Come si potrebbe configurare
un Islam italiano
P. Giovanni Rizzi
Sentinella, quanto
resta della notte? Pubblichiamo l'unita riflessione che ci sembra dare un valido contributo a come porci di fronte
all'emergere del fenomeno Islam, nella consapevolezza che
l'Occidente non è più al centro del mondo, ci sono tanti orizzonti nuovi che lo incalzano e premono ai suoi confini,
anzi già al suo interno. È importante non arroccarsi, ma altrettanto
importante è impegnarsi per la conoscenza reciproca, il
dialogo, per costruire qualcosa di nuovo di inedito, senza lasciarsi fagocitare e senza escludere. Ma nasce, ora, il
timore che siamo noi a correre il rischio di venire esclusi, tra qualche generazione, in casa nostra. Comunque il
dialogo, foriero di civile convivenza, esige dagli interlocutori maturità e reciprocità; quindi l'impegno dev'essere
in questa direzione. E, poi, non smettiamo di "vivere" i valori in cui crediamo, anche se sembrano
affievolirsi sotto l'incalzare di una cultura prevalentemente "mercantile". Siamo convinti che sia necessario;
perché ognuno di noi porta il suo filo colorato nel grande
Arazzo della Storia, in cui non c'è posto per le trame nere dell'odio...(NdR)
Questioni preliminari di linguaggio
Innanzi tutto occorre
sgombrare il campo dalle attuali confusioni concettuali e
terminologiche. L'odierna situazione di crisi politica internazionale,
con i risvolti tipici della globalizzazione, purtroppo sta contribuendo
in modo pericoloso a confondere concetti, termini e ambiti dei rapporti
con l'islam, soprattutto nel mondo italiano.
Si sente, infatti, dire che
l'islam non coincide con il "terrorismo dei terroristi"
musulmani, che l'islam è una grande civiltà, che dobbiamo
"dialogare" con i musulmani, anzi che sarebbe opportuno in
questi frangenti portare a conclusione l'iter giuridico di approvazione
di un'intesa tra l'"islam italiano" e lo Stato Italiano;
oppure si ascoltano testimonianze opposte da "brivido" nelle
interviste sui mezzi di comunicazione sociale tra la gente comune come
tra "personaggi di grido", e talvolta anche presso esponenti
politici; spesso si assiste a una vera gazzarra politica di
strumentalizzazioni tutte nostrane, che fanno dell'islam un pretesto per
altre operazioni.
Purtroppo questo linguaggio, che accoglie definizioni
politiche, culturali, civili, giuridiche e religiose è troppo ibrido,
approssimativo, fonte di gravi confusioni, affrettato e ispirato da una
situazione politica di preoccupazione, che non si rivela buona
consigliera.
L'attuale emergenza politica non deve affrettare nessun
processo né di rifiuto, né di accostamento o d'integrazione del mondo
musulmano. L'emergenza politica non deve coinvolgere emotivamente
nessuna delle questioni storiche, culturali, giuridiche e religiose che
ineriscono all'odierna questione islam: non s'improvvisano valutazioni
sensate in questi campi.
All'attuale emergenza politica nel nostro paese
può essere concesso di sollecitare un'ordinaria etica civile di
convivenza, di ragionevole tolleranza, di attenzione umanitaria per
eventuali casi di necessità, all'interno di un clima di vigilanza per
la sicurezza del paese, così che siano possibili le indagini necessarie
perché questa sicurezza sia effettivamente garantita.
Ma deve anche
essere chiaro che non si può partecipare a un'operazione di polizia
internazionale contro il terrorismo, per ragioni di prestigio politico
quando sarà convocato il tavolo dei vincitori. Ancor meno un cristiano
può partecipare a una guerra per una simile ragione.
Inoltre, c'è il
rischio che il linguaggio dei politici usi termini come
"dialogo", espressioni come "rispetto delle
religioni" ecc., collocandoli in un'ottica politica, della vita
laica della "pòlis", ma ottenendo l'effetto collaterale di
coinvolgere anche la portata e l'esperienza che simili termini o
espressioni hanno nella cultura teologica cattolica.
Il cittadino
italiano cattolico sarebbe così portato a dare un senso anche teologico
e moralmente normativo a termini o a espressioni, che invece ricorrono
in un discorso civile e politico, ma che non possono presumere di
ricollegarsi a un maturo dibattito intra-ecclesiale. In altri termini,
sembra che ci si stia muovendo verso il grave equivoco di classificare
frettolosamente e strumentalmente un linguaggio, di per sé teologico,
come "politicamente corretto", oppure "politicamente
scorretto".
In realtà, qualunque linguaggio che parli di
"dialogo", di valutazioni storico-culturali, religiose o
teologiche, qualunque iniziativa di carattere giuridico, che porta
sempre con sé importanti risvolti costituzionali, è da far maturare e
da situare in momenti diversi da quelli attuali. Ciò è vero
soprattutto perché una reale formazione, sui problemi connessi
all'attuale questione islam, non si può improvvisare, ma va preparata
con una adeguata assimilazione di un cammino formativo che dovrebbe
portare a un discernimento su cosa sia l'islam.
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Nell'attuale contesto storico-culturale
del nostro paese, occorre avere la lucidità e la forza di prescindere
dagli eventi dell'11 settembre 2001: tematizzare una questione islam non
significa discriminare né in senso negativo, né in senso provocatorio,
una delle componenti del variegato flusso immigratorio, che sta
caratterizzando largamente in questi ultimi decenni tutta l'Europa
occidentale.
In realtà, gli immigrati di provenienza extra-comunitaria, che
stanno affluendo nel nostro paese, sotto il profilo religioso presentano
una fenomenologia complessa, poiché appartengono alle principali
correnti religiose attualmente esistenti, senza escludere l'intricato subcontinente
delle sette o dei nuovi movimenti religiosi.
Tuttavia si giustifica ugualmente una messa a tema del flusso
immigratorio di tradizione e di religiosità "islamica" sia
per la percentuale di persone, che lo caratterizza in rapporto alle
altre componenti etnico-religiose, come per la configurazione
storico-culturale dell'islam stesso.
Non si può, infatti, sottostimare la relazione esistente tra
percentuale delle presenze e configurazione storico-culturale
dell'islam, anche se è soprattutto quest'ultima a far prospettare come
strategica la percentuale delle presenze di religione musulmana
nell'attuale flusso immigratorio.
La questione di fondo è costituita dal dibattito sull'identità
storico-religiosa e politico-culturale dell'islam. Infatti, se è vero
che esistono vari tipi di islam, è anche vero che essi potrebbero
essere semplicemente un ineluttabile fenomeno storico, ma non una scelta
programmatica d'identità per tutto l'islam. Anzi, alla luce del "kalam"
, simile fenomenologia storica sarebbe illegittima : tutto dovrebbe
dipendere, in teoria, dai reali orientamenti in tal senso nell'islam a
livello mondiale nei prossimi anni.
In ogni caso, a differenza delle altre componenti storico-culturali e
religiose del flusso immigratorio nel nostro paese, quella islamica non
può esimersi dall'affrontare anche tecnicamente, giuridicamente e
ufficialmente questo suo dibattito interno, poiché è nella natura
stessa delle due più importanti versioni dell'islam a livello mondiale,
quella sunnita e quella sciita, la configurazione della "sharia", come statuto costituzionale della società civile.
In questo senso non si può neppure dimenticare né minimizzare la
teorizzazione di una strategia islamica internazionale, formulata quasi
trent'anni or sono da Ilia Izerbegovic, ma pubblicata su una rivista
italiana nel 1993, quando si prospettava uno scenario dell'islam,
"casa della pace" quando costretto o comunque di fatto
circoscritto a minoranza in un contesto di maggioranza diverso, ma che
non può dimenticare il suo destino mondiale quando nuovi rapporti si
dovessero configurare all'interno di uno scenario anche locale. Se è
vero che simile risoluzione strategica può essere circoscritta e
contestualizzata nella crisi balcanica e quindi significativa per gli
islam balcanici, è anche vero che simile commistione tra opportunismo
politico e destino religioso può facilmente essere fatta propria da non
pochi islam locali, fino a coinvolgerli in un movimento internazionale.
In termini ancora più espliciti e attualmente un po' semplificatori, si
potrebbe dire che è "fisiologicamente" inevitabile, perché
"istintivo" nella tradizione storico-culturale politica e
religiosa dell'islam mondiale, che con una configurazione sempre più
ampia e significativa dell'"islam italiano" emerga la
richiesta dell'applicazione parziale, sporadica o anche gradualmente
sempre più allargata delle istituzioni della "sharia"
islamica, anche nel tessuto della nostra costituzione.
D'altra parte, tanto la riflessione giuridica, quanto il dibattito
politico nel nostro paese in questi ultimi dieci anni non sembrano aver
investito molte energie sul problema .
Nell'autunno del 1995 il Ministero degli Interni, attraverso la persona
del Prof. Silvio Ferrari, chiese alla Diocesi di Milano, e
specificamente a una commissione allargata del CADR, un parere sulla
fattibilità di una delle bozze d'intesa tra le comunità islamiche
italiane e lo Stato Italiano. Sulla base del materiale fornitoci,
relativo in particolare all'Unione delle Comunità e delle
Organizzazioni Islamiche Italiane (UCOII), esprimemmo un parere
completamente negativo sulla questione.
Nella riunione tecnica della commissione, qualche mese dopo all'inizio
del 1996, esponemmo senza riserve al Prof. Ferrari tutta l'ambiguità
giuridica della materia, in quanto presentata da un ente non
giuridicamente rappresentativo della realtà musulmana in Italia, né
facilmente configurabile come tale; lo statuto giuridico stesso dei
membri dell'UCOII si sarebbe rivelato un ibridismo assurdo: lo Stato
Italiano avrebbe dovuto siglare un'intesa giuridicamente vincolante in
Italia con un'associazione formata solo in parte da cittadini italiani,
ma comprendente anche immigrati di molte nazionalità, che non sono
cittadini italiani; qualunque accordo con siffatto "ente" non
avrebbe avuto alcun valore giuridico presso gli stati musulmani, i cui
cittadini fossero presenti nel nostro paese; non esisteva e non esiste
alcun foro giuridico internazionale competente a dirimere eventuali casi
discussi.
Anche adesso, ad anni di distanza, ritengo che le cose non si siano
modificate e che, qualora fosse stata accettata una "bozza
d'intesa" come quella allora presentata, avremmo consegnato nel
nostro stesso paese in materia di diritto matrimoniale, ad esempio, un
cittadino o una cittadina di nazionalità italiana alla giurisdizione
musulmana senza poter più intervenire nei suoi confronti in caso di
contenzioso giuridico.
Un'approfondita riflessione giuridica, sulle compatibilità tra l'ordinamento del diritto musulmano della "sharia", come
delle scuole giuridiche della tradizione islamica, con l'ordinamento
costituzionale del nostro paese e dei paesi europei, rimane, in ogni
caso, essenziale. Una linea opportunamente prudenziale sembra tuttavia
maturata in alcuni giuristi laici, che, a differenza di qualche
canonista ecclesiastico, hanno giustamente invitato a non precipitare i
tempi di eventuali accordi tra le svariate organizzazioni islamiche
presenti nel nostro paese e il governo italiano, come si è potuto
costatare al convegno della CEI (1999) sui matrimoni con dispensa
per disparità di culto.
Per quanto riguarda le forze politiche, non è facile dimenticare quanto
asserito nei primi mesi del 1995, in una città del nord-Italia, da un
ex-politico. Dopo aver ascoltato una diagnosi della situazione in vista
del primo convegno sull'islam alla CEI, con franchezza affermava che
quello sarebbe stato il tempo di muoversi, ma che nessun politico
l'avrebbe fatto, perché il ritorno d'immagine e di voti sarebbe stato
troppo esiguo; tuttavia tra qualche anno tutti i politici si sarebbero
mossi, dicendo però che sarebbe stato tardi e che ci si sarebbe dovuti
muovere prima.
Normalmente poi, come al solito, nell'imminenza delle elezioni si vedono
iniziative, talvolta coinvolgenti anche nomi di studiosi e specialisti
di fama, anche se il sospetto della finalità di allargare il bacino
degli elettori non è infondato. C'è da augurarsi che simili iniziative
di formazione non si riducano a pura informazione e perseverino anche
dopo i risultati delle elezioni