Concilio Vaticano II
sviluppo delle analisi sotto il profilo storico - filosofico - teologico
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Corrispondenza-confronto
tra P. Giovanni Cavalcoli e P. Serafino Lanzetta
Il dibattito si è aperto il 13 gennaio 2011 con
una Lettera aperta - da parte di Padre Giovanni Cavalcoli, OP a Padre Serafino M. Lanzetta,
FI - che esprime riserve di
ordine teologico sulle questioni sviluppate nel corso del convegno organizzato
dai Francescani dell'Immacolata sul Concilio Vaticano II. Padre Lanzetta risponde il 16 gennaio, con una Lettera aperta ricordando che le difficoltà sono
riconducibili al modo di intendere il concetto di infallibilità del magistero e
quindi all'esercizio magisteriale del Vaticano II, inteso come unicum e
declinato nei suoi 16 documenti. Il dibattito prosegue con altri scritti
pure pubblicati di seguito. Raccolgo i testi in un unico documento per comodità
di consultazione, trattandosi di
un'occasione importante per l'allargamento della discussione, che non mancherà
di portare i suoi frutti. È bene che si continui a parlarne, ma soprattutto che
se ne traggano piste di riflessione e di approfondimento, che non mancherò di
registrare, cercando di alimentare il dibattito sul blog
Chiesa e
postconcilio
Lettera aperta di P. Giovanni Cavalcoli a P. Serafino Lanzetta
Carissimo P.Serafino,
quanto è stato detto al
vostro convegno, e che tu riferisci nella recensione
recentemente pubblicata su questo sito, mi trova in gran parte d’accordo:
la necessità di non fare del Concilio Vaticano II una specie di assoluto,
salvo poi ad interpretarlo di proprio arbitrio alla maniera modernista, come se
esso avesse inaugurato un modello di Chiesa assolutamente nuovo in rottura con
la concezione magisteriale precedente; la situazione di grave disagio che stiamo
vivendo da molti anni noi cattolici, intralciati ed ostacolati da questa forte
presenza modernistica all’interno della Chiesa stessa; il dubbio che non tutto
quello che ha detto il Concilio sia veramente saggio e in linea con la
Tradizione; la necessità di fare una buona volta chiarezza circa i suoi
insegnamenti, onde conoscere veramente il loro valore vincolante e porre termine
alle strumentalizzazioni e al doppio gioco dei modernisti.
Detto questo, vorrei però esprimere anche un certo dissenso da quanto è stato
detto, continuando un fraterno dibattito che da tempo stiamo conducendo fra noi
privatamente e pubblicamente.
Innanzitutto la questione della novità del Concilio. Non c’è dubbio che il
Concilio contiene delle novità sia dottrinali che pastorali. Lo riconosci
tranquillamente anche tu riprendendo
quanto ha detto Mons.Gherardini:
“caratteristica del Vaticano II fu quella di trasmettere un insegnamento
rinnovato (o forse innovato per certi accenti), in ambito dogmatico e
soprattutto in ambito pastorale”.
Il problema è quello di come concepire queste “novità”: rompono col passato o
sono in continuità col passato? “I teologi, - tu dici - soprattutto i periti al
Concilio, ci dicono che il problema della rottura s’impernia nello stesso
Concilio: è lì che hanno fondato la “nuova dogmatica”, la “nuova morale”, che ha
avuto successo nel post-concilio, come è lì che hanno radicato, nel solco della
Tradizione, il progresso teologico delle dottrine nuove del Vaticano II”.
Tu qui riferisci due tesi opposte. Una che dice che la “rottura” l’avrebbe
fatta lo stesso Concilio; l’altra, che dice che il Concilio, nel solco della
Tradizione, ha elaborato nuove dottrine stimolando il progresso teologico. La
verità è certamente nella seconda tesi, non certo nella prima.
In secondo luogo mi sembra che il convegno non sia stato capace di dimostrare
l’asserto del Papa. “continuità nella riforma”. In particolare non avete
dimostrato come la novità non è stata una novità di rottura, come sostiene
Alberigo, ma una novità nella continuità e nel rispetto della Tradizione.
In terzo luogo il convegno avrebbe dato un contributo più efficace alla
questione dell’interpretazione del Concilio e del postconcilio, se si fosse
distinto chiaramente l’aspetto pastorale da quello dottrinale. La teoria diffusa
secondo la quale il Concilio sarebbe stato solo pastorale non corrisponde a
verità. Come hanno detto invece i Papi del postconcilio, esso è stato anche
dottrinale e come tale infallibile.
La tesi di Don Kolfhaus, secondo cui il
Concilio non conterrebbe dottrine infallibili, è molto pericolosa, perché può
ingenerare il sospetto che contenga degli errori, cosa per un cattolico
assolutamente inammissibile.
E non basta dire con Mons.Gherardini che “il Vaticano II è infallibile nella
misura in cui si appella ai precedenti concili dogmatici e a definizioni
dogmatiche o quando reitera una dottrina di fede definitiva“, ma bisogna
riconoscere con franchezza che anche le dottrine nuove del Concilio sono
infallibili, in quanto esplicitazione o sviluppo di dottrine dogmatiche già
definite, anche se è vero, come disse Paolo VI, che il Concilio non contiene
nuovi dogmi solennemente definiti, come avvenne per esempio con la proclamazione
del dogma dell’Assunta o dell’Immacolata.
Ma “infallibilità” non vuol dire altro che assoluta verità in materia di
fede; per cui negare questa nelle dottrine di un Concilio ecumenico non è
affatto conforme al dovere e al sentire del cattolico. Perché ci sia
infallibilità non è necessaria la definizione solenne, ma basta semplicemente
l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi
se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico.
E’ vero che tutto il Concilio è pervaso da un linguaggio pastorale, ed è vero
quello che dice Don Kolfhaus che si tratta di una specie di predicazione
omiletica somigliante – io direi – a quello che è il linguaggio dei Padri della
Chiesa, un linguaggio adatto alla gente comune del proprio tempo. Ora, anche le
dottrine dogmatiche sono espresse con questo linguaggio e non con un linguaggio
scolastico che fu proprio, per esempio del Concilio di Trento o del Vaticano I.
Tuttavia questa modestia o popolarità del linguaggio del Concilio non deve
portarci a sottovalutare il valore dogmatico delle sue dottrine, così come noi
accettiamo ogni parola di Nostro Signore Gesù Cristo, anche se Gesù non si è
espresso nel linguaggio di Aristotele o di Cicerone.
Per questo un insegnamento come quello, per esempio, circa la libertà
religiosa, presente nel Vaticano II, oggi invocato con tanta insistenza e vigore
dal Santo Padre, non può non considerarsi un insegnamento infallibile, ossia un
insegnamento di fede. Ed altrettanto dicasi per altri insegnamenti nuovi del
Concilio. Trovare qui una rottura o una contraddizione con la Tradizione non ha
senso, dato che la dottrina di ogni Concilio è sempre una conferma, magari più
avanzata e più progredita, ma sempre fedele e coerente, della Tradizione. Ogni
Concilio fa fare un passo avanti alla Tradizione. Possiamo dire con il grande
teologo domenicano Francisco Marin Sola, oppositore del modernismo, che nel
Vaticano II si dà una “evoluzione omogenea del dogma”.
Quindi, giudicare il Concilio “alla luce della Tradizione”, come era nello
scopo del convegno, è giusto, ma a patto che si intenda per “Tradizione” non la
fase precedente il Concilio, ma quella stessa più avanzata e più progredita,
stabilita dalle dottrine dello stesso Concilio.
Questo è il sano progressismo che il Concilio ha favorito e dal quale è stato
ispirato, che non ha nulla a che vedere col modernismo, che è una falso e
ingannevole accostamento alla modernità ed è un’eresia.
Altro discorso è quello delle disposizioni o degli ordinamenti pastorali. Su
questo piano certamente neppure il Magistero di un Concilio è infallibile. Per
questo qui al cattolico è concesso esprimere, sempre con prudenza, riserve o
critiche. Qui anche un Concilio può prendere provvedimenti meno opportuni o
anche errati, che potranno essere corretti successivamente anche da un nuovo
Concilio, come la stessa storia dei Concili dimostra.
Per questo, quando si parla di “modernità” bisogna intendersi: è chiaro che
se per modernità si intendono gli errori moderni, la modernità non può che
essere respinta in blocco. Ma se per modernità, con maggior senso storico e più
ampia e concreta veduta, si intende l’insieme delle dottrine dei tempi moderni,
dovrebbe essere evidente che nella modernità ci sono anche dei valori, che come
tali vanno assunti e integrati nella visione cattolica. E questo è stato uno dei
grandi meriti del Concilio, al quale dobbiamo essere estremamente grati. Ciò che
invece è da respingere è l’interpretazione modernistica, per esempio
l’interpretazione rahneriana della modernità
A proposito di Rahner, mi compiaccio della tua posizione critica nei suoi
confronti, che, come sai, è anche la mia. Ma appunto per liberarci dal
rahnerismo dobbiamo tener conto dei princìpi e dei criteri che ho enunciato in
questa mia lettera, per non prestare il fianco alle critiche e non fare la
figura di restare indietro rispetto agli insegnamenti del Concilio, cosa che
sarebbe del tutto controproducente e al limite – vedi lefevriani – neppure
conforme a un pieno cattolicesimo.
Mi auguro che tu rifletta su queste cose insieme con coloro che condividono
il tuo punto di vista. Dobbiamo ringraziare Riscossa Cristiana che ospita questo
dibattito tra fratelli di fede, nella comune certezza che il rispettoso leale
confronto delle opinioni conduce alla verità.
Padre Giovanni Cavalcoli, OP
Bologna, 13 gennaio 2011
[Fonte:Riscossa
Cristiana]
Lettera aperta di p. Serafino
Lanzetta a P. Giovanni Cavalcoli
Carissimo P. Giovanni,
la ringrazio per la lettera aperta che ha voluto indirizzarmi, la quale mi
dà modo di approfondire i temi a cui allude e di spiegarmi meglio. Non dico
che la rottura è stata causata dal Concilio: per sé il Vaticano II non può
causare la rottura e la continuità allo stesso tempo, «per la contraddizion
che nol consente». Dico che alcuni teologi hanno letto i testi come rottura
e altri nella continuità. Questo evidenzia due cose:
- che si danno due letture teologiche del Concilio (contraddittorie)
per il fatto che i testi si lasciano leggere in modo duplice, dato il
loro tenore fontalmente pastorale e non definitorio;
- questo richiede, pertanto, un criterio ermeneutico a priori corretto
per leggere, di conseguenza, correttamente il Concilio: questo criterio
è la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Quando viene espunta la
Tradizione si verifica la rottura. Porto un esempio recente.
Il padre Paolo Cortesi, missionario passionista in Bulgaria, esultava sul
suo blog (cf.
http://cosebulgare.blogspot.com/2010/12/e-arrivato-il-vaticano-ii-finalmente.html),
perché finalmente era giunta in Bulgaria la traduzione dei documenti del
Vaticano II. E fin qui tutto bene. Ma, il motivo vero della sua esultanza,
consisteva nel fatto che, dopo l’affaccendarsi critico-conservatore di chi
pretende di buttare il Concilio nel Tevere (forse si riferisce a noi), in
Bulgaria invece era arrivato il vero Concilio. Dopo aver ricordato che il
Vaticano II è un dono dello Spirito Santo, il padre passionista si attesta
sulle sue peculiarità: «Il Concilio ci educa ad essere non una Chiesa
padrona e paladina della verità, ma un Popolo di Dio che cammina nella
storia insieme a tutta l'umanità». «Il Concilio ci insegna che la liturgia
non è assistere alla ripetizione sacrale dei gesti che compie la casta
sacerdotale, ma la celebrazione della salvezza da parte di tutto il Popolo
di Dio». «L'ecumenismo non è ricondurre all'obbedienza pontificia i
disgraziati scismatici, ma la ricerca di comunione da parte di tutti i
cristiani». Infine, ci vien ricordato che il Concilio ha scoperto la Parola
di Dio. E tutto quello che la Chiesa era prima? La sua dottrina, la sua
vita? Il Vaticano II sarebbe, in realtà, il vero volta-pagina. Qui si vede –
è un esempio tra tanti – che una carenza spaventosa del concetto di Traditio
Ecclesiae, fa scadere in una visione stranamente dogmatista del Vaticano
II. Eppure quegli ambiti rammentati dal padre Cortesi sono quelli che oggi
maggiormente soffrono a causa della secolarizzazione.
Ma veniamo nuovamente a noi. Il nostro convegno si è attestato non sulla
verifica delle nuove dottrine del Vaticano II, ma su un approccio (iniziale
e a modo di status quaestionis)
di tipo storico filosofico teologico. Quello teologico lo si potrebbe
definire “fondamentale”, volto a verificare la natura del Concilio e vederla
riflessa nei vari documenti (non in tutti ma nei principali), che sono 16 e
sappiamo esser divisi in Costituzioni (di cui solo due godono
dell’appellativo “dogmatiche” e presentano un insegnamento dottrinale:Lumen
gentium e Dei
Verbum), Decreti e Dichiarazioni, con accenti e per un esercizio
eminentemente pastorali. C’è una cosa comunque che unisce la diversa
tipologia magisteriale del Vaticano II (diversa già in ragione di una
distinzione tripartita che compare in questo modo solo nel Vaticano II), ed
è il tenore dei documenti: un tenore fontalmente pastorale, di annuncio
della fede e non di una sua definizione, che esprime così il fine stesso del
Concilio. Così volle Giovanni XXIII, così confermò Paolo VI.
Da quanto lei dice, emerge un dato fondamentale, che è il problema-chiave
del Vaticano II: qual è l’esercizio magisteriale (complessivo) del Concilio?
Lei vede il Vaticano II come ununicum,
giustamente, perché un concilio, ma, a mio modo di vedere, si spinge più in
là del concilio, quando entra in merito all’infallibilità, non distinguendo
nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio
(stabiliti egregiamente da Gherardini).
Mi spiego riassumendo schematicamente lo status
quaestionis sull’esercizio
magisteriale del Vaticano II, riconducibile a 5 posizioni teologiche:
- esercizio del magistero straordinario solenne;
- esercizio del magistero ordinario universale;
- esercizio del magistero autentico;
- esercizio di un magistero omiletico;
- esercizio di un magistero differenziato.
Tra questi teologi ve sono anche alcuni insospettabili di conservatorismo o
di tradizionalismo (cf. F.
Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen
Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, Dignitatis Humanae” und
“Nostra Aetate” [tesi
dottorale presso l’Università Gregoriana], Lit, Berlin 2010, pp. 23-34).
Fin qui la teologia, che verifica, pur con accenti diversi, un magistero sì
solenne (quanto alla forma) ma ordinario (quanto al normale esercizio).
Il Magistero stesso, specialmente nella persona di Paolo VI, ha riassunto
l’intera portata magisteriale del Vaticano II, definendolo magistero
ordinario autentico (cf. Allocuzione del 7 dicembre 1965 e Udienza Generale
del 12 gennaio 1966). Ora, il magistero ordinario non è infallibile perché è
magistero, sia pur di un concilio, ma solo quando è reiterato e quando
appura la definitività di una dottrina di fede o di morale, anche se non
definita ma definitiva. L’infallibilità nel Vaticano II è solo di riflesso
rispetto a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive; questa
infallibilità, sussiste poi solo in alcune dottrine ma non nel Concilio in
quanto tale, altrimenti sarebbe stata inutile la precisazione del
Segretariato del Concilio per la giusta lettura di Lumen
gentium, posta come Nota
previa. Riporto i due punti salienti di detta nota che ci riguardano:
«Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente
Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti
concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente
dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto
dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono
accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale
risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime,
conforme alle norme d'interpretazione teologica» (AAS 77/1 [1965] 72).
L’infallibilità si rivela solo nel magistero obbligante tutta la Chiesa, che
richiede un atto di fede teologale, in ragione appunto della irreformabilità
della dottrina. Per le altre dottrine bisogna tener conto dello spirito
(della natura e del fine) del Concilio, e vedere in unità la materia
trattata e il modo di esprimersi. Credo sia fuori luogo attribuire sic
et simpliciter la definizione
di infallibile alle diverse dottrine/insegnamenti del Concilio. Il magistero
ordinario perché autentico però rimane vincolante e richiede l’ossequio
dell’intelletto e della volontà, pur essendo soggetto ad eventuali revisioni
con l’ausilio della teologia, in ragione di una comprensione accresciuta dei
dati (si veda su questo il documento della Congregazione per la Dottrina
della Fede, Donum veritatis,
del 24 maggio 1990, nn. 22-24).
Dire comunque che il Vaticano II ha una natura pastorale non è squalificare
il Concilio e non significa non riconoscere i suoi insegnamenti dogmatici,
ma prevenire un abbaglio, oggi diffuso sia tra i progressisti che tra i
tradizionalisti, che porta a leggere il Vaticano II alla stregua del
Concilio di Trento o del Vaticano I. Non ci si accorge della peculiarità del
Vaticano II, ovvero della sua natura, del suo fine e del diverso tenore
magisteriale dei suoi documenti, e si finisce col dogmatizzare tutti i suoi
insegnamenti. Questo però è fatale: così, o si fa iniziare la Chiesa dal
Vaticano II o si cestina il Vaticano II per far vivere la Chiesa. Il
problema rimane fino a quando non ci si decide a tralasciare questa
ermeneutica rigidamente tradizionale di approccio al Vaticano II, iniziando
a vedere che il nostro concilio è sui
generis: inaugura un “nuovo” modo di insegnare e di esser concilio per
la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una
scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa. È su questo
che ci dobbiamo interrogare.
E vengo così ad un ultimo punto, alle novità dottrinali di cui parla. Non
sono d’accordo sul fatto che le novità in quanto tali farebbero avanzare la
Tradizione. Semmai la comprensione della fede su un piano teologico, ma per
il progresso dogmatico è necessaria la definitività della dottrina. Qui
leggo un dato simile all’infallibilità: per lei le novità dottrinali sono
per sé un avanzamento della Tradizione e pertanto bisogna collocarsi ora
dopo di esse per riconoscere la Tradizione nel suo stadio avanzato in
ragione del Concilio. Sembra allora che la verifica delle innovazioni non
serva o che, se occorra, si pregiudichi la bontà del Concilio. E questo per
il fatto che le innovazioni sarebbero infallibili.
Invece, a mio modesto giudizio, bisogna collocarsi anche qui su un piano
diverso. Non sono le innovazioni che, in quanto tali, fanno avanzare la
Tradizione. È piuttosto la Tradizione, che progredendo in ragione del nuovo,
in uno sviluppo omogeneo, dà alle cose nuove lo statuto teologico di
dottrine o di insegnamenti, in ragione di quanto detto poc’anzi in
riferimento al magistero, statuto che può ascendere fino al grado ultimo di
irreformabilità. È la Tradizione ovvero la Chiesa-mistero, che accoglie le
innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello
ontologico e cronologico. Questo può apparire un pensiero fissista, ma è
quanto dire: c’è prima la Chiesa e poi la sua comprensione, prima Dio e poi
l’uomo. Non è per il fatto che siamo di fronte ad un assise conciliare
insegnante in modo solenne che avanza necessariamente la Tradizione. Questo
certo lo impariamo col Vaticano II, ma neppur possiamo troppo esulare questo
concilio dalla tradizione storica dei concili ecumenici. Infatti, anche il
Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), non definì alcun dogma ma emanò solo
pochi decreti disciplinari. Non di meno però è un concilio ecumenico (difeso
dal Card. Brandmüller), ma non per questo si può definire infallibile.
È proprio sul concetto di infallibilità da lei esposto che non mi ritrovo.
Lei dice che per avere l’infallibilità «basta semplicemente l’enunciato
dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si
tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico». Allora dovremmo
anche dire che, ad esempio, Presbiterorum
ordinis insegna in modo infallibile, mentre, in verità al n. 16 c’è una
svista storica notevole: sembra che non conosca il dato antichissimo
“continenza-celibato”, e mette sullo stesso piano la tradizione latina e la
deroga al celibato per i presbiteri della Chiesa greca, deroga nata dopo il
trullano, ma in seguito ad un vero imbroglio. Ormai la ricerca
storico-teologica è progredita e si dovrebbe provvedere a perfezionare
questo passaggio. Faccio anche un esempio al contrario: se Sacrosanctum
concilium fosse infallibile, l’attuazione della riforma liturgica,
avvenuta spesso e con facilità in deroga allo ius
divinum della liturgia, e
andando molto al di là di quanto previsto da detta costituzione, sarebbe
un’eresia. Si potrebbe dire questo? No, per il fatto che Sacrosanctum
concilium non è infallibile
ma è una costituzione con una natura pastorale, che apre ai possibili
adattamenti.
Lei cita poi la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, definendolo un
testo infallibile, dunque dottrinale. Invece, si tratta di in testo che non
è né dogmatico né disciplinare, ma contiene norme pratiche di comportamento
in materia di libertà religiosa. Questa dichiarazione vuole dare delle norme
pratiche e non intende affatto allontanarsi dalla dottrina cattolica sulla
libertà religiosa (cf. AS IV/1, 433). Gli abusi, spesso, hanno fatto leva
proprio sulla sua infallibilità per accentuare il concetto di libertà
religiosa soggettiva, fino a scadere in un relativismo religioso, contro il
perenne insegnamento della Chiesa circa il dovere morale di riconoscere la
verità e di professarla solo nella Persona del Verbo incarnato. Certo, la
libertà religiosa di cui parla il Vaticano II è uno sviluppo del concetto
stesso di libertà, che tiene conto del dato della modernità, ma non
esaurisce il contenuto della dottrina classica: è un di più, che però
necessita della Tradizione per essere compreso, dato il suo fine volto al
dialogo con gli uomini.
Vedo una certa frizione tra dottrina e prassi in materia di libertà
religiosa, proprio nella sua esecuzione pastorale di Assisi. Non si può dire
che Assisi cambia la dottrina della Chiesa in materia di libertà religiosa.
Assolutamente no. Ma è una scelta pastorale che deriva dal Vaticano II, da
questa dichiarazione e soprattutto da Nostra
aetate, per affermare il rispetto e la verità della libertà religiosa di
ogni uomo. Al contempo però questa adunanza porta in sé un dato dottrinale:
qual è la vera religione? La pastorale che è il fine di Assisi e della Diginitatis
humanae, qui, come sempre, incontra la dogmatica: solo Cristo è la
verità. Come coniugarle? Il Vaticano II non ce lo dice, ma lascia spazio ad
interventi successivi. Il Pontefice opta ora di nuovo per Assisi, pur
conscio delle notevoli problematiche sincretiste che ad esso furono connesse
in ragione dello “spirito d’Assisi”, da lui denunciato perché funesto quanto
lo “spirito del Concilio”. Nessun però potrebbe dire che Assisi cambia la
fede della Chiesa nella verità di Cristo unico Salvatore. Se Dignitatis
humanae fosse infallibile,
non si avrebbe neanche più una certa libertà nella sua attuazione pastorale,
il cui giudizio prudenziale spetta al magistero.
In questa tensione tra dogmatica e pastorale nel Concilio, si nasconde, a
mio modo di vedere, tutto il problema ermeneutico del Vaticano II. Io per
infallibile intendo non-fallibile, irreformabile: allora ben poche sono le
dottrine che si possono dire tali.
Direi allora che bisognerebbe leggere “infallibile” nel senso più rigoroso e
classico della teologia, mentre il Concilio Vaticano II, quale unicum magisteriale,
in modo più flessibile ed articolato, distinguendo i diversi piani, in
ragione del progresso teologico verificatosi grazie allo stesso Vaticano II.
Gli atti del nostro convegno, che pubblicheremo, ci aiuteranno sicuramente
per un discorso più accurato.
Le rinnovo i sensi di stima ed amicizia nei nostri Santi Padri Francesco e
Domenico
p. Serafino M. Lanzetta, FI
Firenze, 16 gennaio 2011
[Fonte:
Chiesa e post-concilio]
La
Tradizione contro il Papa -
di P.Giovanni Cavalcoli, OP
Per noi cattolici, come si sa,
il contenuto del messaggio evangelico, insegnatoci un tempo oralmente da Nostro
Signore Gesù Cristo e consegnato agli apostoli e loro successori perché fosse
predicato in tutto il mondo, fu già dai primissimi tempi del cristianesimo nel
suo insieme messo per iscritto - ed abbiamo gli scritti del Nuovo Testamento
come completamento all’Antico -, mentre altre verità non senza rapporto con la
Scrittura furono conservate mediante l’insegnamento orale, e ciò costituisce la
sacra Tradizione apostolica, detta più brevemente “Tradizione”, parte della
quale poi successivamente nel corso dei secoli fu messa per iscritto, senza per
questo esser confusa con i testi della Sacra Scrittura.
Per noi cattolici la conoscenza
infallibile del dato rivelato, mediato dalla Scrittura e dalla Tradizione, ci è
ulteriormente mediato dal Magistero della Chiesa, continuatore dell’insegnamento
degli Apostoli, sotto la guida del Successore di Pietro, il Papa. Vale a dire
che il Magistero vivente ed orale della Chiesa ha la funzione, attribuitale da
Cristo stesso con l’assistenza infallibile dello Spirito Santo, di trasmettere,
conservare, insegnare, interpretare, spiegare, chiarire, esplicitare e
sviluppare i dati della Tradizione e della Scrittura.
Le verità rivelate consegnate
da Cristo una volta per sempre agli Apostoli in se stesse sono immutabili perché
divine (“cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”) e per
questo vanno conservate intatte nei secoli con assoluta fedeltà. Ma nel contempo
questo patrimonio di infinita sapienza viene conosciuto sempre meglio dalla
Chiesa nel corso dei secoli sino alla fine del mondo, grazie all’aiuto dello
Spirito Santo, il quale “rinnova tutte le cose” e per espressa dichiarazione di
Cristo, ha il compito di condurre la Chiesa “alla pienezza della verità”.
Una tentazione che si è
verificata nella storia del cristianesimo ed alla quale purtroppo molti hanno
ceduto, è stata quella di crearsi la convinzione gratuita ed infondata che per
sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato non c’è bisogno di stare
agli insegnamenti o all’interpretazione del Magistero vivente ed attuale – per
esempio quello di un Concilio -, ma è sufficiente porsi a contatto diretto e
personale o con la Scrittura o con la Tradizione. Il primo è stato l’errore di
Lutero ed oggi dei modernisti, soprattutto in campo esegetico; il secondo è
l’errore dei lefevriani.
Il famoso, perspicace ed
informatissimo sociologo cattolico Massimo Introvigne, in un suo recente
articolo, ha giustamente osservato che modernisti, protestanti e lefevriani, per
quanto per altri versi in opposizione tra di loro, vengono ad avere nei
confronti del Magistero del Sommo Pontefice, soprattutto i Pontefici del
postconcilio, il medesimo atteggiamento contrario al vero cattolicesimo, con la
differenza che mentre i protestanti da sempre hanno apertamente dichiarato la
loro opposizione al cattolicesimo, i modernisti fingono di essere cattolici, ma
in realtà sono protestanti, e i lefevriani stranamente vogliono considerarsi
cattolici ed addirittura paladini dell’ortodossia cattolica ancor meglio dei
Papi del postconcilio e delle dottrine del Concilio Vaticano II, che essi
accusano di aver falsato o abbandonato la “Tradizione”.
I lefevriani non si rendono
conto che ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più
avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa. I
lefevriani fanno come chi – mi si scusi il paragone materiale ma rende l’idea -
volesse giudicare il valore di un’auto dell’ultimo salone di Torino alla
luce di un’auto del 1930.
Avviene così che come i
protestanti pretendono di giudicare l’insegnamento dei Papi alla luce di un
contatto diretto e soggettivo con la Scrittura, trovando nei Papi un’infinità di
errori, similmente i lefevriani pretendono di giudicare gli insegnamenti del
Magistero posteriore al 1962 (come ha osservato lo stesso Benedetto XVI) alla
luce di un contatto immediato e parimenti soggettivo con la Tradizione, essi
pure credendo di trovare nel Concilio e nei Papi del postconcilio una
falsificazione di certi dati della Tradizione. [a
proposito della questione con i Lefebvriani, vedi notazioni su uno scritto
di P. Cavalcoli a Don Kolfhaus - ndR]
Ora i protestanti, i modernisti
ed i lefevriani non si accorgono che con questo loro atteggiamento, per quanto
si annoverino tra di loro teologi dotti e dottissimi, finiscono con la pretesa
di avocare a sé quel dono di infallibilità che Cristo non ha assicurato né ai
teologi né agli esegeti né agli storici della Chiesa, ma ai soli Vescovi,
successori degli Apostoli, uniti al Papa e sotto la guida del Papa.
Da qui la tesi diffusa sia tra
i lefevriani che tra i modernisti, secondo la quale gli insegnamenti del
Concilio costituirebbero una rottura con quelli del Magistero precedente, gli
uni per dispiacersene, gli altri per rallegrarsene, gli uni per svalutare a più
non posso l’autorità dogmatica del Concilio, gli altri per fare del Concilio una
specie di compendio totale del cristianesimo ad esclusione di tutti gli
insegnamenti precedenti, gli uni irrigidendo la Tradizione al preconcilio, gli
altri negando valore alla Tradizione.
Infatti la Tradizione nel senso
cattolico, se può essere paragonata, per la sua solidità e certezza, alla
“roccia” come Pietro è la “roccia”, tuttavia non ha l’inerzia della roccia o la
rigidezza di un corpo morto, perché essa, come comprese bene il Beato Henry
Newman, in quanto prodotto dello spirito, è un essere vivente, che conserva
certo la sua identità, ma nel contempo si accresce, si approfondisce e si
sviluppa, anche se è vero che il paragone col vivente non è del tutto calzante,
perché una proposizione nuova e più avanzata della Tradizione non sostituisce
quella precedente come l’età adulta nel vivente sostituisce la giovinezza, ma si
aggiunge alla precedente la quale resta valida e vincolante, così come per
esempio la cristologia del Vaticano II certo è più avanzata di quella
calcedonese, ma questa anche oggi resta valida nel suo insegnamento immutabile.
L’impressione della rottura
possono averla più gli storici del Concilio che non i teologi e se dovessero
averla anche questi, sarebbe un fatto grave, perché vorrebbe dire che non sanno
vedere la continuità al di sotto del progresso.
Infatti, mentre è normale per
il teologo fare maggior attenzione alle formule definitive o definitorie e
quindi fisse cui giungono le discussioni conciliari, lo storico, per sua natura
legato al succedersi degli eventi, è portato a guardare con maggior attenzione
all’evoluzione dei dibattiti che poi conduce alle conclusioni dottrinali finali
ed ufficiali, le sole che valgono dal punto di vista della fede.
Per questo lo storico che
esamina le fasi o le vicende della elaborazione dei documenti conciliari non può
non constatare gli effettivi contrasti, anche in campo dottrinale, che sono
emersi durante i lavori del Concilio fra conservatori e progressisti,
soprattutto fra quei conservatori che si scandalizzavano irragionevolmente delle
novità e quei progressisti che tendevano al modernismo.
Senonchè lo storico,
soprattutto se cattolico, non può non prender atto anche delle conclusioni alle
quali sono giunti i dibattiti conciliari, conclusioni dove i contrasti sono
scomparsi e che appaiono nei testi dottrinali ufficiali, testi che la Chiesa
considera definitivi ed irreformabili, come a dire: “infallibili”.
E qui, ad un attento esame,
contraddizioni col passato non esistono. Infatti in campo dottrinale ossia
dogmatico un Concilio, secondo la stessa fede cattolica, trattando di materia di
fede, non può rompere col passato, non può mutare sentenza, non può esprimere
sentenze errate o rivedibili. Un Concilio chiarisce un dato precedente, non lo
muta, perché mutare vorrebbe dire oscurare e falsificare. Il che per un
cattolico sincero è impensabile e per lo storico onesto non è constatabile.
Quanto al teologo, se può
essergli utile sapere dallo storico come si è giunti alle conclusioni
canonizzate nei testi ufficiali per una migliore interpretazione dei testi
stessi, deve però guardarsi bene, soprattutto se è cattolico, dal voler
ritrovare nei testi ufficiali dottrinali tracce di quelle incoerenze o
imperfezioni che lo storico constata con facilità nel materiale che gli viene
fornito dalla storia dei dibattiti conciliari precedenti. Così come lo storico
non può dare maggior importanza dottrinale ai precedenti contradditori dibattiti
rispetto alle conclusioni alle quali è giunto il Concilio con regolari
votazioni.
Quanto ai lefebvriani, per
sottrarsi a questo dovere di accettare le dottrine del Concilio, si appigliano a
pretesti speciosi quanto inconsistenti. Sono soprattutto due: 1) si dice che il
Concilio è solo pastorale e non dottrinale; 2) si afferma che nel Concilio non
sono stati definiti nuovi dogmi e che quindi le sue dottrine non sono
infallibili. Quindi, conclusione, - essi dicono - possiamo correggere il Papa e
il Concilio in base alla “Tradizione”.
A ciò si risponde dicendo che
non è vero che gli insegnamenti del Concilio sono solo pastorali, ma si danno,
come hanno affermato più volte i Papi del postconcilio, anche insegnamenti
dottrinali, come tali infallibili, giacchè perché si dia dottrina infallibile -
ossia assolutamente e perennemente vera - non è necessario, come la Chiesa
stessa insegna (Vedi Istruzione “Ad tuendam fidem” della Congregazione per la
Dottrina della Fede del 1998), che il Magistero dichiari esplicitamente o
solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto
si tratti di materia di fede. Questo pronunciamento viene qualificato dalla
detta Istruzione come “definitivo” ed “irreformabile”, il che è come dire
infallibile.
Nel Concilio si danno
indubbiamente anche insegnamenti di tipo pastorale, che sono anzi la larga
maggioranza. In questo campo la Chiesa non è infallibile e, come dalla stessa
storia del dogma si dimostra nei fatti, l’infallibilità del Magistero, in quanto
esso non si è mai smentito (checché ne dica Küng), parimenti lo storico della
Chiesa può agevolmente dimostrare come nel campo pastorale la Chiesa ha commesso
errori, che poi hanno dovuto essere corretti. E in tal senso un Concilio
successivo corregge gli errori pastorali commessi dal precedente.
Così non è proibito rilevare
errori pastorali nel Vaticano II, che potranno eventualmente essere corretti dal
prossimo Concilio. Ma pretendere, magari sotto pretesto di progresso dogmatico,
che il Magistero non abbia una dottrina fissa ed immutabile o che nel corso
della storia muti parere in fatto di fede o di dogma o che possa sbagliare o
correggere errori commessi, è una tesi assolutamente falsa che può essere
smentita dagli storici onesti e perspicaci, soprattutto se cattolici, giacchè il
cattolico sa per fede che la Chiesa in fatto di dottrina, nonostante certe
apparenze contrarie, non può sbagliare, anche se questa certezza può e dev’essere
supportata e confermata dalla storia.
Bologna, 28 febbraio 2011
[Fonte:
Riscossa cristiana]
Distinguere frequenter. Il
Vaticano II e gli assolutismi. In dialogo con P. Giovanni Cavalcoli
P. Giovanni Cavalcoli, OP in un
recente articolo pubblicato su Riscossa Cristiana, dal titolo La Tradizione
contro il Papa, continuava a riflettere sul Concilio Vaticano II, con una
volontà precisa di riscattarlo dai modernisti e dai tradizionalisti. Il Padre
domenicano, portava a difesa dell'infallibilità delle dottrine del Concilio, il
Motu proprio Ad tuendam fidem del 1998. Di seguito gli risponde il P. Serafino
M. Lanzetta, argomentando su due cose: 1) non è necessario per accettare il
Vaticano II rendere tutte le sue dottrine infallibili; 2) perché una dottrina
sia infallibile è necessaria la sua definitività dichiarata dal Magistero,
secondo il citato Motu proprio.
Carissimo P. Giovanni,
ho letto i suoi ultimi
interventi sul Vaticano II, pubblicati da Riscossa Cristiana. Ammiro la sua
infaticabile passione per un argomento così spinoso ma centrale nell’attuale
situazione ecclesiale. Mi permetta di rivolgerle qualche domanda e di riflettere
insieme con lei, come abbiamo avuto già modo di fare in precedenza. Muoverei da
un primo approccio: la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. È
indubitabile che dopo ogni concilio la Chiesa abbia vissuto momenti di forti
turbolenze, in ragione di un riassestamento lento e progressivo della compagine
ecclesiale, scossa, normalmente, da errori che la minacciavano, smascherati però
dalle definizioni delle verità di fede. Non sono mancate fratture,
riacutizzatesi proprio in ragione della chiara ed infallibile posizione dei
concili. Mi sovviene quanto si verificò per il Concilio di Nicea. È vero che
l’errore subordinazionista, che ammaliava anche vescovi dal calibro di Eusebio,
fu sconfitto definitivamente solo con il Concilio successivo di Costantinopoli,
definendo la divinità della Spirito Santo, mentre, nel frattempo, gli ariani si
muovevano con sinodi ben precisi volti a conquistare dalla loro parte le Chiese.
I confini dell’esagitazione ecclesiale però erano ben delineati: da un lato la
fede della Chiesa, difesa da S. Atanasio e definita al Concilio, dall’altra
l’eresia della non-consustanzialità del Figlio col Padre e di conseguenza un
principio di svuotamento del mistero stesso della Redenzione. La cattolicità si
stringeva intorno alla stessa fede, mettendo sempre più al bando l’errore
dottrinale, che qui si avvaleva dell’accondiscendenza dell’Imperatore. Anche
dopo il Concilio di Trento i confini della fede cattolica furono ben presto
visibili, e con un’opera di intelligenza pastorale, la Chiesa tornò a
risplendere della sua bellezza, graffiata dai suoi figli rivoltosi. Si insegnò
che la S. Scrittura e le Tradizioni non scritte sono le due fonti dell’unico
deposito rivelato da Dio e consegnato alla sua Chiesa. La Chiesa attinge la sua
regola di fede da entrambe, unite nell’unico atto rivelativo, custodite e
trasmesse indefettibilmente dal Magistero autentico.
Dopo il Vaticano II, però, si
assiste a qualcosa di nuovo: è la stessa Chiesa ad essere colpita da una
profonda crisi. Una crisi d’identità. È nel suo interno che si mettono in
discussione i dogmi: o li si vuole superare in nome di un meta-dogmatismo o –
ciò che mi sembra abbia prevalso – li si vuole arrestare ad ogni costo al
Vaticano I, per dare una svolta nuova all’Assise ultima: quella della
conciliarità. Che presto diventa neo-conciliarismo.
Lo stesso approccio pastorale
del Concilio – che lei dice esser il cavallo di battaglia dei lefebvriani per
affossare il Vaticano II – si prestò a svariate letture. Ci fu chi come Y.
Congar voleva un concilio pastorale, che non fosse da meno di uno dottrinale e
che non si limitasse a definire o ad atomizzare la fede, ma raggiungesse gli
uomini del tempo. A questi gli farà presto eco G. Alberigo, il quale dirà che il
Concilio pastorale aveva messo in discussione l’ecumenismo dottrinale, fino a
far abbandonare la via antiqua per una svolta epocale; chi, poi, come il card.
G. Siri, che vedeva proprio nell’elevata enfasi data al lemma pastorale un
«equivoco-ombra» per risistemare la dottrina passando al lato della condanna
degli errori, ma provocando necessariamente una certa mescolanza. Una
misericordia verso gli erranti poteva trasformarsi in una misericordia verso
l’errore. Questo in larga parte si è verificato, seppur involontariamente.
Riporto una lucida e coraggiosa analisi di questa situazione, fatta dal card. G.
Biffi, che dice: «Un magistero che non condanna niente e nessuno – naturalmente
con tutta la prudente attenzione alle concrete circostanze e alle esigenze della
carità pastorale – è fatale che diventi complice involontario dell’errore e
quindi di colui che il Signore Gesù ha chiamato “menzognero e padre della
menzogna” (cfr. Gv 8,44)» (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena
2010, p. 53).
Per questa ragione, caro Padre,
trovo il suo argomentare un po’ troppo affrettato. Non risponde al vero dire, a
mio modo di vedere, che i lefebvriani: solo loro o anche altri?, correggono il
Papa e il Concilio in nome della Tradizione – mi sentirei anch’io chiamato in
causa, per quanto ciò possa aver peso –, in ragione della pastoralità del
Concilio e del fatto che il Vaticano II non ha emanato nuovi dogmi. Questo lo
dice anche Paolo VI e con lui in modo particolare Giovanni Paolo II, che ne
attuò le istanze più proprie. Si pensi solo alla missionarietà interreligiosa ed
ecumenica di questo amato Pontefice.
Mi rendo conto della sua
accorata preoccupazione per il Concilio e per le sue dottrine. Il riconoscimento
del Concilio: a priori irrinunciabile per ogni figlio della «Cattolica», la
spinge però a rendere infallibili tutte le sue dottrine. Giustamente,
dall’accettazione delle dottrine dipende l’accettazione del Concilio, ma non
necessariamente l’accettazione delle dottrine deve prevederne l’infallibilità
perché si accetti il Concilio. Leggo nei suoi scritti, e questo è sicuramente
invidiabile, una grande volontà di riscattare il Concilio dai modernisti e dai
tradizionalisti. Ma così facendo, ho l’impressione che il “nuovo” del Concilio,
che comunque lei riconosce come sviluppo e aggiunta e mai abrogante quello di
prima, perché sempre infallibile, debba richiedere necessariamente un atto di
fede teologale. Questo vale sempre? In questo modo, però, come si potrà
distinguere ciò che è dottrinale da ciò che è pastorale?, cosa che invece lei
giustamente vuole fare.
Allora, le mie domande: quali
sono a suo modo di vedere le dottrine infallibili del Concilio e gli
insegnamenti pastorali fallibili e rivedibili? Riuscirebbe a farne un quadro ben
delineato o troverebbe sempre la difficoltà di dover disgiungere il fine e la
natura pastorali del Concilio anche dai suoi insegnamenti dottrinali? E se gli
insegnamenti dottrinali non sono definiti quindi dichiarati infallibili, in
ragione di cosa li si può vedere come tali? Solo in ragione del dato dottrinale
nuovo portato dal Concilio o non piuttosto in ragione della Tradizione della
Chiesa, metro dello sviluppo dogmatico? Il criterio dell’infallibilità non sta
nel dopo, ma nel prima. La Tradizione non dovrebbe essere mai contro il Papa. Se
lo è, è perché si è smarrito il suo vero concetto. Pertanto, distinguerei tra
accettazione delle dottrine/insegnamenti del Concilio e loro (generale)
infallibilità. Accettarle non dipende dalla loro infallibilità, ma dal fatto che
sono insegnamenti del Magistero della Chiesa. È la Chiesa la garanzia della loro
autenticità. Questo potrebbe aiutarci a liberarci da una soffusa ondata di
neo-conciliarismo, quando, ad ogni piè sospinto, si invoca l’autorità dottrinale
del Concilio, con un generalissimo “il Concilio dice”, “il Concilio insegna”,
ignorando magari lo stesso Magistero post-conciliare. Potrebbe essere anche il
modo con cui ci si accosta alle dottrine del Vaticano II, senza prevenzioni
dogmatiste, con una libertà, sempre nei confini del vero tracciati
dall’Autorità, per verificarne, ad un tempo, il loro ancoraggio al Deposito
della fede e lo sforzo della novità in ragione della nuova pastoralità voluta
dai Padri.
È vero che il Magistero
post-conciliare ha dichiarato a più riprese la continuità delle dottrine
conciliari con la Tradizione della Chiesa. Si pensi ultimamente alla Verbum
Domini quanto al rapporto Scrittura e Tradizione in Dei Verbum. Ma questo non ci
redime ancora, purtroppo, da un angosciante e sordo appello al Concilio e sempre
al Concilio. Non sarebbe inopportuno un nuovo Sillabo per mettere in guardia
dagli errori declamati in nome del Concilio, con il quale non si chiederebbe
alla Chiesa di correggersi ma di correggere gli errori.
Dopo il Vaticano I, ad esempio,
non c’era molto da dibattere sul contenuto della Pastor aeternus. Ci furono
quelli che lo rifiutarono, ma la Chiesa non dovette ritornare sul suo
significato per una sapiente ermeneutica. Invece, si nota una singolarità del
Vaticano II, che nasconde un problema ermeneutico di approccio e di lettura
degli insegnamenti. Mi convinco sempre più, che più che nelle dottrine del
Vaticano II, il vero problema si nasconde nel principio ermeneutico con cui le
si legge, tema classico della modernità, postasi proprio come problema
gnoseologico. Quel mondo moderno con cui si voleva dialogare ha presentato alla
Chiesa il conto della sua principale difficoltà: mettersi in questione per
arrivare, solo dopo, alla sua comprensione?
Vengo così all’Ad tuendam
fidem (Motu proprio di Giovanni Paolo II, del 1998), che lei cita nel suo
ultimo scritto (28 febbraio 2011). Con questo documento, il venerabile
Pontefice, si premurava di munire di due paragrafi il canone 750 del CIC (e
rispettivamente il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali) per
preservare la fede della Chiesa dagli errori che insorgono. Il primo paragrafo
di detto canone richiama le cose da credere con fede divina e cattolica, in
quanto insegnate infallibilmente dal Magistero solenne o dal Magistero ordinario
e universale e contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata (allusione
alla due fonti della Rivelazione). Il secondo paragrafo, invece, riguarda
l’accoglienza ferma di quelle cose che il Magistero insegna come definitive
circa la fede e i costumi. Non si fa però menzione, per appurare l’infallibilità
di una dottrina, alla sola “materia” di fede come lei invece dice. Il metro è
ancora una volta il Magistero. È interessante notare che questa definitività
della dottrina, sebbene di cose non rivelate ma connesse con la Rivelazione e
dichiarate tali dal Magistero, fu riconosciuta anche dalla Scuola di Bologna,
che all’uscita del Motu proprio, subito s’allarmò con un intero numero
monografico di Cristianesimo nella Storia (n. 1, 2000). Si sarebbe così
compromessa la voluta scelta del Vaticano II di mettere un certo silenziatore
alla Tradizione costitutiva, che ora Giovanni Paolo II, pretendeva rispolverare
quanto all’infallibilità di dottrine definitive, insegnate infallibilmente dal
Magistero. Si andava così a riprendere un certo modo controversistico e
antiprotestante, accantonato dal Concilio. Si ripiombava in una visione
dottrinale contro quella propriamente pastorale (vedi ad esempio G. Ruggieri, in
Ibid., pp. 4. 103-131: l’unico italiano ad aver firmato il controverso
memorandum “Chiesa 2011” dei teologi tedeschi).
Con accenti di rottura, certo,
ma anche quest’ermeneutica riconosce che Ad tuendam fidem parla di
definitività delle dottrine appurata dal Magistero e dà così piena cittadinanza
alla Traditio constitutiva.
Con Benedetto XVI possiamo
allora affermare, che «la Parola di Dio si dona a noi nella sacra Scrittura,
quale testimonianza ispirata della Rivelazione, che con la viva Tradizione della
Chiesa costituisce la regola suprema della fede» (Verbum Domini 18).
Ogni dottrina, anche quella di
un concilio, non dovrà mai prescindere da questa «regola suprema».
Con devoti sensi di fraterna
amicizia.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
Firenze, 5 marzo 2011
[Fonte:
Approfondimenti di "Fides Catholica"]
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