Una delle protagoniste del movimento
femminista, la filosofa Luisa Muraro, aveva accolto con favore la «Lettera»
dell’allora cardinale Ratzinger: «Ha affermato per la prima volta con
chiarezza il valore universale della differenza sessuale; e va ascoltata
anche la sua lezione contro il relativismo»
Meno di un anno fa una voce autorevole del
mondo femminista definì «una novità dirompente» il
documento sulla
collaborazione tra uomo e donna che portava la firma dell'allora prefetto
della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. La
femminista era Luisa Muraro, fondatrice della comunità filosofica Diotima,
che si caratterizza per il pensiero sulla differenza sessuale. La docente di
filosofia, oggi che il cardinale è divenuto Papa, conferma l'apprezzamento
che espresse su il Manifesto. «Se il cardinale - immaginava allora
la Muraro all'inizio del suo articolo - fosse un mio studente, di molte cose
mi piacerebbe ragionare con lui, complimentarmi, interrogarlo, distanziarmi
o consentire, a proposito della sua Lettera». «Era un'ipotesi
scherzosa», puntualizza.
Perché quella lettera è così importante?
«Prima di essa l'antropologia cristiana non aveva mai messo in evidenza che
l'essere umano "sono donne e uomini". Aveva sempre sottolineato
l'unità della persona umana, dando un posto importante, ma secondario, alla
differenza sessuale, e cercando poi di spiegare questa differenza con la
complementarità tra i sessi. In quella lettera invece si affermava che la
differenza sessuale è un tratto costitutivo dell'umanità. Gli essere umani
sono costitutivamente sessuati: donne e uomini».
In che modo?
«L'allora
cardinale disegnava la realizzazione degli esseri umani di sesso femminile
nei termini di un'umanità non complementare a quella maschile».
Un
esempio?
«Sottolineava l'importanza della partecipazione delle donne al
governo delle aziende e dei Paesi, in ruoli cioè che la tradizione fino
allora, con pieno appoggio del pensiero cristiano e cattolico, aveva
assegnato piuttosto alla realizzazione di sé di uomini di sesso maschile».
Lei apprezzò quel n.14 della lettera, in cui si affermava che la
promozione della donna nella società deve essere compresa e voluta come una
umanizzazione realizzata attraverso i valori riscoperti grazie alle donne.
«Si riferiva alle qualità che più storicamente sono state espresse da
donne, che si riconducono dunque a una espressione storica, non alla
fisiologia, né alla anatomia, né alla maternità. La lettera parlava
esplicitamente di una manifestazione di certe qualità storicamente espresse
più da donne che da uomini, che possono diventare ricchezza e patrimonio
dell'umanità e di cui possono appropriarsi anche gli uomini. Cioè indica
il valore universale della differenza femminile. L'umanità infatti nella
sua universalità è fatta da donne e fatta da uomini. La quintessenza del
pensiero della differenza consiste nel capire che l'umano non viene dal
complemento di donne e uomini. L'umano sono le donne e l'umano sono gli
uomini. La differenza non va oltrepassata in una superiore unità».
Un
altro aspetto che apprezzava nel testo del cardinale era la critica ad una
cultura che tende a liberarsi dai limiti biologici.
«A questo proposito
citavo Leopardi, che è stato profetico nel prevedere certi cambiamenti
della nostra civiltà e sottolineare l'importanza del richiamo alla natura.
Che vuol dire tutto ciò? O la natura la vediamo come l'inchiodamento ad un
destino biologico: la natura come negatrice di libertà. E da questa
posizione deriva, naturalmente, la tendenza a oltrepassare i limiti della
natura. Oppure la natura, cioè il nostro essere corpo, la nostra comunanza
con la realtà naturale, la possiamo leggere umanamente, leggerla nella
libertà: accettare questa prossimità che abbiamo con l'umiltà
dell'animale, dei bambini, delle persone private dell'intelligenza. Questo
è un pensiero che va ripreso. Invece la ricerca della libertà attraverso
l'allontanamento dalla natura è una strada molto pericolosa. E lo abbiamo
visto».
È un rischio anche cancellare la nostra dipendenza dalla
relazione materna?
«Certo, dobbiamo ricordarci che siamo stati messi al
mondo da una donna, nel modo in cui la donna partorisce. Quella realtà che
sant'Agostino indicava per umiltà con l'espressione "inter feces et
urinam" e che noi possiamo designare con la carnalità che ci abita».
Ma
c'è una parte del movimento femminista che rifiuta questa carnalità.
«Infatti
c'è un conflitto da tempo nel femminismo. Una corrente vuole che non siamo
più donne, ma che cogliamo le possibilità indeterminate che le tecnologie
e il liberismo ci mettono a disposizione. C'è, invece, un pensiero che si
mette in circolo con ciò che è natura, dipendenza, bisogno che abbiamo gli
uni degli altri».
Ratzinger si mostrava un alleato prezioso per questa
seconda posizione?
«Come la vedo io, sì. Le femministe cattoliche gli
hanno fatto delle critiche che io non sto a rinnegare. Ma per me la
preoccupazione principale è che la nostra civiltà non vada alla deriva di
un artificialismo e di un umanesimo fine a se stesso».
Quindi il
pensiero del nuovo Papa potrà essere d'aiuto?
«È una voce che va
ascoltata. Anche la sua critica al relativismo è una cosa che va ascoltata.
Nella comunità filosofica Diotima, che ho costituita, abbiamo detto:
"su quello siamo d'accordo". Si può dire tutto e il contrario di
tutto? No. La pretesa di poter dire qualcosa di vero deve restare
nell'orizzonte delle aspirazioni degli esseri umani. Il bisogno di verità
deve rimanere tra le cose che manteniamo. Per me e per le mie compagne
filosofe l'obiettivo essenziale non è attaccare la Chiesa cattolica, ma
salvare la civiltà umana, in senso globale, non solo quella occidentale, la
convivenza, il senso delle nostre vite, della storia umana».
Tutto ciò
si può ottenere senza una tensione verso la verità?
«Certo che no».
Con
il relativismo ci autodistruggiamo?
«È così».