«Se aveste fede come un granello di senape....»
Piero Stefani

XLII Sessione di Formazione Ecumenica S.A.E.: Chianciano 23-29 luglio 2005


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Avanti col dialogo, perché «non abbiamo che esso per conoscerci» e «per risolvere i problemi». E «quanto più sinceramente ci avviciniamo a Cristo, tanto più diventiamo vicini tra di noi». Giovanni Paolo II
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“Se aveste fede quanto un granello di senape…” A volte ci sono frasi del Vangelo che dischiudono un mondo proprio se si ha il coraggio dell’ingenuità; vale a dire se le si prende nel loro significato più letterale. Questo avviene in particolare quando si è di fronte a espressioni paradossali. Assumendole parola per parola il loro senso si fa più profondo. 

Come si sa, la senape è seme minuscolo. Altrove nel vangelo questa sua piccolezza è citata per riferirsi alla crescita prodigiosa del regno (cfr. Mt 13, 31). Qui no. Essa continua a indicare una dimensione piccolissima, ma lo fa per attestare che la nostra fede è persino al di sotto di quella esigua misura. L’immagine vuole porre in luce la scarsità della fede dei discepoli. 

Se volessimo incrociare, un poco arbitrariamente, le due immagini, si sarebbe tentati di dire che se il regno non cresce o si sviluppa solo come arbusto sofferente ciò avviene perché la fede di noi discepoli è ancor più piccola di un granellino. Ne è testimonianza dolorosa e inconfutabile la divisione dei credenti in Gesù Cristo. 

In questo caso non si tratta di positiva e conviviale ricchezza delle differenze; si è piuttosto di fronte a fratture incoerenti, incapaci di sradicare il gelso di gelose appartenenze per trapiantarlo nel mare aperto della libertà secondo lo Spirito. 

Il perdono 

Nel vangelo di Luca vi è una successione eloquente di passi rivolti ai discepoli. Prima si indica la franca necessità di una denuncia: «se tuo fratello pecca rimproveralo»; ma poi si dischiude subito la prospettiva della riconciliazione: «ma se si pente, perdonagli». 

Si tratta di una dinamica a un tempo longanime e povera, in cui la ripetizione è sospesa tra debolezza e comprensione, portate entrambe al di là della misura di quanto appare ragionevole: «E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai». Il perdono, anche di fronte a ripetute cadute, è un imperativo, non un’opzione. 

È a questo punto che gli apostoli, rivolgendosi al Signore, chiedono «Aumenta la nostra fede» (cfr. Lc 17,3-5). È necessario collegare i due passaggi. Occorre avere fede in Dio, ma bisogna anche aver fiducia nella capacità del fratello di offrirti sempre, poveramente, il suo desiderio di riconciliazione. Una fede che non sa accogliere la voce di un pentimento - che pur sembra preso nelle spire di una sospetta ripetizione - è più piccola di un granellino: non cresce né fa crescere. 

Tuttavia, quando si presta ascolto al pentimento del proprio fratello, ci si accorge che vi è sempre una bilateralità: nessuno è senza peccato nei confronti del prossimo suo. La riconciliazione delle memorie è espressione più profonda della loro purificazione. Essa infatti pone al proprio centro la reciprocità. 

Perché questo cammino ecumenico tra discepoli divisi possa essere compiuto giorno dopo giorno è indispensabile una fede che raggiunga almeno la piccolezza del chicco di senape. Abbiamo bisogno di un credere che, non vergognandosi delle proprie fragilità, sia capace di riproporre con tenacia la via del pentimento e del perdono. 

La fede 

Non è detto che l’immagine della crescita della fede sia la più profonda. Ce lo dice un episodio del vangelo di Marco. Un padre porta davanti a Gesù il proprio figlio vittima, di un demone muto che lo scuote e lo minaccia. Ogni tentativo di curarlo è risultato vano e il padre supplica Gesù dicendogli «se tu puoi qualcosa abbi pietà di lui». Ascoltò questa risposta: «Se tu puoi! tutto è possibile a chi crede»; il padre replicò: «Credo, aiuta la mia incredulità» (cfr. Mc 9,14-28). Davanti alla muta incapacità del figlio di chiedere aiuto anche la non fede del padre diviene un credere. La fede nasce dalla non fede.

Essa sgorga dall’assillo di prendersi cura di coloro che non ci possono più essere estranei perché sono, o sono diventati, nostro prossimo. Di fronte al dolore del proprio figlio la parola esprime una incredulità credente. La paradossale risposta del padre appare più autentica di quella posta da Luca sulle labbra degli apostoli: «Aumenta la nostra fede». 

La fede non cresce per accumulo, va conservata povera e quindi capace di invocare che, cessato il mutismo, sgorghi di nuovo la parola. La fede può dirsi forte solo a motivo della propria debolezza. Fa parte della fede essere sospinta dal pungolo della propria incredulità per chiedere di essere aiutata nella sua povertà. 

Di fronte al figlio muto ed esposto alle più terribili minacce, il padre trova la fede a partire dalla propria non fede. Al giorno d’oggi fa parte della incredulità dell’uomo di fede rendersi conto che dietro a tutto ciò possono esserci moti della psiche. 

La fede si sa di essere altro, ma per testimoniarlo non deve ignorare la serietà della ricerca volta a comprendere laicamente l’animo umano. Anche su questa via possono però esservi insidie. 

La preghiera 

Nel corso di una conversazione con Martin Buber un suo interlocutore confessò che se era occasionalmente capace di pregare subito era portato a riflettere sulla preghiera, a ridurla a semplice funzione psicologico-soggettiva e, quindi, a distruggerla. Buber rispose che proprio questa era la malattia spirituale di fondo della nostra epoca. È giusto. 

Eppure affermare che la voce della fede non deve piegarsi su di sé e sperdersi nei meandri della psiche, non equivale a ignorare l’effettiva esistenza di dinamiche psicologiche. Farlo significherebbe aderire a una fede che si crede forte al solo fine di ottenere qualcosa. Mentre è proprio quando si invoca che si deve ripetere con il padre: «Credo, aiuta la mia incredulità». Vi è un non credere che fa parte integrante della fede; è infatti solo attraverso quella componente che passa la diuturna lotta da combattere contro la propria idolatria. 

La verità. 

Una storia chassidica narra di un uomo che di fronte a un celebre zaddiq (il capo della comunità) si lamentava senza reticenze della menzogna che si annida nel cuore umano, fino al punto di rendere falsa anche quella sua confessione. Nessun atto umano ha la purezza dell’acqua distillata. Preso dalla disperazione egli si gettò a terra. «Come cerca la verità quest’uomo» disse allora il rabbi. Poi lo sollevò dolcemente e gli disse: «Sta scritto: “la verità crescerà dalla terra” (Sal 85,12)». 

In ebraico verità si dice emet, la stessa radice di emunà che vuol dire fede-fiducia. Fa parte della nostra fede credere che la ricerca della verità possa trovare ospitalità nell’animo di tutti, credenti o non credenti, e sapere che la sincerità di chi non ritiene di poter dire di sì a Dio non é inferiore alla nostra. Quanto importa e accomuna è essere convinti che la ricerca della verità non sia tratto secondario del nostro vivere. 

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