Viaggio Apostolico di Giovanni Paolo II
in Turchia, 28-30 novembre 1979
Santissimo e molto amato fratello.
“Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano
insieme!” (Sal 133,1). Queste parole del salmista scaturiscono dal
mio cuore oggi che sono con voi. Sì, quanto è buono, quanto è soave
essere tutti insieme fratelli.
Noi siamo riuniti per
celebrare Sant’Andrea, un apostolo, il primo chiamato fra gli
apostoli, fratello di Pietro, corifeo degli apostoli. E questa
circostanza sottolinea il significato ecclesiale del nostro incontro
odierno. Andrea era un apostolo, vale a dire uno degli uomini scelti
dal Cristo per essere trasformati dal suo Spirito ed essere inviati
nel mondo come lui stesso era stato inviato dal Padre (Gv 17,19). Gli
apostoli sono stati inviati per annunciare la Buona Novella della
riconciliazione in Cristo (cf. 2Cor 5,18-20), per chiamare gli uomini
ad entrare in comunione con il Padre attraverso Cristo nello Spirito
Santo (cf. 1Gv 1,1-3) e per riunire così gli uomini, divenuti figli
di Dio, in un grande popolo di fratelli (cf. Gv 11,52). Riunire tutto
in Cristo a lode e gloria di Dio (cf. Ef 1,10-12) tale è la missione
degli apostoli, tale è la missione di quelli che, dopo di loro,
furono scelti ed inviati, tale è la vocazione della Chiesa.
Noi celebriamo dunque
oggi un apostolo, il primo chiamato fra gli apostoli, e questa festa
ci ricorda l’esigenza fondamentale della nostra vocazione, la
vocazione della Chiesa.
Questo apostolo,
patrono dell’illustre Chiesa di Costantinopoli, è il fratello di
Pietro. Certamente tutti gli apostoli sono legati tra loro dalla nuova
fraternità che unisce coloro il cui cuore è rinnovato dallo Spirito
del Figlio (cf. Rm 8,15) e ai quali è stato affidato il ministero
della riconciliazione (cf. 2Cor 5,18), ma questo non annulla i legami
specifici creati dalla nascita e dall’educazione in una stessa
famiglia. Andrea è il fratello di Pietro. Andrea e Pietro erano
fratelli e, in seno al collegio apostolico, doveva unirli una intimità
più grande e una collaborazione più stretta nell’azione
apostolica.
Qui ancora l’odierna
celebrazione ci ricorda che fra la Chiesa di Roma e la Chiesa di
Costantinopoli esistono particolari legami di fraternità e
d’intimità, e che una collaborazione più stretta è naturale tra
queste due Chiese.
Pietro, fratello di
Andrea, è il corifeo degli apostoli. Grazie all’ispirazione del
Padre, ha pienamente riconosciuto in Gesù il Cristo, il Figlio del
Dio vivente (cf. Mt 16,16); a causa di questa fede egli ha ricevuto il
nome di Pietro, affinché la Chiesa potesse fondarsi su questa roccia
(cf. Mt 16,18). Egli è stato incaricato di assicurare l’armonia
della predicazione apostolica. Fratello tra i fratelli, ha ricevuto la
missione di riconfermarli nella fede (cf. Lc 22,32); egli ha per primo
la responsabilità di vegliare sull’unione di tutti, di assicurare
la sinfonia delle sante Chiese di Dio nella fedeltà “alla fede
trasmessa ai santi una volta per tutte” (Gd 3).
Con questo spirito
animato da questi sentimenti, il successore di Pietro ha voluto in
questo giorno rendere visita alla Chiesa che ha per patrono Sant’Andrea,
al suo venerato Pastore, a tutta la sua gerarchia e a tutti i suoi
fedeli. E ha voluto partecipare alla sua preghiera. Questa visita alla
prima sede della Chiesa ortodossa mostra chiaramente la volontà di
tutta la Chiesa cattolica di andare avanti nel cammino verso l’unità
di tutti, e anche la convinzione che il ristabilimento della piena
comunione con la Chiesa Ortodossa è una tappa fondamentale per il
progresso decisivo di tutto il movimento ecumenico. La nostra
divisione non ha potuto essere priva di influenze sulle altre
divisioni che sono seguite.
La mia iniziativa si
pone nel solco aperto realizzato da Giovanni XXIII. Essa riprende e
prolunga le iniziative memorabili del mio predecessore Paolo VI,
quella che lo conduceva prima a Gerusalemme, ove ebbe luogo per la
prima volta l’abbraccio commovente e il primo dialogo orale con il
Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, nel luogo stesso dove si compì
il mistero della Redenzione per la riunione dei figli di Dio dispersi;
poi l’incontro avvenne qui, oltre dodici anni fa, in attesa che il
Patriarca Atenagora venisse a sua volta a rendere visita a Paolo VI
nella sua sede di Roma. Queste due grandi figure ci hanno lasciato per
raggiungere Dio: essi hanno compiuto il loro ministero, l’uno e
l’altro protesi verso la piena comunione e quasi impazienti di
realizzarla finché erano ancora in vita. Da parte mia non ho voluto
tardare ancora per venire a pregare con voi, presso di voi; fra i miei
viaggi apostolici già realizzati o progettati, questo rivestiva ai
miei occhi un’urgenza e un’importanza particolari. Oso anche
sperare che, di nuovo, noi potremo pregare insieme, Sua Santità il
Patriarca Dimitrios I e io, e questa volta sulla tomba dell’apostolo
Pietro. Tali iniziative esprimono davanti a Dio e davanti a tutto il
Popolo di Dio la nostra impazienza per l’unità.
Nel corso di quasi un millennio le due Chiese-sorelle sono fiorite
l’una accanto all’altra, come due grandi tradizioni vitali e
complementari della stessa Chiesa di Cristo, conservando non soltanto
relazioni pacifiche e fruttuose, ma l’aiuto dell’indispensabile
comunione nella fede, nella preghiera e nella carità, che a nessun
costo volevano rimettere in discussione, malgrado le differenti
sensibilità.
Il secondo millennio,
al contrario, è stato offuscato, a parte qualche fuggevole schiarita,
dalla distanza che le due Chiese hanno preso reciprocamente con tutte
le funeste conseguenze. La piaga non è ancor guarita.
Ma il Signore può
guarirla, e ci ingiunge di fare il meglio possibile. Eccoci ormai al
termine del secondo millennio: non sarebbe tempo di affrettare il
passo verso la perfetta riconciliazione fraterna affinché l’alba
del terzo millennio ci trovi di nuovo fianco a fianco, nella piena
comunione, per testimoniare insieme la salvezza di fronte al mondo, la
cui evangelizzazione attende questo segno di unità?
Sul piano concreto, la
visita odierna dimostra anche l’importanza che la Chiesa cattolica
attribuisce al dialogo teologico che sta per iniziare con la Chiesa
ortodossa. Con realismo e saggezza, in conformità all’auspicio
della Sede Apostolica di Roma e anche al desiderio delle Conferenze
panortodosse, era stato deciso di riannodare tra la Chiesa cattolica e
le Chiese ortodosse relazioni e contatti che avessero permesso di
riconoscersi e di creare l’atmosfera necessaria per un fruttuoso
dialogo teologico. Bisognava ricostituire il contesto prima di tentare
di rifare insieme i testi. Questo periodo è stato giustamente
chiamato il dialogo della carità. Questo dialogo ha permesso di
prendere coscienza della profonda comunione che già ci unisce, e fa sì
che possiamo guardarci e trattarci come Chiese-sorelle. Molto è già
stato realizzato, ma bisogna continuare questo sforzo.
Bisogna trarre le
conseguenze di questa reciproca riscoperta teologica, in ogni luogo
ove cattolici e ortodossi vivono insieme.
Bisogna superare le
abitudini all’isolamento per collaborare in tutti i settori
dell’azione pastorale, ove una tale collaborazione è resa possibile
dalla comunione quasi totale che già esiste fra noi. Non bisogna aver
paura di riconsiderare, da una parte e dall’altra, e in
consultazione reciproca, le regole canoniche stabilite quando la
coscienza della nostra comunione – ormai stretta anche se ancora
incompleta – era ancora oscurata, regole che forse non corrispondono
più ai risultati del dialogo della carità e alle possibilità che
sono state aperte. È importante perché i fedeli dell’una e
dell’altra parte si rendano conto dei progressi compiuti, e sarebbe
auspicabile che quanti stanno per essere incaricati del dialogo
abbiano la preoccupazione di trarne le conseguenze, per la vita dei
fedeli, dei progressi futuri.
Questo dialogo
teologico che sta per iniziare avrà lo scopo di superare i malintesi
e i disaccordi che esistono ancora fra noi se non a livello di fede,
almeno a livello della formulazione teologica. E dovrebbe svolgersi
non soltanto nell’atmosfera del dialogo e della carità che deve
svilupparsi e intensificarsi, ma anche in un’atmosfera di adorazione
e di disponibilità.
È soltanto
nell’adorazione, con un senso acuto della trascendenza del mistero
indicibile che “sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,19) che si
potranno situare le nostre divergenze e “niente imporre che non sia
necessario” (cf. Unitatis Redintegratio, 18).
Mi sembra in effetti
che la domanda che dobbiamo porci non è tanto di sapere se possiamo
ristabilire la piena comunione, ma ancor più se abbiamo il diritto di
restare separati. Questa domanda dobbiamo porcela in nome anche della
nostra fedeltà alla volontà di Cristo sulla sua Chiesa, cui una
preghiera incessante deve renderci gli uni e gli altri sempre più
disponibili nel corso del dialogo teologico.
Se la Chiesa è
chiamata a riunire gli uomini nella lode di Dio, Sant’Ireneo, grande
Dottore dell’Oriente e dell’Occidente, ci ricorda che “la gloria
di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo, Adversus haereses, IV,
20,7). Tutto nella Chiesa è ordinato per permettere che l’uomo viva
veramente in questa piena libertà che deriva dalla comunione con il
Padre, attraverso il Figlio, nello Spirito. Sant’Ireneo in effetti
afferma “e la vita dell’uomo è la visione di Dio”, la visione
del Padre manifestata nel Verbo.
La Chiesa non può
pienamente rispondere a questa vocazione se non testimoniando con la
sua l’unità la novità di questa vita data nel Cristo. “Io in
loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo
sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv
17,23).
Sicuro che la nostra
speranza non può essere delusa (cf. Rm 5,5), torno a dirvi, fratelli
amatissimi, la gioia di trovarmi fra voi, e con voi ne rendo grazie al
Padre da cui viene ogni dono perfetto (cf. Gc 1,17).