Terra Santa:
donne cristiane indotte a sposare musulmani
Padre Artemio Vítores,
OFM, vicario della Custodia dei Luoghi Santi,
su "Veritas"
Il
matrimonio è un ideale e una liberazione per le donne del Medio
Oriente
La legge islamica e il matrimonio tra un
musulmano e una donna cristiana
Quando non esiste la libertà religiosa
Perché una donna cristiana si
sposerebbe con un musulmano?
Che soluzione si può dare a questo
problema?
Un’altra
conseguenza della situazione dei cristiani in Terra Santa.
Domenica 2 febbraio
2003, alla festa della Presentazione di Gesù al Tempio, o festa della
Candelora, i fedeli affollavano la parrocchia latina di Gerusalemme.
C’erano anche i frati del convento. Dopo l’omelia, il parroco ha
portato una candela accesa dall’altare fino al fondo della chiesa,
dove si trovava una donna di circa trent’anni. I due, con le candele,
hanno iniziato una processione verso l’altare. Lì il parroco le ha
dato un bacio di pace e la donna si è seduta al primo banco della
chiesa. Abbiamo assistito ad una riammissione nella Chiesa di una
“pubblica peccatrice”. A tutti noi, ben sapendo di chi si trattava,
ci è venuto un nodo alla gola.
Che peccato aveva commesso quella donna? Lei nubile, era andata con un
uomo, lui sposato. Entrambi cattolici di Gerusalemme. Non esistendo il
matrimonio civile - e questo vale sia per la Chiesa cattolica come per
la religione ebraica o islamica -, decisero di farsi musulmani per
potersi unire in matrimonio. La cerimonia è molto semplice: si va alla
casa di uno sheih (chierico musulmano), che presiede il tribunale
islamico. Lì si recita la formula shahada (testimonianza), o
“professione di fede”, alla presenza di due testimoni che a loro
volta recitano la formula shahada, e si convertono in musulmani.
L’unione si era rotta e lei aveva deciso di tornare alla sua fede
cristiana. Dopo un anno di “prova” era stata riammessa alla Chiesa,
poiché chi lascia la Chiesa cattolica e si fa ad esempio musulmano, è
un apostata della fede ed è scomunicato. Potrà poi essere assolto da
questa scomunica, dall’Ordinario del luogo, secondo il Codice di
Diritto canonico (c. 1355, co. 2). Lei stessa aveva voluto che, poiché
il suo allontanamento era stato pubblico, anche il suo ritorno alla fede
fosse visibile per tutta la comunità. L’uomo intanto continua ad
essere musulmano.
Immagino la reazione dei molti lettori occidentali di fronte a questa
scena che sembra tratta dalle notti più buie del Medioevo. Suppongo che
nelle nostre nazioni cristiane, dove prevale un forte laicismo o persino
una falsa concezione della libertà religiosa, questo fatto non avrà
molta importanza. Ma sì lo ha per una comunità, come quella cristiana
in Terra Santa, che si trova vicino all’estinzione.
Anche se la conversione all’Islam di questi due cristiani era stata
piuttosto “interessata” per entrambi ed abbia avuto un lieto fine,
visto che la donna è tornata alla fede cristiana e i due figli, frutto
di questa unione, sono stati battezzati, non si tratta di un caso
isolato, che può essere più o meno curioso. Questa è invece la
situazione nella quale si trovano o si possono trovare molte donne
cristiane in Medio Oriente, e specialmente in Terra Santa.
Il matrimonio è un ideale e una liberazione per le donne del Medio
Oriente
torna su
Che il matrimonio sia un ideale e una realizzazione per la maggior parte
delle donne - e degli uomini -, non è cosa nuova, anche se oggi vi sono
molte donne, specialmente nei Paesi occidentali, che preferiscono vivere
sole o convivere senza unirsi in matrimonio. Tuttavia, la cultura e
l’influenza religiosa del Medio Oriente portano la donna a considerare
il matrimonio come unica via per affrontare il futuro. Le donne vogliono
sposarsi e sposarsi ad ogni costo.
Le donne si vogliono sposare perché il matrimonio è il più grande
ideale per la donna. In Medio Oriente, a prescindere dal suo carattere
cristiano, musulmano o ebreo, continua a prevalere l’ideale biblico,
come appare nel libro della Genesi: “Crescete e moltiplicatevi”. La
sessualità feconda è un dono di Dio e ad essa è intimamente legata la
storia della salvezza, come appare evidente nel caso di Abramo.
Per l’ebraismo il celibato era considerato, nei tempi antici, come un
ostacolo alla santità, e la verginità, il celibato o la sterilità
significavano ignominia. Il bene più grande della donna israelita era
di essere madre, poiché in tale condizione godeva non solo di grande
considerazione, ma anche della stessa autorità del padre: “Onora il
padre e la madre...”.
E anche oggi, sia per gli ebrei che per i musulmani e anche per i
cristiani, i figli non sono solo un appoggio per i genitori, ma anche
una condizione imprescindibile per il rafforzamento della religione.
Quando nasce un figlio musulmano si suole dire: “Un credente in più
della fede islamica”. Considerato tutto ciò, si capisce il
significato di un antico proverbio di quella religione: “O il
matrimonio o la tomba!”.
Le donne vogliono sposarsi ad ogni costo perché il matrimonio
rappresenta la liberazione per la donna. Solo così possono lasciare la
servitù della casa paterna, per potersi dedicare a curare la propria
casa. Il ruolo della donna nella casa materna è molto debole; è sempre
condizionato non solo dai genitori, ma anche dai fratelli e da altri
membri della famiglia.
Specialmente se la donna non lavora, la sua condizione è molto
difficile, poiché, specialmente nei territori dell’Autorità
palestinese, non sono previste pensioni, o altri tipi di sussidi. Il
matrimonio è un’emancipazione e una realizzazione per qualunque
donna. E ciò vale anche per le donne cristiane.
Magari poi non la ottengono, come avviene per il diritto matrimoniale
ebraico, dominato dal principio patriarcale, e in cui di fatto, la
donna, con il fidanzamento si sottrae al potere del padre per passare
sotto quello del marito, al quale essa deve fedeltà assoluta.
La situazione delle donne religiose ebree può essere riassunta nella
preghiera che la donna e l’uomo recitano ogni mattino. Secondo Tosefta
Berakoth, 7,18, la donna dice umilmente: “Ti benedico Signore perché
mi hai fatto secondo la tua volontà”; questa preghiera, trasmessa dal
Rabbino Jehuda, che si trova negli attuali libri di preghiere, si
contrappone a quella che il pio ebreo recita ogni mattina: “Ti
benedico Signore perché non mi hai fatto né donna, né pagano, né
schiavo”. E questo è ciò che avviene, talvolta, quando una donna
cristiana si sposa con un musulmano.
La legge islamica e il matrimonio tra un musulmano e una donna
cristiana
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Secondo la tradizione islamica (Hadit), è proibito per un
cristiano sposarsi con una donna musulmana se lui non si converte
all’Islam. Di fatto questo caso è assai raro e avviene solo nelle
famiglie più liberali e non condizionate dalla religione. La famiglia
in questo caso non rappresenta un ostacolo. Per una donna musulmana,
secondo la giurisprudenza islamica accettata dalla Comunità musulmana,
è assolutamente proibito sposarsi con un uomo di altra religione, poiché
si apre al rischio di abbracciare la religione del marito.
Qualora lo facesse, le conseguenze potrebbero essere molto gravi, e
potrebbero arrivare persino alla morte, procurata dai propri familiari o
da fanatici o anche dalle autorità dello Stato, qualora questo avesse
come legge fondamentale la Sharia, considerata dai musulmani come
una legge divina. In Israele questa soluzione così radicale non esiste,
almeno per ora, visto che l’Autorità palestinese non ha il potere
sufficiente per imporre la legge islamica.
Ma potrebbe essere possibile in un futuro prossimo, o almeno così si
deduce dalla bozza della futura Costituzione palestinese che contempla
la legge islamica o Sharia come legge fondamentale dello Stato,
nonché da molte dichiarazione dei capi religiosi e politici musulmani.
Per questo le autorità religiose cristiane vedono con apprensione
questo testo fondamentale del futuro Stato palestinese.
Il caso è diverso quando è un uomo musulmano a sposare una cristiana.
Il Corano pone come principale impedimento per il matrimonio la disparità
di religione e vieta ai musulmani di sposarsi con donne infedeli o
pagane. Un versetto dell’inizio della “rivelazione medinese” dice:
“Non sposate le [donne] associatrici [infedeli, pagane] finché non
avranno creduto, perché certamente una schiava credente è meglio di
una associatrice, anche se questa vi piace” (Sura II, v. 221).
Consente, tuttavia, di sposarsi con “le donne del Libro” (ebree o
cristiane). Dice infatti un’altra Sura: “[Vi sono inoltre lecite] le
donne credenti e caste, le donne caste di quelli cui fu data la
Scrittura prima di voi” (Sura V, v. 5). La tradizione musulmana va
anche oltre, considerando lodevole che un musulmano si sposi con una
cristiana. E la ragione è facile da intuire: l’uomo otterrà, con le
buone o con le cattive, che la donna si converta all’Islam,
guadagnando con ciò meriti di fronte a Dio.
In teoria la donna cristiana non è obbligata ad abbracciare l’Islam,
ma sarebbe troppa la pressione che dovrebbe sopportare da parte della
famiglia e dall’ambiente, che sarebbe molto difficile poter continuare
ad essere cristiana. In ogni caso, i figli nati da quel matrimonio
sarebbero sempre musulmani, a prescindere dal fatto che il Codice di
Diritto canonico insiste sulla necessità che i figli nati da questi
matrimonio - che sono validi per la Chiesa - siano educati alla fede
cattolica (cc. 1125-1229).
Vi è anche un altro problema importante che va contro la donna ed in
particolare contro la donna cristiana: è il divorzio e il ripudio. Sia
nella società ebraica che in quella musulmana - la legislazione è
molto simile -, esiste il divorzio, che viene concesso dai tribunali
religiosi. In entrambe le religioni, solo l’uomo può chiedere il
divorzio; alla donna non è permesso farlo, e ancor meno se questa è
cristiana.
A questo si aggiungono motivi economici che indurranno la donna
cristiana ad abbracciare la fede musulmana. Secondo la legge islamica,
un cristiano, ad esempio, non può ereditare da un musulmano e, in caso
di divorzio o di ripudio, il musulmano non è obbligato a pagare gli
alimenti (nafaqua) a una donna non musulmana. Alla donna
cristiana rimangono quindi poche alternative!
Quando non esiste la libertà religiosa
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La vita di un cristiano in Terra Santa non è mai stata facile e
sicuramente non lo sarà mai. Egli è costretto a vivere in un ambiente
sociale, politico e religioso che lo condiziona. Una delle difficoltà
maggiori è la mancanza di libertà religiosa, nel senso che viene
negato il diritto di ogni uomo “a venerare Dio, secondo i dettami
della propria coscienza, di professare la religione in pubblico e in
privato e di godere della dovuta libertà religiosa”, per poter
scegliere liberamente di abbracciare una determinata religione.
Tutti i Paesi di quell’area limitano radicalmente questo diritto
riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
(art. 18), o semplicemente lo negano ad alcuni cittadini. Esiste, è
vero, in quasi tutti i Paesi la libertà di culto, ovvero la facoltà di
praticare la fede cristiana a casa o in chiesa. Ma di fatto i cristiani
sono tollerati ( dhimmi: “protetti”), in maggiore o minore
misura, a seconda del capriccio o della politica del momento.
Sono cittadini di seconda classe nel proprio Paese, poiché,
specialmente nei Paesi musulmani ove vige la Sharia come legge
fondamentale dello Stato, la tendenza è quella di imporre la propria
legge religiosa anche alle altre comunità, con tutte le conseguenze che
ciò comporta per la vita quotidiana. Cosicché vedono restringersi i
propri diritti, soprattutto nell’ambito dell’istruzione superiore,
del lavoro, dell’amministrazione pubblica e locale.
In Terra Santa vi è inoltre un problema aggiuntivo per i cristiani:
chiusi tra due grandi gruppi, quello giudaico e quello islamico, che
uniscono strettamente la religione allo Stato, i cristiani si trovano a
dover accettare un modello di società e di vita che non gli è proprio:
si sentono come corpi estranei in questo mondo mediorientale.
Questa situazione genera a volte tensioni tra musulmani e cristiani, che
arriva a insulti, minacce e vessazioni. Inoltre i musulmani - e questo
è molto grave - vedono i cristiani come complici del sionismo e
soprattutto li identificano con la politica dei Paesi cristiani,
specialmente gli Stati Uniti. Si comprendono quindi le difficoltà con
le quali un cristiano che non vuole farsi musulmano deve convivere,
spinto talvolta fino a desiderare di lasciare tutto e cercare nuovi
orizzonti.
Per quanto riguarda le conversioni, è vietato dalla legislazione
islamica per un musulmano farsi cristiano e le sanzioni, in caso di
conversione al Cristianesimo, possono arrivare fino alla morte. Questa
legislazione, invece, concede al cristiano ogni possibilità per
convertirsi all’Islam. Cosa che rappresenta una discriminazione
inammissibile. Lo stesso avviene in Israele, dove, dal 1977, esiste una
legge che vieta il “proselitismo religioso”, sanzionando la
conversione degli ebrei al Cristianesimo, ottenuta con mezzi aggressivi
o per mezzo di vantaggi materiali. Questa legge non ha mai trovato
applicazione per mancanza di trasgressori.
La libertà religiosa è la cartina di tornasole di una vera democrazia.
Per questo, nell’ “Accordo Fondamentale” tra la Santa Sede e lo
Stato di Israele, del 30 dicembre 1993, all’articolo 1, comma 1, si
legge: “Lo Stato d’Israele [...] afferma il proprio permanente
impegno a sostenere e osservare il diritto umano alla libertà di
religione e di coscienza, nei termini in cui è definito nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e negli altri atti
internazionali cui aderisce”.
All’articolo 1, comma 2, la Santa Sede aderisce al medesimo impegno.
L’Autorità nazionale palestinese e la Santa Sede, nell’Accordo
firmato il 15 febbraio del 2000, promettono di garantire questo diritto.
Il rispetto della “libertà di coscienza” individuale, la quale
sebbene possa non essere sempre bene esercitata, può pur sempre essere
autenticamente sincera, è la base fondamentale della libertà
religiosa. E questo rispetto non esiste nell’Islam. La libertà
religiosa, diceva Giovanni Paolo II, “è il cuore dei diritti
umani”, se questa non esiste, non esisteranno gli altri diritti.
L’inviolabilità di questo diritto è talmente forte - afferma il Papa
- che “esige il riconoscimento persino della libertà della persona di
cambiare religione, ove la sua coscienza lo richieda”.
Perché una donna cristiana si sposerebbe con un musulmano?
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È una domanda che si dovrebbero porre anche gli uomini e le donne dei
nostri Paesi occidentali, dove la presenza di tanti immigrati musulmani
può essere occasione per una donna di incontrare e di innamorarsi di un
uomo musulmano e di volerlo sposare. Di fatto conosciamo molte donne
spagnole e di altre nazioni, sposate con musulmani e che vivono in Terra
Santa o in altri Paesi del Medio Oriente. In Occidente il contesto è
diverso, esiste il matrimonio civile, il divorzio e la cultura consente
di godere di una maggiore libertà. Ma soprattutto non si conosce bene
la situazione nella quale si troverà la futura sposa, qualora andasse a
vivere in un Paese musulmano.
Ma una donna cristiana di Betlemme o di Gerusalemme, che conosce bene
cosa significhi sposarsi con un musulmano, perché lo fa? Le ragioni
possono essere molto varie.
In primo luogo - e non è una novità - per amore. In una società
aperta, come quella israeliana, le diverse comunità religiose non sono
più separate tra loro come erano prima. È normale allora che,
specialmente all’università, ragazzi e ragazze di diverse religioni
entrino in rapporto tra loro, si innamorino e vogliano affrontare un
futuro insieme uniti in matrimonio. In questi casi sarà molto difficile
convincere la donna del fatto che la sua decisione potrà avere
determinate conseguenze. Riterrà che “l’amore supera ogni cosa” e
ne sarà convinta. Ancor peggio, vedrà nell’opposizione da parte
della propria famiglia, un tentativo di rovinarle la vita e la felicità.
Accade anche che la coppia si incontri di nascosto e che la donna si
trovi ad essere sola, senza che nessuno le abbia potuto spiegare le
conseguenze della sua decisione. O che gli stessi genitori non osino
contrariare la propria figlia.
In secondo luogo, perché i giovani cristiani in età di matrimonio sono
pochi. Molti cristiani palestinesi hanno abbandonato la Terra Santa
perché non trovano le condizioni minime e più elementari come
l’abitazione, il lavoro, la sicurezza, l’educazione, gli aiuti
sociali, ecc., per poter condurre una vita degna e sperare in un futuro
che valga la pena.
Per cercare un futuro migliore, i giovani ragazzi se ne vanno dalla
Terra Santa. Dei quasi 2000 cristiani palestinesi che sono emigrati in
questi ultimi due anni, la maggior parte erano maschi in età di
matrimonio. È molto difficile - nella cultura, nella religione e nella
mentalità mediorientale - che una giovane ragazza si avventuri in una
vita, quella dell’emigrazione, che comporta oggi tante incognite e
difficoltà. I ragazzi invece lo fanno più facilmente.
E così ci troviamo di fronte ad un problema molto serio: non vi è un
numero sufficiente di giovani in età di matrimonio. Solo un esempio per
illustrare questa situazione. Betlemme è uno dei centri cristiani più
importanti. Secondo uno studio effettuato dai parroci francescani della
Città di Davide, nella parrocchia latina vi erano normalmente ogni anno
circa 120 battesimi (più o meno 60 bambini e 60 bambine). Dei 60
bambini, solo 25 o 30 si sono sposati a Betlemme, mentre gli altri sono
emigrati. Inoltre, poiché le donne di Betlemme sono molto esigenti con
i giovani (chiedono vestiti costosi, celebrazioni sfarzose sia per il
fidanzamento che per il matrimonio, ecc.), molti giovani hanno preferito
sposarsi con donne di altre zone. E cosi, di queste 60 bambine, solo una
quindicina si sono sposate. Conclusione: rimangono le altre 45 in attesa
di matrimonio. Queste statistiche, grosso modo, possono applicarsi anche
agli altri centri cristiani.
La conseguenza di tutto questo è evidente: essendo il matrimonio un
ideale assoluto e una liberazione per la donna, è facile che questa
cercherà un marito anche tra i musulmani, senza preoccuparsi troppo
delle conseguenze o senza tenerne affatto conto. Per questo negli ultimi
anni, sei donne cristiane di Betlemme si sono sposate con musulmani, con
tutto ciò che questo implica, tra cui in particolare il fatto che i
figli che nasceranno non saranno mai cristiani.
Un ulteriore problema è che non vi sono risorse sufficienti per
affrontare un matrimonio. Un ragazzo giovane ha oggi poche possibilità
di sposarsi, perché scarseggiano i due elementi fondamentali: il lavoro
e la casa. Le famiglie musulmane, solitamente molto numerose, fanno il
possibile e l’impossibile per aiutare il giovane ad avere almeno la
casa; questo non avviane tra i cristiani che sono meno solidali tra
loro. E per questo motivo i francescani hanno intrapreso, da diversi
secoli, il compito di costruire case per i cristiani. Anche se il loro
lavoro è manifestamente insufficiente.
Che soluzione si può dare a questo problema?
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È difficile dare una soluzione ad un problema così complesso. Ma
crediamo che esiste qualche misura che sarebbe importante adottare.
È necessaria anzitutto una formazione religiosa più profonda. E questo
è responsabilità dei pastori, specialmente dei parroci. Le catechesi
cristiana e matrimoniale devono essere approfondite non solo nei
contenuti della fede, ma anche nelle conseguenze che implica un
matrimonio misto. L’ignoranza su questi temi può essere molto
pericolosa per la donna.
In secondo luogo deve esservi un maggiore sforzo da parte dei cristiani
palestinesi e anche da parte dei governi occidentali, per la
democratizzazione delle strutture politiche degli Stati musulmani.
Questo vale in modo particolare in questi momenti nei quali si prepara
il progetto di Costituzione del futuro Stato palestinese. Non è
accettabile che, nonostante la collaborazione politica ed economica
dell’Europa, si crei uno Stato palestinese che non rispetti i diritti
fondamentali dell’uomo e in particolare il diritto alla libertà
religiosa e alla libertà di coscienza.
In terzo luogo, è necessario aiutare maggiormente i cristiani. I
cristiani si sentono abbandonati dai governi dell’Occidente e dalle
società di carità cristiana. La frase che viene spesso ripetuta dai
politici: “Noi non aiutiamo i cristiani; aiutiamo i palestinesi”, può
avere, ed ha, un senso in Occidente. Qui non viene compresa. La
religione pervade ogni aspetto della vita di ogni gruppo e il conflitto
che si vive in Terra Santa è anzitutto un conflitto religioso.
I cristiani si sentono traditi dai propri fratelli occidentali, cosa che
non avviene per gli ebrei e per i musulmani. Non avendo questa
prospettiva, gli aiuti del mondo cristiano arrivano anche ai musulmani e
agli ebrei. E si verifica un amaro paradosso per cui l’aiuto dei
cristiani procura un rafforzamento delle maggioranze, lasciando ai
margini la minoranza cristiana, che si vede così obbligata ad emigrare.
Tutti siamo responsabili nei confronti dei nostri fratelli cristiani in
Terra Santa.
Come ultima considerazione, che forse è quella più importante, occorre
sottolineare l’urgenza, per le religioni e le culture, di riconoscere
alla donna la sua piena dignità e i suoi diritti inalienabili nella
società. Si tratta di un capitolo della storia non ancora concluso,
specialmente in Medio Oriente.
[Traduzione a cura di ZENIT]
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