"Fede e Polis"
Pubblichiamo il testo del discorso preparato dal Vescovo Rino Fisichella,
Rettore della Pontificia Università Lateranense, in vista
dell’incontro con i giovani tenutosi il 30 novembre scorso presso la
chiesa romana dei SS. Ambrogio e Carlo al Corso.
Lo scenario di un cambiamento culturale
Viviamo un momento importante della storia. I grandi cambiamenti che
sono sotto i nostri occhi coinvolgono in modo particolare la mutazione
dei paradigmi di pensiero che dall'antichità ai nostri giorni si sono
sviluppati in maniera dinamica, ma coerente. Assistiamo a una
sostanziale modifica dei concetti basilari della cultura quali quello di
natura-mondo, uomo-dio, spazio-infinito, tempo-eternità, libertà-verità,
diritto-giustizia… solo per fare alcuni esempi. Il pluralismo di
posizioni presente nella società impone ai credenti, di volta in volta,
una riflessione che si faccia carico non solo di chiarificare i concetti
in questione, ma anche di codificare nuovi linguaggi che esprimano con
coerenza i contenuti di sempre e ne supportino i conseguenti stili di
vita.
La sfida che si pone sul nostro terreno non è affatto di secondo
ordine; al contrario. Essa impone di focalizzare lo sguardo perché la
mente possa cogliere in profondità l'essenza delle problematiche in
gioco e comprenda quanto sia necessaria la nostra presenza nell'agone
delle idee e dei progetti perché non avvenga che quanti hanno non solo
il diritto, ma la responsabilità di intervenire nel pubblico dibattito
siano strumentalmente confinati in un angolo con una emarginazione del
tutto ingiustificata. La ricchezza del nostro pensiero, che si fa forte
di duemila anni di storia e di tradizione filosofica, letteraria e
scientifica è di notevole supporto a ogni cultura che voglia sviluppare
in sé concetti e linguaggi che mostrino il reale progresso verso cui si
è indirizzati.
Una società che volesse escludere o solo emarginare il fenomeno
religioso sarebbe per ciò stesso destinata a una inevitabile
autodistruzione. In ogni tempo, in ogni cultura che abbia creato
progresso e sia stata promotrice di ricchezza intellettuale, la
religione è sempre stata presente come fonte di riferimento costante
per il legislatore e forte strumento di coesione per la società.
Il dibattito tra fede e politica si ripropone spesso in modi alterni
nelle diverse fasi storiche. Oggi è di nuovo sul tappeto soprattutto
per il profondo cambiamento culturale in cui siamo inseriti. Si tratta
di comprendere, quindi, il senso di una possibile relazione e le modalità
che siano in grado di salvaguardare l'autoctonia e l'autonomia
di ambedue. I due termini sono stati utilizzati in maniera intenzionale
per esplicitare non solo la sfera di indipendenza propria in cui fede e
politica pensano e si regolano in forza dei propri principi (autonomia),
ma anche per evidenziare gli spazi peculiari all'interno dei quali sono
nati (autoctonia) e che permangono come criterio necessario per
la corretta valutazione del loro operare.
Dio e Cesare
Un primo principio fondamentale per la fede e la politica è certamente
il mantenimento della propria sfera di autonomia. Le radici di quella
sana distinzione tra Chiesa e Stato appartiene proprio a noi. "Date
a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Mc
12,17), permane come il criterio fondamentale a cui Chiesa e Stato si
richiamano per giustificare il proprio spazio di intervento. È
necessario comunque, comprendere il senso profondo del testo perché non
diventi un'espressione ovvia e insignificante. La domanda posta a Gesù
inizia con una captatio benevolentiae: gli viene riconosciuto che
è buono, parla con verità e il suo insegnamento è fatto non per
piacere agli uomini, ma a Dio. Questa captatio benevolentiae nei
nostri confronti è ancora spesso utilizzata, ma come nel passato
nasconde in sé una trappola; da ogni parte ci voltiamo sembra non
esserci via d'uscita: se parliamo di etica siamo condannati, se parliamo
di pace siamo lodati.
La risposta di Gesù non può assolutamente essere fraintesa come una
forma di sudditanza allo stato. Il senso del suo rimandare a Cesare e a
Dio ha una notevole differenza che si manifesta nel valore della
congiunzione. Una traduzione corretta dovrebbe dire: "Date a Cesare
quello che è di Cesare, ma date a Dio quello che è di Dio". Si
deve, dunque allo Stato ciò che gli appartiene e questo impedisce al
cristianesimo di pensare in termini di teocrazia. A Dio, però,
appartiene l'uomo che è stato creato a sua immagine. Quanto Gesù
attesta è che si deve riconoscere, anzitutto, la volontà di Dio.
L'imperatore non potrà mai decidere quanto appartiene a Dio; tenga pure
la sua moneta e se la faccia restituire dai cittadini, ma sappia che
tutto ciò che tocca l'uomo e la sua vita appartengono a Dio e a lui
solo.
Il cristianesimo, a differenza di altre religioni, non si è mai voluto
proporre come religione di Stato, ma ha sempre cercato di distinguersi
dallo Stato. Siamo disposti a pregare per quanti ci governano, ma non ad
offrire loro sacrifici. È necessario, pertanto, rivendicare più che
mai la nostra identità; questo impone di affermare che il cristianesimo
non potrà mai essere un semplice sentimento soggettivo, ma una verità
che siamo chiamati a rendere manifesta, in modo palese e nei luoghi
pubblici. Siamo consapevoli che questa verità non appartiene agli
uomini, ma è frutto di rivelazione; in forza di questo chiediamo che
anche chi non crede si confronti con essa per verificare le ragioni
delle proprie posizioni.
Non si comprende perché un simile intervento debba essere tacciato come
un'ingerenza nella vita politica di un Paese. Illuminare la coscienza di
ogni credente e provocare chiunque a riflettere dovrebbe essere
giudicato, piuttosto, come un esercizio di libertà e acquisizione di
responsabilità. Siamo stati sempre in prima linea nel promuovere e
difendere i principi basilari del vivere comune e civile. La stessa
concezione di democrazia che si è imposta nella modernità, d'altronde,
non avrebbe potuto neppure essere concepita se il cristianesimo non
avesse posto le premesse fondamentali per la sua genesi e il suo
sviluppo.
La democrazia, per l’intera coscienza dell’Occidente, è una
conquista tale che si pone come uno dei valori irrinunciabili su cui
costruire un sistema politico e su cui giudicare non solo la sua
legittimità, ma la stessa forma dei rapporti sociali. In un sistema
democratico, quindi, anche la fede è chiamata in questione. I suoi
contenuti, tuttavia, non possono essere assunti come surrogati in un
momento storico di crisi valoriale per essere poi gettati al vento in un
momento successivo. Una vera democrazia, quando si incontra con la fede,
è obbligata a confrontarsi con il concetto stesso di verità da cui non
può prescindere perché porta in sé un’autorità tale che supera
ogni sistema politico e ogni posizione personale.
Nel 1974, Paolo VI denunciava che uno dei drammi della nostra epoca era
costituito dalla rottura tra la cultura e la fede. Ne è derivato che la
cultura si è indebolita e frammentata mentre la fede si è rifugiata
nell'esperienza individuale. Ambedue le condizioni non hanno permesso un
rinnovato rapporto di responsabilità nei confronti della costruzione
della società, soprattutto da parte di quanti hanno il compito della
rappresentanza politica. Sorge, pertanto, l'urgenza di presentare in
"termini culturali moderni il frutto dell'eredità spirituale,
intellettuale e morale del cattolicesimo" anche per evitare il
rischio di una diaspora culturale che poca incidenza avrebbe nella vita
politica.
Passione per il futuro
Una breve panoramica sul contesto odierno permette di verificare alcuni
punti nodali che meritano una riflessione comune tra fede e politica.
Sorge, in primo piano, la questione su quanto stiamo preparando per le
generazioni future e su ciò che lasceremo loro in eredità. Se i
cattolici non provocassero la politica a questa analisi verrebbero meno
nella loro stessa fede che fa dello sguardo verso il futuro il pieno
compimento della promessa antica e della conoscenza stessa della verità
(cfr Gv 16,13). Situazione non facile quella di far riflettere sul
futuro mentre da diverse parti è pressante il canto di nuove sirene che
impongono di gestire solo il presente puntando su diverse forme di
effimero che producono solo illusione.
A differenza dei compagni di Ulisse, nessuno oggi sembra sentire il
bisogno di avvisare i compagni di viaggio, tanta è la presunzione di
essere autonomi e maturi da reggere lo scontro e superare il richiamo
insidioso. Pia illusione che non trova riscontro. Avere distrutto nel
recente passato il fondamento su cui costruire la propria esistenza, non
ha coinciso con l'offerta di un solido paradigma della verità e il
nostro contemporaneo si ritrova in una pozzanghera da cui non riesce a
venire fuori. Non è azzardato affermare che si stanno bruciando intere
generazioni che precipitano verso un abisso di debolezza solo perché
non si ha il coraggio di prospettare loro un impegno serio e duraturo su
cui costruire la loro vita, la società e il loro stesso futuro. Accade
così che mentre, da una parte, si accentua la provocazione per prendere
coscienza della responsabilità che compete, dall'altra, cresce
l'arroganza perché il vuoto e il nulla abbiano il sopravvento.
In un contesto come questo, diventa perfino più difficile trovare la mediazione,
vero strumento dell'azione politica. Spesso il modo di pensare che
alberga in molti è fondato sull'imposizione del diritto individuale a
scapito di ogni interesse per la convivenza sociale. Quando si orienta
la cultura all'esasperazione del diritto soggettivo senza più alcun
riferimento al vivere sociale e alla responsabilità comune, allora è
ovvio che si rende necessaria e urgente una svolta culturale che sappia
di nuovo rimettere al centro la persona e la sua relazionalità. Se le
scelte sono compiute non più in base a un principio etico, ma si fa
diventare etico tutto ciò che proviene dal desiderio individuale e si
spalanca la porta all'emotività per farla dominare sulla razionalità,
allora è necessario domandarsi se queste premesse su cui si vuole
indirizzare la società potranno reggere allo scontro inevitabile con il
valore oggettivo del diritto e il mantenimento della democrazia.
Se ognuno ha il diritto di creare un'unione matrimoniale come desidera,
se vuole avere figli come vuole, se intende porre fine alla sua vita
quando e come ha deciso e impone al legislatore di dare corpo a questo
"diritto", allora bisogna ribadire con forza che il diritto
individuale non è solo una questione di coscienza singola, ma è
primariamente un atto pubblico che deve essere regolato e limitato dalla
forza della ragione, della giustizia e della convivenza reciproca. Se il
singolo cittadino, pertanto, richiede al legislatore di riconoscere il
suo diritto, è obbligo del legislatore ricordare al singolo cittadino
che appartiene a una società.
Sorgono, a questo punto, alcuni interrogativi che evidenziano lo stato
di reale problematicità a cui non ci si può sottrarre: quale limite si
deve porre nel vivere sociale? Chi ha l'autorità per stabilirlo? Sulla
base di quali principi può farlo? Andremo verso una sorta di Stato
etico di venerata memoria hegeliana? Come si nota, permane un problema
di fondo: chi stabilisce i principi a cui tutti sono sottomessi? Lo
Stato, la religione, la scienza e la singola coscienza sono chiamati a
riconoscere, rispettare ed osservare il primo principio del vivere
personale e sociale: fare il bene ed evitare il male. Questa è
un'intuizione fondamentale che caratterizza l'agire di ogni persona.
Ora, chi stabilisce il confine tra i due e dove si situa il bene e il
male? Domanda perenne che rimarrà tale anche per i secoli futuri e che,
comunque, deve non solo essere posta, ma anche trovare adeguata
risposta.
E se queste domande potrebbero sembrare ovvie, rimane pur sempre aperta
un'altra questione di carattere più politico: tutto deve cambiare ogni
volta per l'alternanza dei governi o per le nuove ipotesi che la scienza
avanza o in forza dei nuovi desideri che sorgono con il cambiare delle
stagioni? Come si nota, queste domande e l'incapacità a voler dare
risposta creano un'inevitabile situazione di debolezza culturale, di
conflittualità dei diritti e di confusione valoriale che sfocia nella paura
del futuro. Si crea, insomma, una sorta di vortice di incertezza che
trascina inconsciamente ognuno in una indecisione costante, in un
profondo senso di impotenza e in una chiusura in se stessi a scapito del
vivere interpersonale.
Bisogna ugualmente riconoscere che spesso si ricava l'impressione di una
poca stima che la politica ha per se stessa e per ciò che produce.
Quando personalità che hanno la rappresentanza pubblica utilizzano nei
confronti della legge termini quali: "infame",
"indegna", "assurda", "talebana"… allora
si rende evidente la disistima per ciò che un sistema democratico
produce e la mancanza di responsabilità per il vivere civile e sociale
del Paese. Questo stato di cose non esprime primariamente una dissonanza
tra laici e cattolici, ma ben altro. Si è dinanzi a un vero conflitto
tra il richiamo ai principi etici – che come tali non hanno coloritura
confessionale, perché si appellano a quanto è inscritto nella natura e
nella ragione e sono quindi universali- e l'imposizione di teorie
relativiste, che non hanno neppure il supporto della scienza, tese a
impoverire ulteriormente la già debole ragione in forza del richiamo a
una perentoria libertà di coscienza.
Certo, la coscienza permane come l'intangibile richiamo ultimo a cui
ognuno deve riferirsi e sul quale nessuno può interferire. Deve essere,
però, la coscienza, non un surrogato di essa. La coscienza, tuttavia,
non è mai neutrale. Quando la coscienza è assopita perché non è
posta dinanzi ai contenuti etici o è assordata per lo strepito di chi
grida più forte, difficilmente può rinchiudersi nel suo silenzio ed
emettere un giudizio. Ciò che emerge, purtroppo, è una coscienza
imbrigliata nelle secche stagnanti di slogans pedanti, incapace
di formare una consapevolezza che abbia come suo primo fondamento la verità.
Ne deriva che il giudizio è stabilito non sul bene e sul male, ma su ciò
che individualmente si ritiene bene o male e spesso determinato da
un'emotività che erige a valore ciò che ha percepito come proprio
interesse privato. Merita, pertanto, ricordare quanto sia importante e
non procrastinabile farsi promotori di un pensiero che chiarifichi la
base stessa del diritto.
I nodi del dibattito politico
Nel contesto contemporaneo, i cattolici sono provocati a prendere in
maggior considerazione alcune tematiche che sono in primo piano
nell'agone politico. In primo luogo, è necessario porre il tema della
concezione della vita umana. La vera sfida che si staglia nei
confronti del pensiero in generale e della politica più direttamente,
è la stessa concezione della vita personale e le modalità della sua
genesi, durata e termine ultimo. La sacralità della vita è oscurata
per la tenacia di imporre una visione tecnicista, edonista ed effimera
come se tutto dipendesse dal puro caso o dalla sperimentazione
arbitraria e dove tutto si vive, cogliendo solo il semplice frammento
senza preoccuparsi di una progettazione personale compiuta nella libertà
che aprirebbe a spazi di vero futuro. Il mistero della vita viene
frantumato per l'arroganza di voler dare a tutto una spiegazione
scientifica, partendo da teorie che non intendono limitare l'uso della
scoperta al principio etico.
La prima conseguenza si manifesta nella cultura generalizzata secondo
cui ciò che differenzia le persone non è la sessualità che è
stata donata con il corpo, ma il genere che si è scelto di
vivere. Il genere diventa la costruzione sociale in alternativa al
sesso, come espediente per esprimere una libertà individuale di voler
essere se stessi non in forza della natura, ma della propria volontà;
espressione di libertà che si manifesta subito fragile e fittizia e che
solo una impenitente faziosità persiste nel difendere. Tolta in questo
modo, la differenza tra uomo e donna, si comprende facilmente che viene
posta in crisi la prima cellula su cui la società si fonda: la famiglia.
Carichi di una visione ideologica, che vuole relegare la concezione
cristiana del matrimonio e della famiglia nella sfera dell'oscurantismo
e della subordinazione della donna all'uomo, si insinua sempre più una
visione individualista ed egoista della relazionalità tra le persone
che mette in crisi l'istituzione stessa. Superfluo ricordare che la
situazione di crisi che ha toccato la famiglia non fa altro che
manifestare la permanente instabilità e crisi della società stessa. Se
una società, infatti, è costretta a verificare che al suo interno lo
stile di vita che progressivamente si assume è quello del vivere soli,
allora la politica dovrà almeno riflettere sul senso stesso dell'essere
societas. Se un Paese inizia ad avere un quarto o un terzo della
popolazione che vive solo, allora è necessario che almeno per spirito
di sopravvivenza il legislatore si impegni a porre rimedio.
La rincorsa a voler accontentare ogni tipo di simili manifestazioni,
invece, sembra spingere il legislatore ad assumere politiche pubbliche
in netto contrasto con i principi etici fondamentali pur di non
scontentare il singolo cittadino e pur di ripararsi dall'obbligo di
assumere delle responsabilità. Sarà bene ricordare che una legge
composta sulla base del relativismo etico, avrebbe fondamenta talmente
fragili da non poter neppure pretendere di essere assunta a norma
dell'agire universale dei cittadini, perché offende la dignità stessa
della legge prima ancora che la dignità del cittadino. Se non esistesse
un'autorità morale capace di andare oltre la sfera dello Stato, allora
sì, la libertà sarebbe realmente distrutta, perché di fatto un
qualsiasi potere politico diventerebbe fondamento dell'istanza etica.
Nel qual caso, la caduta in una strumentalizzazione del potere a proprio
vantaggio, non sarebbe più solo un rischio e la porta al totalitarismo
sarebbe spalancata. Pensare che la qualità della vita migliori,
solamente perché si qualificano alcuni servizi di benessere, è
illusorio e deludente se poi la concezione stessa della vita è lasciata
all'arbitrio individuale.
Si deve ritornare, a nostro avviso, alla legge impressa nella natura
che permane come regola suprema di vita e principio etico, nonostante lo
slittamento che si è creato con i "diritti fondamentali
dell'uomo". Questa legge non è una coercizione perché andrebbe
contro la stessa natura dell'uomo; essa, al contrario, è una perenne
sfida che si pone all'uomo perché in essa possa scoprire come
esercitare la sua libertà e la sua progettualità. L'uomo non potrebbe
mai porsi dinanzi alla natura in maniera passiva, quasi da essere
asservito dalla natura. Conforme alla sua stessa natura, invece, è
chiamato a far emergere dalla natura tutte le potenzialità che la
spingono ad essere ciò per cui è. Solo in questa reciproca
relazionalità, si può pensare di creare progresso coerente tra lo
sviluppo della natura mediante l'intelligenza dell'uomo e la
realizzazione dell'uomo stesso.
Quando ambedue, ciascuno conformi a se stessi, tendono verso la finalità
impressa in loro, allora siamo dinanzi a una reale conquista per il
progresso della specie e a un'applicazione coerente del principio etico.
La natura, pertanto, ha bisogno dell'uomo per manifestare ciò che è;
la cosa straordinaria è che in questa conoscenza, l'uomo scopre di
essere uscito lui pure da questa natura e che quindi è il fine verso
cui essa tende. Ciò non significa che l'uomo possa fare con la natura
tutto ciò che desidera o che vuole. Qui viene ad inserirsi il primato
dell'etica nei confronti di ogni potenzialità che l'uomo scopre nella
natura. Quando il legislatore pone al centro del proprio agire il
diritto e ne scopre i fondamenti là dove persona e natura si ritrovano
in un sano equilibrio, egli potenzia la legge e la rende norma stabile
per l'agire dei cittadini nella società.
Il richiamo perché in politica si ponga in primo luogo al centro la
dignità della persona, unitamente al bene comune non sono contenuti
nuovi; anzi, sono i principi che da sempre sostengono l'insegnamento
sociale della Chiesa. Ciò che oggi è necessario considerare è,
piuttosto, la concreta condizione storica in cui ci si trova per
verificare quali sono le condizioni per la dignità della persona e il
raggiungimento del bene comune. Alcune problematiche devono essere
considerate proprio perché attestano "esigenze etiche fondamentali
e irrinunciabili" per un credente sia che si impegni in politica
sia quando è chiamato a valutare un programma per decidere del suo
voto. Su alcune questioni è in gioco l'essenza stessa dell'ordine
morale che tocca la totalità della persona.
Si pensi, ad esempio a leggi in materia di aborto e di eutanasia – che
non deve essere confusa con la rinuncia all'accanimento terapeutico - il
rispetto e la protezione dell'embrione umano; la salvaguardia, la tutela
e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio monogamico e tra
persone di sesso diverso; la libertà di educazione dei genitori per i
propri figli; la tutela sociale dei minori; la liberazione dalle nuove
forme di schiavitù: droga, prostituzione…; la libertà religiosa; lo
sviluppo per un'economia che sia al servizio della persona e del bene
comune in base ai principi di solidarietà e sussidiarietà; la pace tra
i popoli che non sia irenica o strumentale. Su questi temi si gioca la
concezione stessa della vita, della natura e dell'uomo che apparterranno
alle prossime generazioni. Pensare che la qualità della vita migliori,
solamente perché si qualificano alcuni servizi di comodità, è
illusorio e deludente se poi la concezione stessa della vita è lasciata
all'arbitrio individuale.
In una fase in cui sembra che la politica viva spesso solo di numeri e
di programmazioni economiche, non è male che qualcuno richiami a volare
più alto e riproponga una dimensione progettuale che sappia preparare
il futuro. Questo tipo di far politica è vincente ed è capace di
dissipare i sospetti e il velo di indifferenza, steso particolarmente
sulle giovani generazioni, che non riescono ad afferrare la passione per
l'impegno politico.
Su questi impegni concreti è necessario evitare la diaspora dei
cattolici in politica. Ciò non coincide necessariamente con la
formazione di nuove identità. Pericoloso, o forse comodo, cadere in una
lettura riduzionistica che spinge tutto a classificare di destra, di
centro e di sinistra. Le strategie che vengono assunte per approdare a
ipotetiche nuove formazioni non toccano la competenza del Magistero
della Chiesa. Le sfide a cui la politica deve guardare sono ben altre.
Ciò che per noi acquista importanza decisiva è, piuttosto, la capacità
di creare il consenso più ampio, perché ciò che viene perseguito
abbia un fondamento etico nel diritto naturale.
In questo contesto, è importante esplicitare il senso di "laicità"
che si erge non poche volte a dogma nella vita del nostro Paese. In una
società veramente democratica l'ascolto delle diverse istanze presenti
non è un optional, ma un obbligo che ognuno deve avere perché
non avvenga che chi fa riferimento al proprio credo sia confessionale e
chi invece dipende dall'ideologia sia uomo libero. Nessuno potrà
dimenticare, tra l'altro, che il principio di autonomia come quello di
"laicità" sono espressione dell'originalità del
cristianesimo e sua preziosa eredità per le diverse democrazie. Laicità,
comunque, non si contrappone a fede. Essa indica, piuttosto, un modo di
riflettere, di analizzare e di produrre idee e contenuti che
indipendentemente dalla fede fanno leva sulla forza di una ragione
libera di ricercare la verità e di proporla quando l'ha trovata.
Non possiamo tacere
Un'ultima considerazione mi sembra necessaria, soprattutto in risposta a
quanti ritengono che su diverse questioni i vescovi debbano tacere.
Ritorna in questi giorni con una forte carica di arroganza il comando
laicista: sileant catholici in campo alieno. I cattolici non
prendano la parola su questioni che non li riguardano. Sorge spontanea
la domanda: ci sono questioni che non devono interessarmi? Potrebbe
essere, ma vorrei essere io a deciderlo. Quando, tuttavia, si parla di
problematiche che toccano in primo piano la natura umana, i principi su
cui si è costruita e sviluppata la civiltà a cui appartengo e le leggi
a cui dovrei obbedire io e il popolo cristiano che ha sempre manifestato
lealtà nei confronti dell'autorità costituita (cfr Rm 13,1-7; 1 Tm
2,2; 1 Pt 2,13-17), allora l'imposizione del silenzio diventa una
violenza. I cattolici hanno acquisito una maturità tale nei duemila
anni di storia che li ha portati a condividere una responsabilità
civile e sociale da cui non possono esonerarsi neppure se lo volessero.
Verrebbero meno nel loro stesso compito di credenti che li obbliga a
impegnarsi nel mondo per trasformarlo a servizio dell'uomo.
Pur nella genericità del titolo, fede e polis presentano una
serie di problematiche di ordine culturale, etico, morale, politico e
legislativo. Ognuno, a secondo della competenza che possiede, esprime la
sua visione del mondo sapendo che l'obiettivo primario rimane la
partecipazione diretta alla crescita della società in cui vive. Non
possiamo dimenticare, d'altronde, che il sistema democratico in cui
viviamo è costituito primariamente dalla forma della rappresentanza
non della delega. Non posso delegare nessuno su questioni che toccano la
mia coscienza, ma posso essere rappresentato nelle istituzioni
competenti perché ciò che costituisce la mia visione del mondo abbia
la sua voce diretta nelle sedi legislative. In un sistema democratico
dove sono presenti istanze culturali differenti non chi grida di più ha
ragione, ma chi presenta le ragioni che possono aggregare il
massimo del consenso. Certo, la verità non è data dal consenso –
oggi, tra l'altro, troppo facile da essere acquistato – ma dalla
oggettività delle ragioni che permettono di raggiungere l'essenza
stessa della realtà di cui si discute.
Difficile pensare che quando si ha una debolezza generale allora cresce
la forza della Chiesa; come se la nostra forza fosse conseguenza della
debolezza altrui. La forza della Chiesa è forza del Vangelo che viene
annunciato e percepito come vero senso della vita oltre le ipotesi che
si formulano e si vogliono accreditare. Solo nella misura in cui siamo
forti del Vangelo che portiamo allora diventiamo anche un segno visibile
e concreto presente nella società come espressione di libertà, di
fiducia nell'intelligenza dell'uomo e come rimando perenne verso una
Presenza che dà pieno significato alla vita dell'uomo e di ogni uomo.
Se venissimo meno a questa nostra missione allora sì saremmo deboli e
insignificanti; come il sale di cui parla il Signore che diventato
insipido non solo viene gettato, ma calpestato con disprezzo dagli
uomini (Mt 5,13).
Fino a quando saremo capaci di vivere la nostra fede con coerenza,
nonostante le nostre contraddizioni, saremo anche capaci di raccogliere
intorno alla forza delle nostre argomentazioni un consenso che va oltre
gli schieramenti di partito, perché si fa forte della ragione e del
rispetto verso una legge, inscritta nel cuore di ognuno, che non ha
bisogno di essere emanata dagli uomini, ma solo riconosciuta. Essa
acquisisce la sua legittimità da Colui che sta all'origine di ogni bontà
e verità. Solo nella misura in cui il legislatore sarà capace di
comprendere la genuinità di questa legge sarà capace di formulare
leggi che ricevono il pieno rispetto dei cittadini e si pongono come
fattore di autentico progresso per tutti.
Perché questo avvenga è necessario che laici e cattolici riscoprano la
nostalgia per la verità e ne facciano di nuovo la loro inseparabile
compagna di vita. Si diceva un tempo: amicus Plato, sed magis amica
veritas! Quanto la saggezza del tempo antico sia attuale non ha
bisogno di dimostrazione. Per noi credenti, l'amicizia di Platone non ci
mai disturbato né allontanato dalla verità; al contrario, la nostra
sapienza ci ha fatto dire con Tommaso d'Aquino che: "omne verum a
quocumque dicatur a Spiritu Sancto est". Se lo sguardo, pertanto,
è fisso sulla verità non ci sarà conflitto alcuno. L'impegno nella
politica potrà essere solo fecondo e il riconoscimento delle differenze
sarà percepito e vissuto come ricchezza da condividere e non come
limite per la libertà.
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