Cristianesimo-Islam - Le aperture di Wojtyla, le chiusure dell'Islam
     Gaspare Barbiellini Amidei - Il dolore e la fatica di dar ragione al Papa

 

 

È difficile mantenere il distaccato tono dell’analisi davanti al massacro compiuto dai terroristi nella chiesa di Bahawalpur. Pregavano, piccola minoranza in terra musulmana. Pregavano il Dio dei cristiani anche per la gente di Allah, martellata dai bombardamenti in Afghanistan. Pregavano come chiede il Papa, che anche ieri è tornato a condannare ogni gesto che porta morte. È necessario analizzare la situazione eccezionale nella quale oggi si trova a parlare la Chiesa di Roma. Non tutti i credenti hanno la vocazione al martirio. Non tutti trovano la serenità sufficiente per volere il dialogo anche in condizioni di così evidente squilibrio. Molti cristiani chiedono di cercare non soltanto fratellanza ma anche reciprocità. Appena chiuso il Sinodo, il Pontefice ha ricordato il dovere dei vescovi di «stimolare l’azione missionaria». Ma in diversi Paesi dell’Islam dare catechesi cristiana è rischio mortale. Ed è già penalmente pericoloso per un viaggiatore tenere una Bibbia in valigia.

C’è una sensazione di difficoltà nello sforzo compiuto dalla Chiesa cattolica per dare concretezza al dialogo e per isolare il male rappresentato dal terrorismo.

L’ateismo marxista era, nella prima fase del pontificato di Karol Wojtyla, un avversario duro da contrastare ma facile da inquadrare. Il fondamentalismo islamico, che fa da retroterra ai terroristi, ha invece contorni sfumati. La Chiesa di Roma, così come ogni statista occidentale di buon senso, non può accettare contrapposizioni con altre civiltà e religioni. Ma neppure ignora i turbamenti che assillano un’opinione pubblica indignata per l’enormità dei delitti terroristici.

Non pochi sono anche preoccupati per l’area vasta di giustificazione, che a questi delitti è offerta anche in Europa, anche in Italia, dal fanatismo di minoranze islamiche.

Più semplice e facile era a maggio ascoltare le parole del Papa, che si rivolgeva ai fedeli di Allah nel cortile della grande moschea di Omayy a Damasco, davanti al Gran Mufti di Siria. Il delitto delle Torri gemelle allora appariva impossibile. Il Pontefice coglieva segni di «crescente amicizia», in uno scenario di grande speranza. «Una migliore comprensione reciproca certamente porterà, a livello pratico - diceva allora Giovanni Paolo II - a un modo nuovo di presentare le nostre due religioni, non in opposizione, come è accaduto fin troppo spesso nel passato, ma in collaborazione per il bene della famiglia umana».

Dall’11 settembre a livello pratico non sono venuti dalle folle con le magliette di Bin Laden segnali di migliore comprensione. Adesso il terrorismo colpisce direttamente i cattolici in una loro chiesa in Pakistan. A molti risulta amaro «offrire il perdono gli uni agli altri» come a maggio dalla Siria era l’invito del vescovo di Roma. Ora perdonare appare a molti impresa politicamente impraticabile e sentimentalmente prematura. In calendario da tempo, per il giorno successivo alla strage di Manhattan, era convocata a Sarajevo, su iniziativa dei vescovi europei, una riunione sul tema «cristiani e musulmani», che si è poi conclusa con una condanna del terrorismo «come peccato contro l’umanità».

C’è una mirabile coerenza in questo Papa che si commuove nello stesso tempo per i cristiani uccisi a colpi di fucile a Bahawalpur e per i musulmani sepolti dalle bombe a Kabul. Ma per chi lo ascolta e lo ama come capo spirituale, per chi, cristiano, è chiamato dai fondamentalisti «infedele», ogni cosa risulta più dura.

Questo Pontefice ha sempre tratto dalle difficoltà della storia e dalla sua santa inattualità la sua forza profetica. Ma per chi non è santo questa volta è particolarmente arduo il passaggio dalla teologia alla cronaca.

Gaspare Barbiellini Amidei

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[Dal Corriere della Sera del 29 ottobre 2001]

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