"Ora, se vorrete ascoltare la mia voce a
custodirete la mia Alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i
popoli perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di
sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,5-6). Si tratta quindi di
passare dalla servitù di Faraone al servizio del Signore che ha ascoltato
il lamento del suo popolo oppresso e ha deciso di liberarlo rimanendo
fedele alle sue promesse (Es 3, 7-10 e Gen 12, 1-4).
Ogni manifestazione di Dio
è un evento trascendente di fronte al quale l'uomo è chiamato a
riconoscerne la grandezza e la sproporzione rispetto alla propria
creaturalità, per questo anche Mosè, a cui il Signore si rivela
attraverso il roveto ardente, "nasconde la faccia" poiché teme
di "guardare" verso di Lui (Es 3, 6). Tuttavia è proprio Mosè
ad essere definito dalla Scrittura e dalla tradizione rabbinica come colui
al quale Dio concede una vicinanza e una "visione" della Sua
trascendenza solitamente impossibile e pericolosa (Es 19, 12 e 33, 19-23; Esodo
Rabbà XXVIII, 6, Levitico Rabbà 1,14), per questo egli può
"salire" sul monte e "parlare" con il Signore che gli
"risponde" con "una voce" alla quale "può
reggere" (Es 19,19; Esodo Rabbà V, 9).
Tutto il popolo rimane
invece ai piedi del Sinai ove comunque i segni della teofania sono
evidenti: tuoni, lampi, nube densa, forte suono di tromba (Es 19, 16), ma
soprattutto fuoco: "Il monte Sinai era tutto fumante, perché su
di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo
di una fornace" (Es 19,18). Alcuni commenti colgono un
particolare rapporto tra la parola del Signore che si rivela e il fuoco
che accompagna tale rivelazione , caratteristica che la tradizione ritiene
sia comune a molte teofanie (Es 3, 26 e Gen 15, 17) e alle parole stesse
della Torà, come sottolineato in un autorevole commento al
Deuteronomio che, a un certo punto, afferma: "infatti entrambi (fuoco
e Torà) furono dati dal cielo ed entrambi sono eterni" (Sifrè
Deuteronomio 143a).
Siamo quindi di fronte ad un evento divino che, in
questo modo, si dà una volta per sempre nell'orizzonte di una mediazione
che coinvolge in maniera particolare Mosè, in quanto la rivelazione a lui
concessa è la sorgente a cui tutti i profeti successivi hanno attinto:
"Ciò che i profeti erano destinati a profetizzare alle generazioni
avvenire lo ricevettero dal monte Sinai" (Esodo Rabbà XXVIII,
6).
Il dono della Torà
non solo è destinato a permanere nel tempo, ma è offerto per
essere accolto e vissuto. La tradizione rabbinica, a tale proposito,
sottolinea due aspetti importanti. Da una parte precisa che Dio si è
espresso nelle "settanta lingue dell'umanità" in modo che tutti
i popoli potessero comprendere (Esodo Rabbà V,9), dall'altra però
fa notare che solo il popolo d'Israele ha accolto i precetti rivelati
nella prospettiva di un insegnamento per la vita (Sifrè al
Deuteronomio, Pisqa 343).
La Scrittura infatti
testimonia che tutto il popolo "vede" i segni della teofania
sinaitica ed è testimone di ciò che Dio rivela a Mosè (Es 20, 18), e
tutto il popolo si impegna solennemente ad accogliere la Torà con
la seguente affermazione: "Tutto ciò che il Signore ha
detto/rivelato lo eseguiremo (n'asè) e lo ascolteremo (wenishma')
(Es 24, 7). Gli ebrei che pronunziano queste parole sono gli stessi che
hanno vissuto un'esperienza di liberazione unica nel suo genere, e il Dio
che li ha liberati mostrando la sua fedeltà alle promesse non può che
volere il loro bene, per questo insegna come custodire il patto di
Alleanza affinché il medesimo possa durare nel tempo.
Per questo il Suo
insegnamento va innanzitutto vissuto e, in questo contesto,
"ascoltato", cioè continuamente ricompreso e riconsiderato alla
luce dei nuovi eventi della storia Poiché, come la Torà stessa
precisa, "non è più in cielo" ma nelle mani degli uomini
affinché possano continuare a "scegliere la vita e il bene" (Dt
30, 12-19).
Tutto ciò implica la necessità di comprendere sempre più in
profondità una parola che si dà agli uomini nei suoi percepibili
molteplici aspetti. Nel Salmo 62 non a caso di legge: "Una parola
ha detto Dio, due ne ho udite" (Sal 62,10). La tradizione
rabbinica insegna che da ciò si deduce che un versetto della Scrittura
può avere diverse interpretazioni, che vanno intese come le scintille
prodotte da un martello che spezza la roccia ( Talmud Babilonese,
Sanhedrin 34a; Shabbath 88b).
È pertanto importante che la
tradizione continui a discutere e ad interrogarsi su come continuare a
rimanere fedeli all'insegnamento di libertà del Sinai. Non a caso gli
insegnamenti rabbinici, giocando sull'assonanza dei termini ebraici charut
(inciso) e cherut (libertà), insegnano a considerare i precetti
della Torà "libertà" su tavole anziché prassi
"incisa" su tavole (Mishnà, Avot VI, 2), ribadendo così
che l'insegnamento rivelato va accolto e vissuto in quanto proveniente
dall'unico Dio capace di liberare e di trasformare una storia anonima e
perdente in una storia di salvezza.
Ecco allora ciò di cui il
popolo ebraico è ancora oggi testimone tra le genti: una libertà che
porta all'impegno nella fedeltà al dono della Torà ricevuta
attraverso Mosè capace di "parlare con Dio", rivelazione che,
come ben ricorda Elia Benamozegh, comprende anche i precetti dati da Dio a
Noè dopo il diluvio, i quali costituiscono l'insegnamento per i
"giusti" come lui, cioè i "gentili amati da Dio i cui
meriti fanno la prosperità tra le nazioni" (E. Benamozegh, Israele
e l'umanità, Marietti, Genova, 1990, pp. 209-240).
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