«Ora basta! Jobs non era il Messia!»
Antonio Socci su Libero dell'8 ottobre 2011

Il nostro tempo. Fabbricatore di miti mediatici, che colmano il vuoto dello spirito.

E’ nata una nuova religione: la Chiesa catodica. Che non rivela il senso della vita, ma vi priva del senso del ridicolo. Questa chiesa si è scelta come suo (involontario) messia (provvisorio, in base ai gusti del mercato) il povero Steve Jobs. A sua insaputa.

I suoi celebranti, prosternati e adoranti, sono giornalisti, intellettuali, vip di ogni genere, politici e opinionisti. I quali, non credendo più a Dio, non è che non credano in nulla, ma – come diceva Chesterton – credono a tutto.

Si sono convinti perfino che Jobs sia il messia: colui che “ha cambiato il mondo”.

D’altra parte nei decenni scorsi intellettuali, politici e giornalisti avevano acclamato come “salvatori dell’umanità” dei sanguinari tiranni, che avevano milioni di vittime sulla coscienza, quindi con quelli di oggi in fondo c’è un miglioramento: il buon Jobs non mai fatto male a nessuno.

Ha semplicemente dato sfogo alla sua inventiva, producendo tanti aggeggi elettronici, diventando un grosso industriale e accumulando un patrimonio enorme. La sua attività di industriale però non può spiegare lo stupefacente spettacolo di queste ore.

I tg che aprono su Jobs e occupano mezzo telegiornale, tutte le catene televisive del mondo che celebrano il defunto con tonnellate di incenso, come una divinità dei nostri tempi e poi i programmi della serata che inneggiano al “grande”, a colui che ha “realizzato il sogno dell’umanità”. Un telegiornale ieri titolava: ““E ora? Come sarà il mondo senza di lui?”. Tranquilli: sarà esattamente come prima. Se l’umanità ha superato perfino la scomparsa dell’inventore della lavatrice, ce la farà anche stavolta.

Solo che della morte dell’inventore della lavatrice nessuno ha nemmeno dato notizia. Per la morte di Jobs invece siamo stati alluvionati dalle “lacrime” mediatiche.

Come si spiega? Si dice: la sua tecnologia ha cambiato le nostre abitudini. Bene. C’è qualcuno che conosce padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci? Non credo. Nemmeno fra giornalisti e intellettuali. Eppure hanno cambiato la vita dell’umanità forse anche più di Jobs: hanno infatti inventato e brevettato il primo motore a scoppio. Auto, moto e quant’altro vengono da lì. Scusate se è poco: senza di loro andremmo ancora a piedi, o in bicicletta. Ma restano del tutto sconosciuti (neanche noi italiani – loro connazionali – li riconosciamo come esempio di ingegno nostrano).

Volete un altro esempio proprio nel campo dei computer e di internet? Bene. C’è un tizio che – secondo me – è stato molto più decisivo di Jobs nel rivoluzionare i nostri modi di vivere e – sorpresa! – è un italiano.

Solo che nessuno lo conosce. Almeno in Italia, perché in America lo conoscono benissimo: si chiama Federico Faggin e il 19 ottobre 2010 ha ricevuto dalle mani di Barack Obama il più alto riconoscimento americano in campo scientifico, la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione. E’ a lui che si deve il progetto del primo microprocessore, cioè quella cosina minuscola che fa funzionare tutti i nostri computer e tutti i congegni elettronici.

Credo si possa dire che senza quest’invenzione non ci sarebbero né Internet, né Jobs, né Bill Gates, né Google, né Facebook, perché non ci sarebbero nemmeno i personal computer e gli smart phone. E tante altre cose. Ma in Italia resta uno sconosciuto. Non ricordo di aver mai letto un articolo su di lui (tanto meno in prima pagina) o di aver visto un programma tv che mostrasse questo vanto del genio italiano.

Un altro caso. Qualcuno conosce il dottore Albert Bruce Sabin? Molto pochi. Eppure è colui che ha realizzato il vaccino antipolio che ha liberato l’umanità (e anche il popolo italiano) dalla terribile poliomielite. Ebbene Sabin, che poteva diventare miliardario con la sua scoperta, non ne ricavò neanche un dollaro. Rinunciò infatti a brevettarla e a sfruttarla in senso commerciale perché il prezzo del vaccino fosse alla portata di tutti. Disse: “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”.

Sabin era ebreo e aveva avuto due nipotine uccise dalle SS: nel suo cuore c’erano i tanti innocenti che soffrivano ingiustamente. Non vi sembra un grande? Non vi pare che abbia fatto una cosa immensa per l’umanità? Eppure alla sua morte, nel 1993, non si sono fatte paginate di giornali. Né editoriali dove si diceva che era un uomo che aveva cambiato il mondo.

Potrei continuare con gli esempi. Ce ne sarebbero tanti. E tutti dimostrerebbero che non si spiega l’enfasi mitologica dei media, i titoli messianici e queste ovazioni planetarie per Jobs.

Il Corriere della sera, per fare solo un esempio, ha dedicato – oltre all’apertura di prima pagina – otto pagine (ripeto: otto!) al decesso, peraltro annunciatissimo di Jobs. Non ha esitato – il “Corriere” – nemmeno a titolare: “A Cupertino come da Madre Teresa”.

E, per non farci mancare niente, ha affidato l’editoriale a Beppe Severgnini il quale ha occupato la prima pagina del quotidiano milanese per dare al mondo due fondamentali notizie: 1) “il primo portatile l’ho acquistato vent’anni fa in California” (e chi se ne frega!); 2) “il (mio) primo computer è stato un Macintosh: ci ho scritto il primo libro” (cosa che potrebbe gravare sulla coscienza di Jobs come un macigno).

Perfino i giornali di sinistra hanno partecipato alla devota processione con i turiboli per la mitizzazione di Jobs, sebbene sia un simbolo del grande capitalismo. “Il Manifesto” gli ha dedicato l’apertura e un editoriale laudatorio intitolato: “Un borghese rivoluzionario”.

E un altro titolo che (letto su un giornale comunista) fa un po’ ridere: “Il morso dell’utopia”. Di questo passo rischiano di mitizzare pure Berlusconi.

Anche “Avvenire” – il giornale dei vescovi – ha dedicato a Jobs un articolo (con foto) in prima e all’interno addirittura quattro pagine. Che francamente lasciano un po’ perplessi considerato che ci sono tantissimi missionari che donano la loro vita intera, fin da giovani, per assistere i più diseredati della terra, in condizioni durissime (ho presente certi lebbrosari africani) e la loro morte non è segnalata da nessuno, nemmeno sulla stampa cattolica.

Eppure credo che potrebbero testimoniare qualcosa, sulla vita e sulla morte. Penso che loro siano dei veri maestri. E la loro vita potrebbe essere più interessante e istruttiva della vicenda professionale di Jobs che in fin dei conti viene magnificato per delle massime che trasudano una certa banalità.

Sentite queste: “nella vita tutto serve”, “bisogna credere in qualcosa”, “quando la vita vi colpisce con una bastonata non scoraggiatevi”, “nessuno vuole morire, ma alla morte nessuno è mai sfuggito”. Non c’era bisogno di Jobs: questi pensieri li abbiamo già sentiti tutti da nostra nonna. Decantare queste parole come perle filosofiche rischia di farci finire nell’assurdo o nel ridicolo.

Jobs è un uomo del nostro tempo. E’ stato un bravo inventore e un industriale di grande talento. Anche un tipo simpatico e tosto, per come ha vissuto la malattia. Ma, sinceramente, non mi pare uno che ha rivoluzionato la storia umana. Nemmeno un filosofo.

Le sole due frasi suggestive da lui pronunciate nel famoso discorso di Stanford non sono sue: sono citazioni (e lui peraltro lo dice esplicitamente). Eppure vengono evocate come massime del mito Jobs. “Continuate ad aver fame. Continuate ad essere folli” è una frase del “Whole Earth Catalog” di Steward Brand. Mentre “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo” è un pensiero della spiritualità monastica cristiana che Jobs lesse a 17 anni in forma di battuta umoristica: “Se vivrete ogni giorno come se fosse l’ultimo, un giorno sicuramente avrete avuto ragione”.

Jobs è stato semplicemente un creativo e un grosso industriale. Non facciamone il messia. E non inventiamo miti per coprire il nostro vuoto. Credo che lui stesso, che continuava a vestire jeans e girocollo, avrebbe trovato assurda questa enfasi messianica planetaria.


Copyright © - Libero, 8 ottobre 2011

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