Si definiscono entrambe «religioni del
Libro» ma il loro rapporto con Dio è agli antipodi. Lo storico francese
spiega perché la fede nella Bibbia comporta un'idea di storia, ragione e
natura incompatibile con la visione del mondo insegnata dal Corano.
Nell'incontrare l'Islam il Cristianesimo non deve dimenticare la propria
diversità. Altrimenti rinnega se stesso e le sue radici ebraiche
II seguente testo è una sintesi dalla prefazione scritta
dall'accademico di Francia Alain Besançon, studioso di storia del
totalitarismo e di cultura religiosa, per il libro postumo del teologo
protestante Jacques Ellul «Islam e cristianesimo. Una parentela
impossibile» (Edizioni Lindau, pagine 128, € 9). Il volume, che uscirà
in libreria il 10 novembre, contiene un manoscritto ritrovato dopo la
morte di Ellul, scomparso nel 1994, che raccoglie le sue riflessioni sui
rapporti tra Cristianesimo e Islam. Il dato interessante è la forte
sintonia su questo tema di due intellettuali per altri versi assai
lontani: da una parte Besançon, fervente cattolico e liberale di tendenza
conservatrice; dall'altra Ellul, studioso appartenente alla scuola del
teologo calvinista svizzero Karl Barth, che era schierato su posizioni di
radicale ambientalismo e simpatizzava inoltre per gli ideali anarchici.
Per entrambi Infatti, sul piano teologico, la distanza tra Islam e
Cristianesimo risulta incolmabile.
Quale status può essere assegnato all'Islam dalla teologia cristiana? Si
tratta di una religione rivelata o di una religione naturale? Secondo la
teologia cristiana, gli esseri umani si suddividono come segue. Alcuni
fanno parte dell'Alleanza detta di Noè: grazie a quest'alleanza gli
uomini possono prendere coscienza della legge di natura, formandosi
un'idea del divino nell'ambito delle religioni che chiameremo pagane.
All'interno di quest'umanità comune, Dio ha «scelto» un uomo, Abramo,
con la cui «casa» ha stipulato un'alleanza, ripresa e ampliata da quella
accordata a Mosè nel nome del popolo che Dio si «crea» ai piedi del
monte Sinai. Infine, Dio, per mezzo del suo Verbo incarnato venuto come
«Messia» d'Israele, istituisce una «Nuova Alleanza», capace di
estendersi all'umanità intera. Ma come si colloca l'Islam all'interno di
questa classificazione?
La difficoltà e l'imbarazzo che provano cristiani ed ebrei
nell'assegnarlo al gruppo delle religioni naturali nasce dal fatto che
esso proclama di credere in un solo Dio, eterno, onnipotente, creatore,
misericordioso. Sembra qui di riconoscere il primo dei Dieci Comandamenti
trasmessi a Mosè, ma c'è una differenza sostanziale: il Dio dell'Esodo
si presenta come il liberatore del proprio popolo in una particolare
situazione storica. Nel Corano, invece, la storia non esiste. La
professione di fede islamica è all'apparenza simile al primo articolo del
Credo cristiano: «Credo in un solo Dio onnipotente, creatore del Cielo e
della Terra». Ma il Dio cristiano è chiamato Padre e ha con gli esseri
umani un rapporto personale e di reciprocità.
A questo punto posso formulare la mia tesi teologica: l'Islam è la
religione naturale del Dio rivelato.
Anche i musulmani sono convinti di aver ricevuto una rivelazione. Essa è
concepita come la trasmissione di un testo preesistente: in tale
trasmissione il profeta non svolge alcun ruolo attivo, ma si limita a
ricevere una serie di brani, ripetuti come sotto dettatura. A differenza
della Bibbia, che per gli ebrei è «ispirata» da Dio, il Corano è
increato. Esso è la parola increata di Dio.
L'idea di una rivelazione progressiva è estranea all'Islam. Il messaggio
divino è instillato già nel primo uomo, Adamo, il primo profeta;
semplicemente, gli uomini dimenticano il messaggio e si rende necessaria
una ripetizione. Maometto è l'ultimo inviato ed è il riformatore
definitivo. La sola prospettiva dalla quale è possibile contemplare la
storia è rappresentata dalla legge del trionfo degli inviati e
dall'annientamento di coloro che ad essi si sono opposti.
Una caratteristica comune delle religioni naturali è l'evidenza di Dio o
del divino in ogni luogo. L'Islam, che viene rappresentato come la
religione della fede per eccellenza, non ha affatto bisogno della fede per
credere, o, piuttosto, per constatare l'evidenza di Dio. Come per i Greci
e i Romani, la contemplazione del cosmo, della creazione, è sufficiente
di per sé per avere la certezza, prima di ogni ragionamento, che Dio o il
divino esistono, di modo che il fatto di non credere diventa un segno di
insensatezza che esclude il non credente dalla compagine umana.
Dio ha dato agli uomini una legge attraverso un patto unilaterale: si
tratta di una legge che nulla ha in comune con quella del Sinai, che fa di
Israele l'interlocutore di Dio, né con quella dello Spirito di cui parla
San Paolo. La legge dell'Islam è una legge esterna all'uomo che esclude
in modo categorico l'imitazione di Dio qual è suggerita dalla Bibbia:
dall'uomo si pretende soltanto che rimanga entro i termini stabiliti da
Dio nella sua parola increata e nella sunna, la tradizione
autentica. Qualunque desiderio di superare questi limiti è visto con
sospetto.
Ritroviamo qui alcune norme dell'etica pagana, né questo deve stupire:
l'ascetismo è estraneo allo spirito dell'Islam. La civiltà islamica è
una civiltà della bona vita: essa offre una vasta gamma di
piaceri. La predestinazione, come l'intende l'Islam, non è lontana dal
sentimento antico del fatum. Naturalmente, il musulmano riconduce
tali vantaggi alla perfezione della sua Legge, la quale è moderata, più
adatta alla natura umana di quanto non lo sia quella dei cristiani e più
mite di quella degli ebrei. Una simile moderazione, che viene chiamata
«facilitazione (o agevolazione) della religione», è citata per
dimostrare la bontà dell'Islam, e rende ancor più difficilmente
scusabile il fatto di non accettarlo. Non c'è un peccato originale; non
esiste un inferno eterno, per il credente.
Due fatti hanno sempre stupito i cristiani: la difficoltà di convertire i
musulmani e la solidità della loro fede, persino tra le persone più
superficialmente religiose.
Per il musulmano, diventare cristiano è un'assurdità: in primo luogo
perché il Cristianesimo è una religione del passato, da cui l'Islam ha
preso il meglio sorpassandola. Tuttavia, se approfondiamo, il
Cristianesimo gli sembra innaturale. Le esigenze morali di questa
religione gli paiono insuperabili per le capacità umane. Il dogma
trinitario lo mette a disagio: teme di esporsi al sirk, il peccato
imperdonabile consistente nell'associare a Dio altre divinità. Sospetta
che il Cristianesimo sia una religione misterica (ed egli condanna i
misteri), di conseguenza irrazionale. Ebbene, l'Islam si considera una
religione razionale, anzi, la sola religione razionale. In quest'affermazione
vi è qualcosa di minaccioso, dal momento che, se la ragione è ciò che
caratterizza la natura umana, seguire l'irrazionalismo cristiano equivale
a porsi al di fuori della razza umana. In fatto di tolleranza, dunque, gli
Stati musulmani non possono garantire, in senso stretto, la reciprocità
che pretendono dagli Stati cristiani: i cristiani che la reclamano non
fanno altro che dimostrare la propria ignoranza in materia di Islam.
Vorrei mettere in evidenza tre tratti specifici che riguardano il mondo
ulteriore, l'essenza di questa religione. Il primo consiste nella
negazione della natura nella sua stabilità e nella sua consistenza. Non
esistono leggi naturali: atomi, accidenti e corpi non durano che per un
istante e sono creati ad ogni istante da Dio. Non esiste una relazione di
causalità tra due eventi: esistono soltanto «abitudini» di Dio.
Il giorno coincide solitamente con la presenza del sole, ma Dio può
cambiare le proprie abitudini e far risplendere il sole nel bel mezzo
della notte: il miracolo non corrisponde dunque a una sospensione delle
leggi di natura, ma a un cambiamento nelle abitudini di Dio. Il principio
di causalità è abolito, di conseguenza tutto può accadere. Agli occhi
degli occidentali, il cosmo musulmano sembra privo di stabilità: non si
distingue più il confine tra realtà e sogno.
Il secondo tratto, come abbiamo visto, è rappresentato dalla negazione
della storia. La Bibbia racconta una storia; la rivelazione procede a
tappe. Dio interviene nella storia con parole e atti il cui ricordo è
conservato dalla tradizione e da un libro ispirato, continuamente
suscettibile di nuove interpretazioni. Il Corano, invece, è increato: non
esiste quindi alcun magistero interpretativo. Il senso della storia che ne
deriva è quello di una ripetizione indefinita della stessa lezione.
Il terzo tratto riguarda la virtù religiosa. Si tratta di una virtù
morale che si ritrova sia nelle religioni naturali che in quelle rivelate.
Essa governa la pietà, la preghiera, l'adorazione, i sacrifici e gli atti
consimili. Ebbene, se si rifiuta al Corano lo status di autentica
rivelazione, pare difficile evitare di definire la fede musulmana come una
forma particolare di virtù religiosa.
Ora possiamo comprendere meglio il nostro problema iniziale, rappresentato
dal malinteso che attende al varco il cristiano quando questi si avvicina
all'Islam. Il cristiano è colpito dallo slancio religioso che il
musulmano manifesta nei confronti di un Dio che riconosce, volente o
nolente, come suo Dio; tuttavia egli non si identifica né in questo Dio
«separato» né nel rapporto che il musulmano ha con lui. Il cristiano è
abituato a distinguere l'adorazione dei falsi dèi, cui dà il nome di
idolatria, dall'adorazione del vero Dio, che egli chiama vera religione.
Per trattare convenientemente con l'Islam, occorrerebbe fabbricare un
nuovo concetto difficile da pensare: idolatria del Dio di Israele.
L'Islam, che attraversa una fase di crescita, non sembra essere attratto
dal Cristianesimo più di quanto non lo sia stato in passato. Viceversa, i
cristiani sono attratti dalla religione musulmana, e possono persino
essere tentati di convertirsi ad essa.
Quando nelle nostre librerie diamo un'occhiata alla letteratura favorevole
all'Islam, per lo più opera di preti cristiani, osserviamo che
l'attrattiva che questa religione esercita nasce da più sentimenti. Una
certa critica della nostra modernità liberale, capitalista,
individualista e competitiva è affascinata dalla civiltà musulmana
tradizionale, alla quale attribuisce caratteri del tutto opposti, come la
stabilità delle tradizioni, lo spirito comunitario, il calore nei
rapporti umani. Questi ecclesiastici, disorientati a causa del
raffreddarsi della fede e della pratica del culto nei Paesi cristiani -e
in special modo in Europa -ammirano la devozione dei musulmani. Sono
convinti che credere in qualcosa sia meglio che non credere in nulla, e si
convincono che, dal momento che quelle persone credono, esse credano
pressappoco nelle stesse cose in cui credono loro, non rendendosi conto di
confondere la fede con la religione. Si rallegrano, inoltre, nel
constatare l'alta considerazione di cui nel Corano godono Gesù e Maria,
senza riflettere sul fatto che, rispetto ai Vangeli, quel Gesù e quella
Maria hanno in comune soltanto il nome.
Tale aspetto è particolarmente grave, perché disturba le relazioni tra
cristiani ed ebrei.
In questa prospettiva, infatti, i musulmani sembrano «migliori» degli
ebrei, dal momento che onorano Gesù e Maria -cosa che gli ebrei non
fanno. In tal modo si paragonano «simmetricamente» Islam e religione
ebraica, con l'Islam che ne esce avvantaggiato. Ma anche gli ebrei fanno
un simile confronto tra il Cristianesimo e l'Islam, e ancora una volta è
quest'ultimo a risultare vincitore, dal momento che esprime un monoteismo
che pone meno problemi di quello cristiano.
Tuttavia, i cristiani non possono accettare una simile «simmetria» e la
Chiesa cattolica l'ha espressamente condannata: se l'accettasse,
rinnegherebbe la propria derivazione da Abramo e da Israele; rinuncerebbe
all'eredità davidica del Messia e trasformerebbe il Cristianesimo in un
messaggio atemporale, tagliato fuori dalle proprie radici e dalla propria
storia. In tal caso, il Vangelo si trasformerebbe in un altro Corano e si
scioglierebbe nell'universalismo espresso dal libro dell'Islam.
Ecco perché occorrerebbe espungere dal lessico cristiano contemporaneo
espressioni pericolose come «le tre religioni abramitiche», «le tre
religioni rivelate» e persino «le tre religioni monoteistiche» (anche
perché ce ne sono ben più di tre). La più falsa di tutte queste
espressioni è «le tre religioni del Libro», perché essa non significa
che l'Islam si rifà alla Bibbia, bensì che è prevista, per cristiani,
ebrei, sabei e zoroastriani, una speciale categoria giuridica: essi sono
la «gente del Libro», che ha diritto di elemosinare lo status di dhimmi,
avendo salva la vita e i beni e scampando alla morte e alla schiavitù cui
sono destinati i kafir, i pagani.
Il fatto che simili espressioni siano usate con tanta facilità è un
segno che il mondo cristiano non è più in grado di distinguere
chiaramente tra la propria religione e l'Islam. Siamo forse tornati ai
tempi di San Giovanni Damasceno, quando ci si domandava se l'Islam non
fosse una forma come un'altra di Cristianesimo? Non si può escludere che
sia così. Per lo storico, non c'è nulla di nuovo: quando una Chiesa non
sa più in cosa crede, né perché crede, scivola verso l'Islam senza
nemmeno rendersene conto.
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[Fonte: Corriere della Sera del 26 settembre 2006]