigile e cordiale nelle azioni piccole e
umili di ogni giorno. Un'espressione particolarmente
significativa di solidarietà tra le famiglie è la
disponibilità all'adozione o all'affidamento dei
bambini abbandonati dai loro genitori o comunque in
situazioni di grave disagio. Il vero amore paterno e
materno sa andare al di là dei legami della carne e del
sangue ed accogliere anche bambini di altre famiglie,
offrendo ad essi quanto è necessario per la loro vita
ed il loro pieno sviluppo. Tra le forme di adozione,
merita di essere proposta anche l'adozione a
distanza, da preferire nei casi in cui l'abbandono
ha come unico motivo le condizioni di grave povertà
della famiglia. Con tale tipo di adozione, infatti, si
offrono ai genitori gli aiuti necessari per mantenere ed
educare i propri figli, senza doverli sradicare dal loro
ambiente naturale.
Intesa come «determinazione ferma
e perseverante di impegnarsi per il bene comune»,121
la solidarietà chiede di attuarsi anche attraverso
forme di partecipazione sociale e politica. Di
conseguenza, servire il Vangelo della vita comporta
che le famiglie, specie partecipando ad apposite
associazioni, si adoperino affinché le leggi e le
istituzioni dello Stato non ledano in nessun modo il
diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale,
ma lo difendano e lo promuovano.
94. Un posto particolare va
riconosciuto agli anziani. Mentre in alcune
culture la persona più avanzata in età rimane inserita
nella famiglia con un ruolo attivo importante, in altre
culture invece chi è vecchio è sentito come un peso
inutile e viene abbandonato a se stesso: in simile
contesto può sorgere più facilmente la tentazione di
ricorrere all'eutanasia.
L'emarginazione o addirittura il
rifiuto degli anziani sono intollerabili. La loro
presenza in famiglia, o almeno la vicinanza ad essi
della famiglia quando per la ristrettezza degli spazi
abitativi o per altri motivi tale presenza non fosse
possibile, sono di fondamentale importanza nel creare un
clima di reciproco scambio e di arricchente
comunicazione fra le varie età della vita. È
importante, perciò, che si conservi, o si ristabilisca
dove è andato smarrito, una sorta di «patto» tra le
generazioni, così che i genitori anziani, giunti al
termine del loro cammino, possano trovare nei figli
l'accoglienza e la solidarietà che essi hanno avuto nei
loro confronti quando s'affacciavano alla vita: lo esige
l'obbedienza al comando divino di onorare il padre e la
madre (cf. Es 20, 12; Lv 19, 3). Ma c'è
di più. L'anziano non è da considerare solo oggetto di
attenzione, vicinanza e servizio. Anch'egli ha un
prezioso contributo da portare al Vangelo della vita.
Grazie al ricco patrimonio di esperienza acquisito
lungo gli anni, può e deve essere dispensatore di
sapienza, testimone di speranza e di carità.
Se è vero che «l'avvenire
dell'umanità passa attraverso la famiglia»,122
si deve riconoscere che le odierne condizioni sociali,
economiche e culturali rendono spesso più arduo e
faticoso il compito della famiglia nel servire la vita.
Perché possa realizzare la sua vocazione di «santuario
della vita», quale cellula di una società che ama e
accoglie la vita, è necessario e urgente che la
famiglia stessa sia aiutata e sostenuta. Le società
e gli Stati le devono assicurare tutto quel sostegno,
anche economico che è necessario perché le famiglie
possano rispondere in modo più umano ai propri
problemi. Da parte sua la Chiesa deve promuovere
instancabilmente una pastorale familiare capace di
stimolare ogni famiglia a riscoprire e vivere con gioia
e con coraggio la sua missione nei confronti del
Vangelo della vita.
«Comportatevi come i figli
della luce» (Ef 5, 8): per realizzare una
svolta culturale
95. «Comportatevi come i figli
della luce... Cercate ciò che è gradito al Signore, e
non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre» (Ef
5, 8.10-11). Nell'odierno contesto sociale, segnato
da una drammatica lotta tra la «cultura della vita» e
la «cultura della morte», occorre far maturare un
forte senso critico, capace di discernere i veri
valori e le autentiche esigenze.
Urgono una generale
mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo
etico, per mettere in atto una grande strategia a
favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una
nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di
affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi
circa la vita dell'uomo; nuova, perché fatta propria
con più salda e operosa convinzione da parte di tutti i
cristiani; nuova, perché capace di suscitare un serio e
coraggioso confronto culturale con tutti. L'urgenza di
questa svolta culturale è legata alla situazione
storica che stiamo attraversando, ma si radica nella
stessa missione evangelizzatrice, propria della Chiesa.
Il Vangelo, infatti, mira a «trasformare dal di dentro,
rendere nuova l'umanità»; 123
è come il lievito che fermenta tutta la pasta (cf. Mt
13, 33) e, come tale, è destinato a permeare tutte
le culture e ad animarle dall'interno,124
perché esprimano l'intera verità sull'uomo e sulla sua
vita.
Si deve cominciare dal rinnovare
la cultura della vita all'interno delle stesse comunità
cristiane. Troppo spesso i credenti, perfino quanti
partecipano attivamente alla vita ecclesiale, cadono in
una sorta di dissociazione tra la fede cristiana e le
sue esigenze etiche a riguardo della vita, giungendo
così al soggettivismo morale e a taluni comportamenti
inaccettabili. Dobbiamo allora interrogarci, con grande
lucidità e coraggio, su quale cultura della vita sia
oggi diffusa tra i singoli cristiani, le famiglie, i
gruppi e le comunità delle nostre Diocesi. Con
altrettanta chiarezza e decisione, dobbiamo individuare
quali passi siamo chiamati a compiere per servire la
vita secondo la pienezza della sua verità. Nello stesso
tempo, dobbiamo promuovere un confronto serio e
approfondito con tutti, anche con i non credenti, sui
problemi fondamentali della vita umana, nei luoghi
dell'elaborazione del pensiero, come nei diversi ambiti
professionali e là dove si snoda quotidianamente
l'esistenza di ciascuno.
96. Il primo e fondamentale passo
per realizzare questa svolta culturale consiste nella formazione
della coscienza morale circa il valore
incommensurabile e inviolabile di ogni vita umana. È di
somma importanza riscoprire il nesso inscindibile tra
vita e libertà. Sono beni indivisibili: dove è
violato l'uno, anche l'altro finisce per essere violato.
Non c'è libertà vera dove la vita non è accolta e
amata; e non c'è vita piena se non nella libertà.
Ambedue queste realtà hanno poi un riferimento nativo e
peculiare, che le lega indissolubilmente: la vocazione
all'amore. Questo amore, come dono sincero di sé,125
è il senso più vero della vita e della libertà della
persona.
Non meno decisiva nella formazione
della coscienza è la riscoperta del legame
costitutivo che unisce la libertà alla verità. Come
ho ribadito più volte, sradicare la libertà dalla
verità oggettiva rende impossibile fondare i diritti
della persona su una solida base razionale e pone le
premesse perché nella società si affermino l'arbitrio
ingovernabile dei singoli o il totalitarismo
mortificante del pubblico potere.126
È essenziale allora che l'uomo
riconosca l'originaria evidenza della sua condizione di
creatura, che riceve da Dio l'essere e la vita come un
dono e un compito: solo ammettendo questa sua nativa
dipendenza nell'essere, l'uomo può realizzare in
pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme
rispettare fino in fondo la vita e la libertà di ogni
altra persona. Qui soprattutto si svela che «al centro
di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume
davanti al mistero più grande: il mistero di Dio».127
Quando si nega Dio e si vive come se Egli non esistesse,
o comunque non si tiene conto dei suoi comandamenti, si
finisce facilmente per negare o compromettere anche la
dignità della persona umana e l'inviolabilità della
sua vita.
97. Alla formazione della coscienza
è strettamente connessa l'opera educativa, che
aiuta l'uomo ad essere sempre più uomo, lo introduce
sempre più profondamente nella verità, lo indirizza
verso un crescente rispetto della vita, lo forma alle
giuste relazioni tra le persone.
In particolare, è necessario
educare al valore della vita cominciando dalle sue
stesse radici. È un'illusione pensare di poter
costruire una vera cultura della vita umana, se non si
aiutano i giovani a cogliere e a vivere la sessualità,
l'amore e l'intera esistenza secondo il loro vero
significato e nella loro intima correlazione. La
sessualità, ricchezza di tutta la persona, «manifesta
il suo intimo significato nel portare la persona al dono
di sé nell'amore».128
La banalizzazione della sessualità è tra i principali
fattori che stanno all'origine del disprezzo della vita
nascente: solo un amore vero sa custodire la vita. Non
ci si può, quindi, esimere dall'offrire soprattutto
agli adolescenti e ai giovani l'autentica educazione
alla sessualità e all'amore, un'educazione
implicante la formazione alla castità, quale
virtù che favorisce la maturità della persona e la
rende capace di rispettare il significato «sponsale»
del corpo.
L'opera di educazione alla vita
comporta la formazione dei coniugi alla procreazione
responsabile. Questa, nel suo vero significato,
esige che gli sposi siano docili alla chiamata del
Signore e agiscano come fedeli interpreti del suo
disegno: ciò avviene con l'aprire generosamente la
famiglia a nuove vite, e comunque rimanendo in
atteggiamento di apertura e di servizio alla vita anche
quando, per seri motivi e nel rispetto della legge
morale, i coniugi scelgono di evitare temporaneamente o
a tempo indeterminato una nuova nascita. La legge morale
li obbliga in ogni caso a governare le tendenze
dell'istinto e delle passioni e a rispettare le leggi
biologiche iscritte nella loro persona. Proprio tale
rispetto rende legittimo, a servizio della
responsabilità nel procreare, il ricorso ai metodi
naturali di regolazione della fertilità: essi
vengono sempre meglio precisati dal punto di vista
scientifico e offrono possibilità concrete per scelte
in armonia con i valori morali. Una onesta
considerazione dei risultati raggiunti dovrebbe far
cadere pregiudizi ancora troppo diffusi e convincere i
coniugi nonché gli operatori sanitari e sociali circa
l'importanza di un'adeguata formazione al riguardo. La
Chiesa è riconoscente verso coloro che con sacrificio
personale e dedizione spesso misconosciuta si impegnano
nella ricerca e nella diffusione di tali metodi,
promovendo al tempo stesso un'educazione ai valori
morali che il loro uso suppone.
L'opera educativa non può non
prendere in considerazione anche la sofferenza e la
morte. In realtà, esse fanno parte dell'esperienza
umana, ed è vano, oltre che fuorviante, cercare di
censurarle e rimuoverle. Ciascuno invece deve essere
aiutato a coglierne, nella concreta e dura realtà, il
mistero profondo. Anche il dolore e la sofferenza hanno
un senso e un valore, quando sono vissuti in stretta
connessione con l'amore ricevuto e donato. In questa
prospettiva ho voluto che si celebrasse ogni anno la Giornata
Mondiale del Malato, sottolineando «l'indole
salvifica dell'offerta della sofferenza, che vissuta in
comunione con Cristo appartiene all'essenza stessa della
redenzione».129
Del resto perfino la morte è tutt'altro che
un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza
che si spalanca sull'eternità e, per quanti la vivono
in Cristo, è esperienza di partecipazione al suo
mistero di morte e risurrezione.
98. In sintesi, possiamo dire che
la svolta culturale qui auspicata esige da tutti il
coraggio di assumere un nuovo stile di vita che
s'esprime nel porre a fondamento delle scelte concrete
— a livello personale, familiare, sociale e
internazionale — la giusta scala dei valori: il
primato dell'essere sull'avere,130
della persona sulle cose.131
Questo rinnovato stile di vita implica anche il
passaggio dall'indifferenza all'interessamento per
l'altro e dal rifiuto alla sua accoglienza: gli
altri non sono concorrenti da cui difenderci, ma
fratelli e sorelle con cui essere solidali; sono da
amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro stessa
presenza.
Nella mobilitazione per una nuova
cultura della vita nessuno si deve sentire escluso: tutti
hanno un ruolo importante da svolgere. Insieme con
quello delle famiglie, particolarmente prezioso è il
compito degli insegnanti e degli educatori. Molto
dipenderà da loro se i giovani, formati ad una vera
libertà, sapranno custodire dentro di sé e diffondere
intorno a sé ideali autentici di vita e sapranno
crescere nel rispetto e nel servizio di ogni persona, in
famiglia e nella società.
Anche gli intellettuali possono
fare molto per costruire una nuova cultura della vita
umana. Un compito particolare spetta agli intellettuali cattolici,
chiamati a rendersi attivamente presenti nelle sedi
privilegiate dell'elaborazione culturale, nel mondo
della scuola e delle università, negli ambienti della
ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della
creazione artistica e della riflessione umanistica.
Alimentando il loro genio e la loro azione alle chiare
linfe del Vangelo, si devono impegnare a servizio di una
nuova cultura della vita con la produzione di contributi
seri, documentati e capaci di imporsi per i loro pregi
al rispetto e all'interesse di tutti. Proprio in questa
prospettiva ho istituito la Pontificia Accademia per
la Vita con il compito di «studiare, informare e
formare circa i principali problemi di biomedicina e di
diritto, relativi alla promozione e alla difesa della
vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno
con la morale cristiana e le direttive del magistero
della Chiesa».132
Uno specifico apporto dovrà venire anche dalle Università,
in particolare da quelle cattoliche, e dai Centri,
Istituti e Comitati di bioetica.
Grande e grave è la
responsabilità degli operatori dei mass media, chiamati
ad adoperarsi perché i messaggi trasmessi con tanta
efficacia contribuiscano alla cultura della vita. Devono
allora presentare esempi alti e nobili di vita e dare
spazio alle testimonianze positive e talvolta eroiche di
amore all'uomo; proporre con grande rispetto i valori
della sessualità e dell'amore, senza indugiare su ciò
che deturpa e svilisce la dignità dell'uomo. Nella
lettura della realtà, devono rifiutare di mettere in
risalto quanto può insinuare o far crescere sentimenti
o atteggiamenti di indifferenza, di disprezzo o di
rifiuto nei confronti della vita. Nella scrupolosa
fedeltà alla verità dei fatti, sono chiamati a
coniugare insieme la libertà di informazione, il
rispetto di ogni persona e un profondo senso di
umanità.
99. Nella svolta culturale a favore
della vita le donne hanno uno spazio di pensiero
e di azione singolare e forse determinante: tocca a loro
di farsi promotrici di un «nuovo femminismo» che,
senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli
«maschilisti», sappia riconoscere ed esprimere il vero
genio femminile in tutte le manifestazioni della
convivenza civile, operando per il superamento di ogni
forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento.
Riprendendo le parole del messaggio
conclusivo del Concilio Vaticano II, rivolgo anch'io
alle donne il pressante invito: «Riconciliate gli
uomini con la vita».133
Voi siete chiamate a testimoniare il senso dell'amore
autentico, di quel dono di sé e di quella
accoglienza dell'altro che si realizzano in modo
specifico nella relazione coniugale, ma che devono
essere l'anima di ogni altra relazione interpersonale.
L'esperienza della maternità favorisce in voi una
sensibilità acuta per l'altra persona e, nel contempo,
vi conferisce un compito particolare: «La maternità
contiene in sé una speciale comunione col mistero della
vita, che matura nel seno della donna... Questo modo
unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando
crea a sua volta un atteggiamento verso l'uomo — non
solo verso il proprio figlio, ma verso l'uomo in genere
— tale da caratterizzare profondamente tutta la
personalità della donna».134
La madre, infatti, accoglie e porta in sé un altro, gli
dà modo di crescere dentro di sé, gli fa spazio,
rispettandolo nella sua alterità. Così, la donna
percepisce e insegna che le relazioni umane sono
autentiche se si aprono all'accoglienza dell'altra
persona, riconosciuta e amata per la dignità che le
deriva dal fatto di essere persona e non da altri
fattori, quali l'utilità, la forza, l'intelligenza, la
bellezza, la salute. Questo è il contributo
fondamentale che la Chiesa e l'umanità si attendono
dalle donne. Ed è la premessa insostituibile per
un'autentica svolta culturale.
Un pensiero speciale vorrei
riservare a voi, donne che avete fatto ricorso
all'aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti
possono aver influito sulla vostra decisione, e non
dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione
sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel
vostro animo non s'è ancor rimarginata. In realtà,
quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente
ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo
scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate
comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e
interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete
fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il
Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il
suo perdono e la sua pace nel sacramento della
Riconciliazione. Vi accorgerete che nulla è perduto e
potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che
ora vive nel Signore. Aiutate dal consiglio e dalla
vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere
con la vostra sofferta testimonianza tra i più
eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita.
Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato
eventualmente dalla nascita di nuove creature ed
esercitato con l'accoglienza e l'attenzione verso chi è
più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo
modo di guardare alla vita dell'uomo.
100. In questo grande sforzo per
una nuova cultura della vita siamo sostenuti e
animati dalla fiducia di chi sa che il Vangelo
della vita, come il Regno di Dio, cresce e dà i
suoi frutti abbondanti (cf. Mc 4, 26-29). È
certamente enorme la sproporzione che esiste tra i
mezzi, numerosi e potenti, di cui sono dotate le forze
operanti a sostegno della «cultura della morte» e
quelli di cui dispongono i promotori di una «cultura
della vita e dell'amore». Ma noi sappiamo di poter
confidare sull'aiuto di Dio, al quale nulla è
impossibile (cf. Mt 19, 26).
Con questa certezza nel cuore, e
mosso da accorata sollecitudine per le sorti di ogni
uomo e donna, ripeto oggi a tutti quanto ho detto alle
famiglie impegnate nei loro difficili compiti fra le
insidie che le minacciano: 135
è urgente una grande preghiera per la vita, che
attraversi il mondo intero. Con iniziative straordinarie
e nella preghiera abituale, da ogni comunità cristiana,
da ogni gruppo o associazione, da ogni famiglia e dal
cuore di ogni credente, si elevi una supplica
appassionata a Dio, Creatore e amante della vita. Gesù
stesso ci ha mostrato col suo esempio che preghiera e
digiuno sono le armi principali e più efficaci contro
le forze del male (cf. Mt 4, 1-11) e ha insegnato
ai suoi discepoli che alcuni demoni non si scacciano se
non in questo modo (cf. Mc 9, 29). Ritroviamo,
dunque, l'umiltà e il coraggio di pregare e
digiunare, per ottenere che la forza che viene
dall'Alto faccia crollare i muri di inganni e di
menzogne, che nascondono agli occhi di tanti nostri
fratelli e sorelle la natura perversa di comportamenti e
di leggi ostili alla vita, e apra i loro cuori a
propositi e intenti ispirati alla civiltà della vita e
dell'amore.
«Queste cose vi scriviamo,
perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,
4): il Vangelo della vita è per la città degli
uomini
101. «Queste cose vi scriviamo,
perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,
4). La rivelazione del Vangelo della vita ci è
data come bene da comunicare a tutti: perché tutti gli
uomini siano in comunione con noi e con la Trinità (cf.
1 Gv 1, 3). Neppure noi potremmo essere nella
gioia piena se non comunicassimo questo Vangelo agli
altri, ma lo tenessimo solo per noi stessi.
Il Vangelo della vita non è
esclusivamente per i credenti: è per tutti. La
questione della vita e della sua difesa e promozione non
è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede
riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene ad
ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è
attenta e pensosa per le sorti dell'umanità. Nella vita
c'è sicuramente un valore sacro e religioso, ma in
nessun modo esso interpella solo i credenti: si tratta,
infatti, di un valore che ogni essere umano può
cogliere anche alla luce della ragione e che perciò
riguarda necessariamente tutti.
Per questo, la nostra azione di
«popolo della vita e per la vita» domanda di essere
interpretata in modo giusto e accolta con simpatia.
Quando la Chiesa dichiara che il rispetto incondizionato
del diritto alla vita di ogni persona innocente — dal
concepimento alla sua morte naturale — è uno dei
pilastri su cui si regge ogni società civile, essa
«vuole semplicemente promuovere uno Stato umano. Uno
Stato che riconosca come suo primario dovere la difesa
dei diritti fondamentali della persona umana,
specialmente di quella più debole».136
Il Vangelo della vita è per la
città degli uomini. Agire a favore della vita è
contribuire al rinnovamento della società
mediante l'edificazione del bene comune. Non è
possibile, infatti, costruire il bene comune senza
riconoscere e tutelare il diritto alla vita, su cui si
fondano e si sviluppano tutti gli altri diritti
inalienabili dell'essere umano. Né può avere solide
basi una società che — mentre afferma valori quali la
dignità della persona, la giustizia e la pace — si
contraddice radicalmente accettando o tollerando le più
diverse forme di disistima e violazione della vita
umana, soprattutto se debole ed emarginata. Solo il
rispetto della vita può fondare e garantire i beni più
preziosi e necessari della società, come la democrazia
e la pace.
Infatti, non ci può essere vera
democrazia, se non si riconosce la dignità di ogni
persona e non se ne rispettano i diritti.
Non ci può essere neppure vera
pace, se non si difende e promuove la vita, come
ricordava Paolo VI: «Ogni delitto contro la vita è un
attentato contro la pace, specialmente se esso intacca
il costume del popolo..., mentre dove i diritti
dell'uomo sono realmente professati e pubblicamente
riconosciuti e difesi, la pace diventa l'atmosfera lieta
e operosa della convivenza sociale».137
Il «popolo della vita» gioisce di
poter condividere con tanti altri il suo impegno, così
che sempre più numeroso sia il «popolo per la vita» e
la nuova cultura dell'amore e della solidarietà possa
crescere per il vero bene della città degli uomini.
CONCLUSIONE torna
su
102. Al termine di questa
Enciclica, lo sguardo ritorna spontaneamente al
Signore Gesù, il «Bambino nato per noi» (cf.
Is 9, 5) per contemplare in lui «la Vita»
che «si è manifestata» (1 Gv 1, 2). Nel
mistero di questa nascita si compie l'incontro di
Dio con l'uomo e ha inizio il cammino del Figlio
di Dio sulla terra, un cammino che culminerà nel
dono della vita sulla Croce: con la sua morte Egli
vincerà la morte e diventerà per l'umanità
intera principio di vita nuova.
Ad accogliere «la Vita» a
nome di tutti e a vantaggio di tutti è stata Maria, la Vergine Madre, la quale ha quindi legami
personali strettissimi con il Vangelo della
vita. Il consenso di Maria all'Annunciazione e
la sua maternità si trovano alla sorgente stessa
del mistero della vita che Cristo è venuto a
donare agli uomini (cf. Gv 10, 10).
Attraverso la sua accoglienza e la sua cura
premurosa per la vita del Verbo fatto carne, la
vita dell'uomo è stata sottratta alla condanna
della morte definitiva ed eterna.
Per questo Maria «è madre
di tutti coloro che rinascono alla vita, proprio
come la Chiesa di cui è modello. È madre di
quella vita di cui tutti vivono. Generando la
vita, ha come rigenerato coloro che di questa vita
dovevano vivere».138
Contemplando la maternità di Maria, la Chiesa scopre il senso della propria
maternità e il modo con cui è chiamata ad
esprimerla. Nello stesso tempo l'esperienza
materna della Chiesa dischiude la prospettiva più
profonda per comprendere l'esperienza di Maria
quale incomparabile modello di accoglienza e di
cura della vita.
«Nel cielo apparve un
segno grandioso: una donna vestita di sole» (Ap
12, 1): la maternità di Maria e della
Chiesa
103. Il rapporto reciproco
tra il mistero della Chiesa e Maria si manifesta
con chiarezza nel «segno grandioso» descritto
nell'Apocalisse: «Nel cielo apparve poi un segno
grandioso: una donna vestita di sole, con la luna
sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di
dodici stelle» (12,1). In questo segno la Chiesa
riconosce una immagine del proprio mistero:
immersa nella storia, essa è consapevole di
trascenderla, in quanto costituisce sulla terra il
«germe e l'inizio» del Regno di Dio.139
Questo mistero la Chiesa lo vede realizzato in
modo pieno ed esemplare in Maria. È Lei la donna
gloriosa, nella quale il disegno di Dio si è
potuto attuare con somma perfezione.
La «donna vestita di sole»
— rileva il Libro dell'Apocalisse — «era
incinta» (12, 2). La Chiesa è pienamente
consapevole di portare in sé il Salvatore del
mondo, Cristo Signore, e di essere chiamata a
donarlo al mondo, rigenerando gli uomini alla vita
stessa di Dio. Non può però dimenticare che
questa sua missione è stata resa possibile dalla
maternità di Maria, che ha concepito e dato alla
luce colui che è «Dio da Dio», «Dio vero da
Dio vero». Maria è veramente Madre di Dio, la Theotokos
nella cui maternità è esaltata al sommo
grado la vocazione alla maternità inscritta da
Dio in ogni donna. Così Maria si pone come
modello per la Chiesa, chiamata ad essere la «nuova
Eva», madre dei credenti, madre dei «viventi» (cf.
Gn 3, 20).
La maternità spirituale
della Chiesa non si realizza — anche di questo
la Chiesa è consapevole — se non in mezzo alle
doglie e al «travaglio del parto» (Ap 12,
2), cioè nella perenne tensione con le forze del
male, che continuano ad attraversare il mondo ed a
segnare il cuore degli uomini, facendo resistenza
a Cristo: «In lui era la vita e la vita era la
luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta» (Gv 1,
4-5).
Come la Chiesa, anche Maria
ha dovuto vivere la sua maternità nel segno della
sofferenza: «Egli è qui... segno di
contraddizione perché siano svelati i pensieri di
molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà
l'anima» (Lc 2, 34-35). Nelle parole che,
agli albori stessi dell'esistenza del Salvatore,
Simeone rivolge a Maria è sinteticamente
raffigurato quel rifiuto nei confronti di Gesù, e
con Lui di Maria, che giungerà al suo vertice sul
Calvario. «Presso la croce di Gesù» (Gv 19,
25), Maria partecipa al dono che il Figlio fa di sé:
offre Gesù, lo dona, lo genera definitivamente
per noi. Il «sì» del giorno dell'Annunciazione
matura in pienezza nel giorno della Croce, quando
per Maria giunge il tempo di accogliere e di
generare come figlio ogni uomo divenuto discepolo,
riversando su di lui l'amore redentore del Figlio: «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a
lei il discepolo che egli amava, disse alla madre:
"Donna, ecco il tuo figlio"»(Gv 19,
26).
«Il drago si pose
davanti alla donna... per divorare il bambino
appena nato» (Ap 12, 4): la vita
insidiata dalle forze del male
104. Nel Libro
dell'Apocalisse il «segno grandioso» della «donna»
(12, 1) è accompagnato da «un altro segno nel
cielo»: «un enorme drago rosso» (12, 3), che
raffigura Satana, potenza personale malefica, e
insieme tutte le forze del male che operano nella
storia e contrastano la missione della Chiesa.
Anche in questo Maria
illumina la Comunità dei Credenti: l'ostilità
delle forze del male è, infatti, una sorda
opposizione che, prima di toccare i discepoli di Gesù, si rivolge contro sua Madre. Per salvare la
vita del Figlio da quanti lo temono come una
pericolosa minaccia, Maria deve fuggire con
Giuseppe e il Bambino in Egitto (cf. Mt 2,
13-15).
Maria aiuta così la Chiesa a
prendere coscienza che la vita è sempre al
centro di una grande lotta tra il bene e il
male, tra la luce e le tenebre. Il drago vuole
divorare «il bambino appena nato» (Ap 12,
4), figura di Cristo, che Maria genera nella «pienezza
del tempo» (Gal 4, 4) e che la Chiesa deve
continuamente offrire agli uomini nelle diverse
epoche della storia. Ma in qualche modo è anche
figura di ogni uomo, di ogni bambino, specie di
ogni creatura debole e minacciata, perché —
come ricorda il Concilio — «con la sua
incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo
modo a ogni uomo».140
Proprio nella «carne» di ogni uomo, Cristo
continua a rivelarsi e ad entrare in comunione con
noi, così che il rifiuto della vita dell'uomo,
nelle sue diverse forme, è realmente rifiuto
di Cristo. È questa la verità affascinante
ed insieme esigente che Cristo ci svela e che la
sua Chiesa ripropone instancabilmente: «Chi
accoglie anche uno solo di questi bambini in nome
mio, accoglie me» (Mt 18, 5); «In verità
vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a
uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete
fatto a me» (Mt 25, 40).
«Non ci sarà più la
morte» (Ap 21, 4): lo splendore
della risurrezione
105. L'annunciazione
dell'angelo a Maria è racchiusa tra queste parole
rassicuranti: «Non temere, Maria» e «Nulla è
impossibile a Dio» (Lc 1, 30.37). In verità,
tutta l'esistenza della Vergine Madre è avvolta
dalla certezza che Dio le è vicino e l'accompagna
con la sua provvidente benevolenza. Così è anche
della Chiesa, che trova «un rifugio» (Ap 12,
6) nel deserto, luogo della prova ma anche della
manifestazione dell'amore di Dio verso il suo
popolo (cf. Os 2, 16). Maria è vivente
parola di consolazione per la Chiesa nella sua
lotta contro la morte. Mostrandoci il Figlio, ella
ci assicura che in lui le forze della morte sono
già state sconfitte: «Morte e vita si sono
affrontate in un prodigioso duello. Il Signore
della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa».141
L'Agnello immolato vive
con i segni della passione nello splendore della
risurrezione. Solo lui domina tutti gli eventi
della storia: ne scioglie i «sigilli» (cf. Ap
5, 1-10) e afferma, nel tempo e oltre il
tempo, il potere della vita sulla morte. Nella
«nuova Gerusalemme», ossia nel mondo nuovo,
verso cui tende la storia degli uomini, «non
ci sarà più la morte, né lutto, né
lamento, né affanno, perché le cose di prima
sono passate» (Ap 21, 4).
E mentre, come popolo
pellegrinante, popolo della vita e per la vita,
camminiamo fiduciosi verso «un nuovo cielo e una
nuova terra» (Ap 21, 1), volgiamo lo
sguardo a Colei che è per noi «segno di sicura
speranza e di consolazione».142
O Maria,
aurora del mondo nuovo,
Madre dei viventi,
affidiamo a Te la causa della vita:
guarda, o Madre, al numero sconfinato
di bimbi cui viene impedito di nascere,
di poveri cui è reso difficile vivere,
di uomini e donne vittime di disumana violenza,
di anziani e malati uccisi dall'indifferenza
o da una presunta pietà.
Fà che quanti credono nel tuo Figlio
sappiano annunciare con franchezza e amore
agli uomini del nostro tempo
il Vangelo della vita.
Ottieni loro la grazia di accoglierlo
come dono sempre nuovo,
la gioia di celebrarlo con gratitudine
in tutta la loro esistenza
e il coraggio di testimoniarlo
con tenacia operosa, per costruire,
insieme con tutti gli uomini di buona volontà,
la civiltà della verità e dell'amore
a lode e gloria di Dio creatore e amante della
vita.
Dato a Roma, presso San
Pietro, il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione
del Signore, dell'anno 1995, decimosettimo di
Pontificato.
_______________
1
In verità, l'espressione "Vangelo della
Vita" non si trova come tale nella Sacra
Scrittura. Essa tuttavia ben corrisponde ad un
aspetto essenziale del messaggio biblico.
2
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 22.
3
Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis
(4 marzo 1979), n. 10: AAS 71 (1979), 275.
4
Cf Ibid., n. 14; l.c., 285.
5
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 27.
6
Cf Lettera a tutti i Fratelli nell'Episcopato
circa "Il Vangelo della vita" (19 maggio
1991): Insegnamenti XIV, 1 (1991), 1293-1296.
7
Ibid., l. c., 1294.
8
Lettera alle famiglie Gratissimam sane (2 febbraio
1994), 4: AAS 86 (1994), 871.
9
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1
maggio 1991), 39: AAS 83 (1991), 842.
10
N. 2259.
11
Cf S. Ambrogio, De Noe, 26, 94-96: CSEL 32,
480-481.
12
Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1867 e
2268.
13
De Cain et Abel, II, 10, 38: CSEL 32, 408.
14
Cf Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr.
circa il rispetto della vita umana nascente e la
dignità della procreazione Donum vitae (22
febbraio 1987): AAS 80 (1988), 70-102.
15
Discorso durante la Veglia di preghiera per l'VIII
Giornata Mondiale della Gioventù (14 agosto
1993), II, 3: AAS 86 (1994), 419.
16
Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al
Convegno di studio su "Il diritto alla vita e
l'Europa" (18 dicembre 1987): Insegnamenti X,
3 (1987), 1446-1447.
17
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 36.
18
Cf Ibid., 16.
19
Cf S. Gregorio Magno, Moralia in Job, 13, 23: CCL
143A, 683.
20
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4
marzo 1979), 10: AAS 71 (1979), 274.
21
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 50.
22
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum,
4.
23
"Gloria Dei vivens homo": Contro le
eresie, IV, 20, 7: SCh 100/2, 648-649.
24
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 12.
25
Confessiones, I, 1: CCL 27, 1.
26
Exameron, VI, 75-76: CSEL 32, 260-261.
27
"Vita autem hominis visio Dei": Contro
le eresie, IV, 20, 7: SCh 100/2, 648-649.
28
Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus
(1 maggio 1991), 38: AAS 83 (1991), 840-841.
29
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei
socialis (30 dicembre 1987), 34: AAS 80 (1988),
560.
30
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 50.
31
Lettera alle famiglie Gratissimam sane (2 febbraio
1994), 9: AAS 86 (1994), 878; cf Pio XII, Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42
(1950), 574.
32
"Animas enim a Deo immediate creari catholica
fides nos retinere iubet": Pio XII, Lett. enc.
Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950),
575
33
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 50; cf
Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale
Familiaris consortio (22 novembre 1981), 28: AAS
74 (1982), 114.
34
Omelie, II, 1: CCG 3, 39.
35
Si vedano, ad esempio, i Salmi 22[21], 10-11;
71[70], 6; 139[138], 13-14.
36
Expositio Evangeli secundum Lucam, II, 22-23: CCL
14, 40-41.
37
S. Ignazio D'Antiochia, Lettera agli Efesini, 7,
2: Patres Apostolici, ed. F. X. FUNK, II, 82.
38
La creazione dell'uomo, 4: PG 44, 136.
39
Cf S. Giovanni Damasceno, La retta fede, II, 12:
PG 94, 920.922, citato in S. Tommaso D'Aquino,
Summa Theologiae, I-II, Prol.
40
Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio
1968), 13: AAS 60 (1968), 489.
41
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr.
circa il rispetto della vita umana nascente e la
dignità della procreazione Donum vitae (22
febbraio 1987), Introd., 5: AAS 80 (1988), 76-77;
cf Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2258.
42
Didaché, I, 1; II, 1-2; V, 1 e 3: Patres
Apostolici, ed. F. X. FUNK, I, 2-3, 6-9, 14-17; cf
Lettera dello pseudo-Barnaba, XIX, 5; l. c.,
90-93.
43
Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.
2263-2269; cf Catechismo del Concilio di Trento III, 327-332.
44
Catechismo dlla Chiesa Cattolica, n. 2265.
45
Cf S. Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae, II-II,
q. 64, a. 7; S. Alfonso De' Liguori, Theologia moralis, l. III, tr. 4, c. 1, dub. 3.
46
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2266.
47
Cf Ibid.
48
N. 2267.
49
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 12.
50
Cf Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 27.
51
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 25.
52
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
sull'eutanasia Iura et bona (5 maggio 1980), II:
AAS 72 (1980), 546.
53
Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Veritatis splendor
(6 agosto 1993), 96: AAS 85 (1993), 1209.
54
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 51: "Abortus necnon
infanticidium nefanda sunt crimina".
55
Cf Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris
dignitatem (15 agosto 1988), 14: AAS 80 (1988),
1686.
56
Lettera alle Famiglie Gratissimam sane (2 febbraio
1994), 21: AAS 86 (1994), 920.
57
Congregazione per la Dottrina della Fede,
Dichiarazione sull'aborto procurato (18 novembre
1974), 12-13: AAS 66 (1974), 738.
58
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr.
circa il rispetto della vita umana nascente e la
dignità della procreazione Donum vitae (22
febbraio 1987), I, 1: AAS 80 (1988), 78-79.
59
Ibid., l. c., 79.
60
Così il profeta Geremia: "Mi fu rivolta la
parola del Signore: "Prima di formarti nel
grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi
alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito
profeta delle nazioni"" (1, 4-5). Il
Salmista, per parte sua, così si rivolge al
Signore: "Su di te mi appoggiai fin dal
grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il
mio sostegno" (Sal 71[70], 6; cf Is 46, 3; Gb
10, 8-12; Sal 22[21], 10-11).
Anche l'evangelista Luca -
nello stupendo episodio dell'incontro delle due
madri, Elisabetta e Maria, e dei due figli,
Giovanni Battista e Gesù, ancora nascosti nel
grembo materno (cf 1, 39-45) - sottolinea come il
bambino avverte l'arrivo del Bambino ed esulta di
gioia.
61
Cf Dichiarazione sull'aborto procurato (18
novembre 1974): AAS 66 (1974), 740-747.
62
"Non farai perire il bambino con l'aborto, né
l'ucciderai dopo che è nato": V, 2, Patres
Apostolici, ed. F. X. FUNK, I, 17.
63
Apologia per i cristiani, 35: PG 6, 969.
64
Apologeticum, IX, 8: CSEL 69, 24.
65
Cf Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930), II: AAS 22 (1930), 562-592.
66
Discorso all'Unione medico-biologica "S.
Luca" (12 novembre 1944): Discorsi e
radiomessaggi VI (1944-1945), 191; cf Discorso
all'Unione Cattolica Italiana delle Ostetriche (29
ottobre 1951), II: AAS 43 (1951), 838.
67
Lett. enc. Mater et Magistra (15 maggio 1961), 3:
AAS 53 (1961), 447.
68
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 51.
69
Cf Can. 2350, § 1.
70
Codice di Diritto Canonico, can. 1398; cf pure
Codice dei canoni delle Chiese Orientali, can.
1450, §2.
71
Cf Ibid., can. 1329; parimenti Codice dei Canoni
delle Chiese Orientali, can. 1417.
72
Cf Discorso ai Giuristi Cattolici Italiani (9
dicembre 1972): AAS 64 (1972), 777; Lett. enc.
Humanae vitae (25 luglio 1968), 14: AAS 60 (1968),
490.
73
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 25.
74
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr.
circa il rispetto della vita umana nascente e la
dignità della procreazione Donum vitae (22
febbraio 1987), I, 3: AAS 80 (1988), 80.
75
Carta dei diritti della famiglia (22 ottobre
1983), art. 4b, Tipografia Poliglotta Vaticana,
1983.
76
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
sull'eutanasia Iura et bona (5 maggio 1980), II:
AAS 72 (1980), 546.
77
Ibid., IV, l. c., 551.
78
Cf Ibid.
79
Discorso ad un gruppo internazionale di medici (24
febbraio 1957), III: AAS 49 (1957), 147; cf
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
sull'eutanasia Iura et bona, III: AAS 72 (1980),
547-548.
80
Pio XII, Discorso ad un gruppo internazionale di
medici (24 febbraio 1957), III: AAS 49 (1957),
145.
81
Cf Pio XII, Discorso ad un gruppo internazionale
di medici (24 febbraio 1957): AAS 49 (1957),
129-147; Congregazione Del Sant'Uffizio, Decretum
de directa insontium occisione (2 dicembre 1940):
AAS 32 (1940), 553-554; Paolo VI, Messaggio alla
televisione francese: "Ogni vita è
sacra" (27 gennaio 1971): Insegnamenti IX
(1971), 57-58; Discorso all'International College
of Surgeons (1 giugno 1972): AAS 64 (1972),
432-436; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
27.
82
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 25.
83
Cf S. Agostino, De civitate Dei I, 20: CCL 47, 22;
S. Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q.
6, a. 5.
84
Cf Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
sull'eutanasia Iura et bona (5 maggio 1980), I:
AAS 72 (1980), 545; Catechismo della Chiesa
Cattolica, nn. 2281-2283.
85
Epistula 204, 5: CSEL 57, 320.
86
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 18.
87
Cf Giovanni Paolo II, Lett. ap. Salvifici doloris
(11 febbraio 1984), 14-24: AAS 76 (1984), 214-234.
88
Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus
(1 maggio 1991), 46: AAS 83 (1991), 850; Pio XII,
Radiomessaggio natalizio (24 dicembre 1944): AAS
37 (1945), 10-20.
89
Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis
splendor (6 agosto 1993), 97 e 99: AAS 85 (1993),
1209-1211.
90
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr.
circa il rispetto della vita umana nascente e la
dignità della procreazione Donum vitae (22
febbraio 1987), III: AAS 80 (1988), 98.
91
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà
religiosa Dignitatis humanae, 7.
92
Cf S. Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae, I-II, q.
96, a.2.
93
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà
religiosa Dignitatis humanae, 7.
94
Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), II:
AAS 55 (1963), 273-274; la citazione interna è
tratta dal Radiomessaggio della Pentecoste 1941 (1°
giugno 1941) di Pio XII: AAS 33 (1941), 200. Su
questo argomento l'Enciclica fa riferimento in
nota a: Pio XI, Lett. enc. Mit brennender Sorge
(14 marzo 1937): AAS 29 (1937), 159; Lett. enc.
Divini Redemptoris (19 marzo 1937), III: AAS 29
(1937), 79; Pio XII, Radiomessaggio natalizio (24
dicembre 1942): AAS 35 (1943), 9-24.
95
Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), l.c.,
271.
96
Summa Theologiae, I-II, q. 93, a. 3, ad 2um.
97
Ibid., I-II, q. 95, a. 2. L'Aquinate cita S.
Agostino: "Non videtur esse lex, quae iusta
non fuerit", De libero arbitrio, I, 5, 11: PL
32, 1227.
98
Congregazione per la Dottrina della Fede,
Dichiarazione sull'aborto procurato (18 novembre
1974), 22: AAS 66 (1974), 744.
99
Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1753-1755;
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor
(6 agosto 1993), 81-82: AAS 85 (1993), 1198-1199.
100
In Iohannis Evangelium Tractatus, 41, 10: CCL 36,
336; cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis
splendor (6 agosto 1993), 13: AAS 85 (1993), 1144.
101
Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975),
14: AAS 68 (1976), 13.
102
Cf Messale romano, Orazione del celebrante prima
della comunione.
103
Cf S. Ireneo: "Omnem novitatem attulit,
semetipsum afferens, qui fuerat annuntiatus",
Contro le eresie: IV, 34, 1: SCh 100/2, 846-847.
104
Cf S. Tommaso D'Aquino: "Peccator inveterascit, recedens a novitate Christi",
In Psalmos Davidis lectura, 6, 5.
105
Sulle beatitudini, Sermone VII: PG 44, 1280.
106
Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis
splendor (6 agosto 1993), 116: AAS 85 (1993),
1224.
107
Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus
(1° maggio 1991), n. 37: AAS 83 (1991), 840.
108
Cf Messaggio in occasione del Santo Natale del
1967: AAS 60 (1968), 40.
109
Pseudo-Dionigi L'Aeropagita, Sui nomi divini, VI,
1-3: PG 3, 856-857.
110
Paolo VI, Pensiero alla morte, Istituto Paolo VI,
Brescia 1988, p. 24.
111
Giovanni Paolo II, Omelia per la beatificazione di
Isidoro Bakanja, Elisabetta Canori Mora e Gianna
Beretta Molla (24 aprile 1994): L'Osservatore
Romano, 25-26 aprile 1994, p. 5.
112
Ibid.
113
Omelie su Matteo, L, 3: PG 58, 508.
114
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2372.
115
Giovanni Paolo II, Discorso alla IV Conferenza
Generale dell'Episcopato Latino-Americano a Santo
Domingo (12 ottobre 1992), 15: AAS 85 (1993), 819.
116
Cf. Decr. sull'ecumenismo Unitatis redintegratio,
12; Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 90.
117
Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale
Familiaris consortio (22 novembre 1981), 17: AAS
74 (1982), 100.
118
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 50.
119
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1°
maggio 1991), 39: AAS 83 (1991), 842.
120
Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al VII
Simposio dei Vescovi europei sul tema "Gli
atteggiamenti contemporanei di fronte alla nascita
e alla morte: una sfida per
l'evangelizzazione" (17 ottobre 1989), 5:
Insegnamenti XII, 2 (1989), 945. I figli sono
presentati dalla tradizione biblica proprio come
un dono di Dio (cf Sal 127[126], 3); e come segno
della sua benedizione sull'uomo che cammina nelle
sue vie (cf Sal 128[127], 3-4).
121
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei
socialis (30 dicembre 1987), 38: AAS 80 (1987),
565-566.
122
Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale
Familiaris consortio (22 novembre 1981), 85: AAS
74 (1982), 188.
123
Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8
dicembre 1975), 18: AAS 68 (1976), 17.
124
Cf Ibid., 20, l.c., 18.
125
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 24.
126
Cf Lett. enc. Centesimus annus (1° maggio 1991),
17: AAS 83 (1991), 841; Lett. enc. Veritatis
splendor (6 agosto 1993), 95-101: AAS 85 (1993),
1208-1213.
127
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1°
maggio 1991), 24: AAS 83 (1991), 822.
128
Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale
Familiaris consortio (22 novembre 1981), 37: AAS
74 (1982), 128.
129
Lettera istitutiva della Giornata Mondiale del
Malato (13 maggio 1992), 2: Insegnamenti XV, 1
(1992), 1410.
130
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 35; Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo
1967), 15: AAS 59 (1967), 265.
131
Cf Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie
Gratissimam sane (2 febbraio 1994), 13: AAS 86
(1994), 892.
132
Giovanni Paolo II, Motu proprio Vitae mysterium
(11 febbraio 1994), 4: AAS 86 (1994), 386-387.
133
Messaggi del Concilio all'umanità (8 dicembre
1965): Alle donne.
134
Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem
(15 agosto 1988), 18: AAS 80 (1988), 1696.
135
Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie
Gratissimam sane (2 febbraio 1994), 5: AAS 86
(1994), 872.
136
Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al
Convegno di studio su "Il diritto alla vita e
l'Europa" (18 dicembre 1987): Insegnamenti X,
3 (1987), 1446.
137
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace
1977: AAS 68 (1976), 711-712.
138
B. Guerrico D'Igny, In Assumptione B. Mariae,
sermo I, 2: PL 185, 188.
139
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 5.
140
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 22.
141
Messale romano, Sequenza della domenica di Pasqua.
142
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 68.