Di fronte alla sofferenza, al dolore, alla morte, quante volte abbiamo sentito
dire che vane sono state le preghiere. L’angoscia e il dubbio lentamente trovano
spazio e ci domandiamo: perché Dio ha voluto questo? È davvero questa la sua
volontà? Domande, interrogativi che papa Benedetto mette in evidenza nella sua
riflessione domenicale, dedicata alla Giornata mondiale del malato, 11 febbraio.
E questo perché nella cultura del nostro tempo, il tema della sofferenza e
della morte è praticamente rimosso: se ne parla solo occasionalmente. Gli ultimi
giorni dell’esistenza terrena si consumano quasi sempre in ospedale, certo per
dare migliori cure alla persona cara. Ma è indubbio che essendo “lontano” da
casa il malato, la malattia diventa un qualcosa di “lontano da noi”. E poi la
medicina con le sue sempre nuove capacità ci porta a considerare la malattia un
incidente di facile soluzione, prospettandoci quasi una sorta di immortalità
fisica. Salvo poi accorgerci che non è sempre così.
Per questo la civiltà di una
società si misura anche dalla sua capacità di salvaguardare, accompagnare e
proteggere colui che ha bisogno di cure e di assistenza, soprattutto le persone
più deboli e coloro che sono maggiormente in difficoltà. Nell'Angelus domenicale
papa Benedetto ricorda come nei Vangeli ci viene presentata l’esperienza della
guarigione di molti malati da parte di Cristo. Ed è proprio attraverso queste
guarigioni che Cristo ci invita a riflettere sul senso e sul valore della
malattia, in ogni situazione in cui l’essere umano può trovarsi.
“Nonostante che la malattia faccia parte dell’esperienza umana, ad essa non
riusciamo ad abituarci, non solo perché a volte diventa veramente pesante e
grave, ma essenzialmente perché siamo fatti per la vita, per la vita completa”.
Così quando ci troviamo di fronte alla morte o alla sofferenza non troviamo
quasi le parole e non ci basta pensare a Dio come pienezza di vita. Ma Gesù non
lascia dubbi, dice il Papa: Dio “è il Dio della vita, che ci libera da ogni
male. I segni di questa sua potenza d’amore sono le guarigioni che compie:
dimostra così che il Regno di Dio è vicino restituendo uomini e donne alla loro
piena integrità di spirito e di corpo”. Ma queste guarigioni sono segni da
interpretare; segni che ci guidano verso Dio “e ci fanno capire che la vera e
più profonda malattia dell’uomo è l’assenza di Dio, della fonte di verità e di
amore. E solo la riconciliazione con Dio può donarci la vera guarigione, la vera
vita, perché una vita senza amore e senza verità non sarebbe vita”.
Dietro la sofferenza c’è sempre un volto di uomo e di donna, un volto segnato
dal dolore, rigato dalle lacrime; il volto di un padre, di una madre, di un
marito, di una moglie, di un figlio, di un amico.
Ma la morte resta, esiste. Tutti gli esseri umani devono morire. “Perché Dio lo
vuole?” si chiede il cardinale Carlo Maria Martini nelle sue “Conversazioni
notturne a Gerusalemme”. E spiega: “Con la morte di suo figlio avrebbe potuto
risparmiare la morte agli altri uomini. Soltanto in seguito un concetto
teologico mi è stato di aiuto nel mio travaglio: senza la morte non saremmo in
grado di dedicarci completamente a Dio. Terremmo aperte delle uscite di
sicurezza, non sarebbe vera dedizione. Nella morte, invece, siamo costretti a
riporre la nostra speranza in Dio e a credere in lui. Nella morte spero di
riuscire a dire questo sì a Dio”.
La morte, la sofferenza. Le cronache di questi giorni ci portano storie di vite
spezzate, violate; ci dicono di uomini che per gioco bruciano un altro uomo; ci
raccontano, infine, della lotta silenziosa di una donna che, da 17 anni in coma,
continua a dare piccoli segni di vita. Dice il Papa: “Preghiamo per tutti i
malati, specialmente per quelli più gravi, che non possono in alcun modo
provvedere a se stessi, ma sono totalmente dipendenti dalle cure altrui: possa
ciascuno di loro sperimentare, nella sollecitudine di chi gli è accanto, la
potenza dell’amore di Dio e la ricchezza della sua grazia che ci salva”.
Angelus, dicevamo, che ricorda la Giornata del malato, e che quest’anno, nel
messaggio, il Papa mette in primo i bambini, le creature più deboli e indifese.
Piccoli esseri umani malati e sofferenti, “che portano nel corpo le conseguenze
di malattie invalidanti” e che lottano con mali ancora inguaribili. Bambini
feriti nel corpo e nell’anima “a seguito di conflitti e guerre”, vittime
innocenti dell’odio di insensate persone adulte. I ragazzi di strada, “privati
del calore di una famiglia e abbandonati a se stessi”; bambini violati nella
loro innocenza “da gente abietta”; bambini, ancora, “che muoiono a causa della
sete, della fame, della carenza di assistenza sanitaria, come pure i piccoli
esuli e profughi dalla propria terra”.
Se Dio è il Dio della vita che ci libera da ogni male, questo significa che non
abbandona mai i suoi figli nella prova, “ma sempre li rifornisce di mirabili
risorse di cuore e di intelligenza per essere in grado di fronteggiare
adeguatamente le difficoltà della vita”. Allora è importante affermare con forza
“l’assoluta e suprema dignità di ogni vita umana”.
Di qui, infine, la preghiera del Papa, all’Angelus, per “tutti i malati,
specialmente per quelli più gravi, che non possono in alcun modo provvedere a se
stessi, ma sono totalmente dipendenti dalle cure altrui: possa ciascuno di loro
sperimentare, nella sollecitudine di chi gli è accanto, la potenza dell’amore di
Dio e la ricchezza della sua grazia che salva”.
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© Copyright Sir - 9 febbraio 2009
Stralciamo dall'Angelus del 1°
febbraio
“L’eutanasia è una falsa
soluzione al dramma della
sofferenza, una soluzione non degna
dell’uomo. La vera risposta non può
essere infatti dare la morte, per
quanto ‘dolce’, ma testimoniare
l’amore che aiuta ad affrontare il
dolore e l’agonia in modo umano.
Siamone certi: nessuna lacrima, né
di chi soffre, né di chi gli sta
vicino, va perduta davanti a Dio”.
Sono le nette parole di Benedetto
XVI a commento della Giornata per la
vita lanciata dai vescovi italiani
per la domenica di oggi. La “forza
della vita nella sofferenza” viene
dal fatto che “Gesù soffre e muore
in croce per amore. In questo modo,
a ben vedere, ha dato senso alla
nostra sofferenza, un senso che
molti uomini e donne di ogni epoca
hanno capito e fatto proprio,
sperimentando serenità profonda
anche nell’amarezza di dure prove
fisiche e morali”. E parlando ancora
di Gesù, egli ha aggiunto: “la
sofferenza è stata parte integrante
della sua missione”.