Discorso del Presidente del Senato, Marcello
Pera, pronunciato in apertura del Meeting di Rimini, 21 agosto 2005
1. Tre domande
La questione che mi è
stato chiesto di affrontare - la democrazia è libertà? - è una. Ma
poiché democrazia e libertà sono conquiste dell'Occidente e poiché
l'Occidente oggi è percorso da una crisi interna e sotto l'attacco di
nemici esterni che gli hanno dichiarato una "guerra santa" perché,
come scrivono i fondamentalisti e terroristi islamici, è "giudeo e
crociato", le domande sono in realtà tre. E cioè: |
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Prima domanda: come rendere
solido e inscindibile, non solo praticamente ma anche concettualmente,
il legame fra democrazia e libertà?
Seconda domanda: come
trovare un fondamento alla democrazia e alla libertà, cioè alle nostre
democrazie liberali?
Terza domanda: come e perché
difendere l'Occidente dai suoi nemici interni ed esterni?
Nel cercare di dare
risposte a queste domande, ho uno scopo, che dichiaro fin dall'inizio:
mostrare che non solo è possibile ma necessario un colloquio - e anche
un'alleanza seria e salda, cioè non banale o occasionale - fra laici e
credenti per riaffermare e salvare la nostra identità occidentale,
democratica e liberale. Papa Ratzinger ha esortato le «minoranze creative»
a svolgere il loro ruolo. I tempi cambiano in fretta: considerando tanti
segnali, non sono sicuro che siamo o resteremo minoranze. Comunque,
dobbiamo accettare la sfida e fare la nostra parte.
2. La crisi di
identità dell'Occidente e l'Europa
Che l'Occidente sia il
teatro dei nostri problemi, lo si comprende riflettendo su due fatti.
Primo fatto. Come entità economico-politica,
l'Occidente è una zona di alto benessere materiale, caratterizzato da
elevato tenore di vita, larga produzione di beni e servizi, ampia ricerca
scientifica, imponente progresso tecnologico, fenomeni di espansione e
globalizzazione dei mercati. Ma questo benessere economico dell'Occidente
non è un elemento indipendente da altri; esso è legato a modi specifici
di convivenza civile, ordinamenti giuridici, costituzioni politiche,
codici, carte o dichiarazioni dei diritti. La forma istituzionale tipica
che la combinazione di questi elementi assume è quella che si chiama
democrazia liberale o liberaldemocrazia.
Secondo fatto. Come entità
etico-spirituale, l'Occidente è una civiltà, precisamente la civiltà
caratterizzata da quei valori e princìpi che oggi le liberaldemocrazie
affermano. Sotto questo profilo, le cose vanno diversamente. L'Occidente
è da tempo avvolto in un ciclo di crisi ricorrenti. Le liberaldemocrazie
si sono scontrate nella prima guerra mondiale; rinate dalla strage,
produssero nel loro seno fascismo, nazismo, comunismo; risorte dal
massacro della seconda guerra mondiale e vinta la guerra fredda, oggi si
trovano alle prese con un indebolimento o una perdita della propria
identità culturale, soffocata dall'opulenza materiale oltre che
minacciata dal fondamentalismo islamico.
La combinazione di questi
due fatti produce una contraddizione. Mentre come entità
economico-istituzionale l'Occidente si espande, come entità
etico-spirituale si contrae. Per un verso propone, per un altro
s'interroga sulla bontà di ciò che propone. In questa scissione tra
progresso materiale e crescita spirituale, risiede precisamente la crisi
dell'Occidente.
Dico "Occidente",
ma la questione riguarda in particolare l'Europa. Perché è in Europa che
i segni della crisi sono più allarmanti. Guardiamoci attorno e abbiamo il
coraggio di dire ciò che si vede. L'elenco degli allarmi è lungo.
In Europa si evita di
menzionare in un progetto, poi abortito, di Costituzione le nostre radici
giudaico-cristiane, e solo dopo tanti sforzi ci si richiama genericamente
e banalmente alle «eredità culturali, religiose e umanistiche».
In Europa si condanna un
politico - mi riferisco al "caso Buttiglione" - perché, in
fatto di omosessualità, afferma i suoi convincimenti morali cristiani
anche se si dichiara rispettoso della legge pubblica.
In Europa si perde il senso
religioso dei nostri costumi e della nostra tradizione e si impedisce o si
rende precaria l'esibizione pubblica di simboli di identità religiosa,
compreso la nostra - e qui mi riferisco alla legge francese sul velo e
alla sentenza della nostra Corte costituzionale sul crocefisso.
In Europa rinasce
l'antisemitismo e sono più le critiche allo Stato di Israele - la cui
esistenza continua ad essere negata da alcuni Stati islamici - che gli
atteggiamenti di comprensione, salvo adesso qualche ripensamento tardivo e
timido sulla politica del premier Sharon.
In Europa si approvano
leggi che disgregano la famiglia e si mettono con arroganza e protervia al
voto popolare i valori della persona e della vita - il riferimento,
chiaramente, è alla legge spagnola sulle coppie omosessuali e al
referendum italiano sulla fecondazione assistita.
In Europa si diffonde
l'idea relativistica che tutte le culture hanno la stessa dignità etica,
nessuna è migliore di un'altra, tutte sono buone e giuste.
In Europa si pratica il
multiculturalismo come diritto di identità irriducibile di tutte le
comunità, non importa se genera apartheid, risentimenti e
terroristi di seconda generazione.
In Europa si alzano le
bandiere arcobaleno anche quando si è massacrati, e si ritirano le truppe
dal fronte della guerra contro il terrorismo anche quando il terrorismo fa
vittime in casa nostra - il riferimento è alle marce della pace contro
l'America e alla decisione spagnola sull'Iraq.
In Europa la popolazione
diminuisce, si apre la porta all'immigrazione incontrollata, e si diventa
"meticci".
E così via, di allarme in
allarme.
Questa crisi è grave,
perché riguarda la nostra tradizione, la nostra identità, i nostri
valori. Ecco perché dobbiamo cercare un fondamento alla democrazia
liberale dell'Occidente e darle un senso che vada oltre la sua
mera efficacia di strumento di benessere materiale.
3. Questioni
preliminari
Poiché le tre domande che
mi sono posto potrebbero non apparire a tutti - e di fatto non appaiono a
tanti intellettuali - rilevanti e importanti, è opportuno rifletterci
sopra.
Per cominciare,
relativamente alla prima domanda, mi si potrebbe chiedere: perché
democrazia e libertà dovrebbero essere inscindibili?
La mia risposta è: può
darsi che lo Stato liberaldemocratico non sia la forma ultima delle nostre
istituzioni. Nessuno però oggi sarebbe disposto a rinunciare, in
qualunque altra forma futura, alla libertà personale e alla
partecipazione alle decisioni pubbliche. Ciò significa che noi
consideriamo libertà e democrazia come valori in solido, dunque
inscindibili.
Relativamente alla seconda
domanda, mi si potrebbe domandare: perché le nostre democrazie liberali
dovrebbero avere un fondamento, e quindi poggiare su qualcosa che
o è più solido, e sta alla base di esse, o è di maggior pregio, e ne
sta oltre e fuori? Non è la democrazia liberale autosufficiente? Non
basta il suo successo a giustificarla?
La mia risposta è: no,
non basta. Se la democrazia liberale è un valore, allora, come ogni
valore, ha bisogno di una giustificazione, un'argomentazione, una teoria,
o - perché no? - una fede che la sorregga. Democrazia e libertà non
fanno eccezione. Lasciarle a se medesime, senza presupposti solidi,
significa sperare nel buon Dio che ce le conservi.
Non mancano intellettuali
che la pensano diversamente. Uno - cimentatosi nell'impresa difficile di
rendere chiaro un pensiero di Jürgen Habermas - ha scritto che «lo stato
liberale è autosufficiente e indipendente da tradizioni religiose o
metafisiche di ogni genere». Ma questa non è soltanto mancanza di
cultura storica e filosofica, è anche assenza di immaginazione. Basta un
piccolo esperimento mentale per capirlo. Provate a toccarglielo - questo
Stato liberale che è stato conquistato anche a loro beneficio, sebbene
con pochi loro sforzi - e vedrete che questi intellettuali si ricrederanno
presto. Provate a chiedergli come lo difenderebbero - se mai dovessero e
volessero difenderlo - e vedrete che, alla fine, anch'essi finirebbero per
appellerarsi a fondamenti metafisici, morali o religiosi, come la
"ragione", la "natura umana", i "diritti
universali", lo "stato di natura", la "religione della
libertà", il "velo d'ignoranza", eccetera.
Infine, riguardo alla terza
domanda, mi si potrebbe chiedere: perché l'Occidente dovrebbe essere difeso?
Non si difende da sé, con i suoi successi, il suo benessere?
Anche qui la mia risposta
è: no. Come ho già detto, l'Occidente attraversa una crisi
morale. Oggi, la cultura diffusa in Occidente è un pericolo per
l'Occidente stesso.
Il caso più preoccupante
è quello del relativismo, la dottrina che tutte le culture sono uguali,
che non si possono comparare, e non si possono porre su alcuna scala per
giudicare l'una migliore dell'altra. C'è chi ancora crede, e sono in
tanti, che la democrazia sia la faccia istituzionale del relativismo
morale. Questo è un errore pericoloso, su cui più di una enciclica di
Papa Wojtyla - dalla Centesimus annus (1991) alla Veritatis
splendor (1993) alla Evangelium vitae (1995) - hanno posto
l'accento. Una democrazia relativista è vuota, ci fa perdere identità
collettiva e ci priva di qualunque senso obiettivo del bene. Basterebbe
votare secondo le procedure convenute e il risultato del voto della
maggioranza del momento diventerebbe un bene di per sé. Non importa se
questa maggioranza temporanea decidesse, poniamo, che la pena di morte è
giusta o che il feto non è persona o che l'embrione non è vita o che la
famiglia può essere anche omosessuale.
I relativisti scherzano col
fuoco. Abolire il linguaggio della verità, ignorare l'esigenza dei
fondamenti, dire "io sono democratico perché relativista" o,
per converso, "io sono relativista e perciò democratico"
equivale più o meno ad accettare ciò che passa il convento. Questo è un
lusso che gli intellettuali relativisti si consentono perché il convento
- sui giornali, alla televisione, nelle università, nelle piazze - è
oggi molto generoso con loro. Ma, anche qui, facciamo un semplice
esperimento mentale. Provate a togliergli qualche agio, a questi
intellettuali relativisti, e vedrete che cominceranno a pensare che il
relativismo non è poi così giusto. Provate ad approvare, in modo
democratico, qualche misura che li riguardi - magari, finalmente, una
riforma dell'università - e vedrete che passeranno agli strilli, ai
girotondi, e magari alla resistenza.
Insomma, i problemi che
questo Meeting pone esistono e sono gravi. O si trova un modo per venirne
a capo, oppure la crisi dell'Occidente si aggraverà. Cominciamo dunque
nell'addentrarci nelle nostre domande.
4. La teoria
liberaldemocratica
Per farlo analiticamente,
dovrei compiere un giro lungo di filosofia politica, ma cerco di
accorciare la strada. In dottrina, la soluzione più promettente dei
nostri problemi sembra una teoria che ha tanti nomi quanti i suoi fautori
ma che possiamo chiamare a buon diritto liberaldemocratica.
Secondo questa teoria, la
vera libertà non è quella da (dalla violenza, dalla forza, dal
potere, dallo Stato, ecc.) o quella di (di essere istruiti, di
avere le risorse economiche, di essere uguali politicamente, ecc.), ma l'autonomia.
Libero è l'individuo che si autodetermina, cioè che determina la propria
volontà con leggi che egli dà a se stesso. Un individuo autonomo è
libero da, perché non è costretto da nessuno fuori che da sé,
e libero di, perché ha in sé le risorse per autodeterminarsi.
Con ciò sembra che abbiamo
trovato la soluzione ai nostri problemi.
Al primo: la democrazia è
libertà? La risposta è: sì, libertà e democrazia sono
inscindibili perché i valori democratici sono mezzi per aumentare la vera
libertà degli uomini, che consiste nell'autonomia.
Al secondo problema: esiste
un fondamento della liberaldemocrazia? La risposta ugualmente è: sì,
esiste, esso è la ragione universale, perché autonomia propriamente
significa sottomissione ad una legge che ciascuno dà a sé e
dunque una legge che deve riguardare tutti gli uomini. Ma se
questa legge riguarda l'intera umanità, non può che essere la ragione o
la razionalità, nella quale si esprime l'essenza della natura umana.
Infine, sembra che abbiamo
trovato la soluzione anche al terzo problema: perché dobbiamo difendere
l'Occidente? La risposta è: dobbiamo difenderlo perché la coniugazione
di libertà e democrazia che vige in Occidente non è una questione
locale, ma riguarda l'essenza della natura umana.
Ho definito questo
tentativo di risolvere i nostri problemi "il più promettente"
perché in effetti esso promette parecchio. La teoria liberaldemocratica
ha tre caratteristiche importanti.
In primo luogo, è armonica:
se l'autonomia è il fine e tutti gli altri valori - l'uguaglianza, la
partecipazione politica, la giustizia sociale, ecc. - sono dei mezzi,
allora tra mezzi e fini, e dunque fra tutti i valori, non può esserci
conflitto.
In secondo luogo, la teoria
liberaldemocratica è universalista, dato che la vera autonomia
è sottomissione alla ragione universale.
Infine, in terzo luogo, la
concezione liberaldemocratica è migliorista: se esistono degli
ostacoli alla realizzazione dell'autonomia, essi possono essere superati,
perché la ragione, anche se lentamente, alla fine prevale.
Se uno desidera comprendere
perché tanti liberaldemocratici occidentali sono impegnati contro la
povertà, contro le ingiustizie, contro le discriminazioni, contro la
mancanza di diritti, e a favore della democrazia, delle opportunità,
delle uguaglianze, prima fra tutte fra uomo e donna, è a questa idea
ottimistica dell'autonomia e della ragione universale che deve fare
riferimento. I tanto detestati politici e pensatori
"neoconservatori" sono precisamente dei liberaldemocratici con
questa fede nell'autonomia degli individui, non solo americani. La
differenza, cruciale rispetto agli altri, è che essi hanno studiato la
storia, non si nascondono dietro gli ideali, e sono realisti. In termini
biblici, direi che è tutta gente che ha mangiato all'albero della
conoscenza: qui sulla terra, il paradiso è lontano, se non proprio
perduto.
La domanda che ora dobbiamo
porci è: funziona e soddisfa questa teoria liberaldemocratica? La
risposta, purtroppo, è che, come tutte le cose promettenti, anch'essa non
mantiene abbastanza. Cerchiamo di capire perché.
5. Limiti della
teoria
Intanto, cominciamo col
dire che, dopo la seconda guerra mondiale, la teoria ha funzionato
benissimo. Se noi, qui in Occidente, siamo cresciuti tanto, se abbiamo
garantito così tanti diritti a così tante persone, se siamo un modello
di convivenza migliore di tutti i precedenti e attraente per quei tanti
che ancora ne sono esclusi, se abbiamo assicurato benessere, conquiste
politiche, progresso sociale, pace, è perché da noi la libertà si è
meglio accomodata con l'uguagliaza, e l'autonomia con la convivenza.
Ma se parlo di
"accomodamento" - cioè compromesso, equilibrio, modus
vivendi - non parlo di teoria. L'accomodamento è pratico, vale caso
per caso e di volta in volta, è precario e provvisorio. La teoria invece
dovrebbe essere stabile e sicura. E purtroppo la teoria liberaldemocratica
dell'autonomia sicura non lo è. Ha almeno tre limiti, uno per ciascuna
delle sue tre caratteristiche.
Il primo limite è che la
teoria liberaldemocratica non considera l'esistenza di conflitti fra
valori irriducibili, perché è armonica. Per questa teoria, tali
conflitti non solo non esistono, non possono neppure esistere,
perché, se esistessero, ne confuterebbero l'armonia. Purtroppo, invece
essi esistono.
I casi della bioetica sono
oggi i più tipici. Nella ricerca sulle cellule staminali embrionali, si
deve anteporre il valore della vita o quello della ricerca scientifica?
Nel caso dell'aborto, si deve anteporre il valore della persona del feto o
il valore della salute della madre? Nel caso della fecondazione assistita,
si deve anteporre il valore del figlio desiderato o il valore della
famiglia? Nel caso dell'eutanasia, deve prevalere il valore della dignità
della morte o il valore della vita? Nel caso delle nozze fra omosessuali,
è più importante il valore della felicità di due persone o quello del
matrimonio?
Pensare che problemi come
questi si possano risolvere con una teoria unitaria come quella
liberaldemocratica, o si possano scansare, è illusorio e ingenuo.
Talvolta ci troviamo di fronte a contrasti che derivano da autentici dilemmi
morali e che richiedono scelte morali. Ma quando si sceglie,
si sacrifica. Come ho già avuto occasione di dire in occasione delle
discussioni sulla fecondazione assistita, i valori non si possono
"sforbiciare" senza una perdita morale oggettiva.
In verità, tanti laicisti
- liberali, socialisti, azionisti, comunisti e anche qualche cattolico
cosiddetto "adulto" - ci hanno provato lo stesso a dare un
violento colpo di forbici ai valori, ma sono ancora lì che si accarezzano
la guancia per lo schiaffo ricevuto al referendum. Sembra che non gli
basti e cercano rivincite. Dicono che ci sarebbe la crisi dell'ora di
religione a scuola, che ci sarebbe il calo delle vocazioni, che Benedetto
XVI sarebbe più adatto alle biblioteche che ai cuori, perché non
conquisterebbe - cioè, perché non gli concedono - le prime pagine dei
giornali. Per carità, non ditegli che al Meeting siete così tanti e che
tantissimi hanno seguito il Papa: vi risponderanno che, in realtà,
volevate fare baldoria a Rimini o profumarvi con l'acqua di Colonia in
Germania!
Il secondo limite della
teoria liberaldemocratica deriva dalla sua caratteristica razionalistica:
essa non considera l'esistenza del male quale dato essenziale e
ontologico. Anche qui, non solo il male non esiste, neppure può
esistere, perché se autonomia significa sottomettersi alla ragione
universale, per una ragione siffatta non possono esserci cadute, se non
per mancanze soggettive o condizioni esterne. Il male, al più, è un male
sociale, come sosteneva Rousseau. E questo è un autentico errore. Il male
esiste, negli individui e nel mondo, e chi volta lo sguardo dall'altra
parte per non vederlo lo fa a proprio rischio e pericolo, sia nelle
relazioni interpersonali che in quelle internazionali. Contro questi miopi
ottimisti, io credo che abbiano fatto bene a richiamare al realismo il
presidente Reagan e l'attuale presidente Bush quando hanno parlato di
"asse del male" e di "stati canaglia". Se ci sono, non
è colpevole non dirlo, o magari dire che tutti gli Stati sono canaglie?
Infine, il terzo limite
della teoria liberaldemocratica deriva dal suo migliorismo: così come
nega i conflitti di valore e il male, essa non considera la possibilità
del regresso. Ma anche questo è un errore. Il progresso dell'autonomia
degli individui non ci pone al riparo dai regressi della libertà della
società. Le catastrofi della nascita di fascismo, nazismo, comunismo dal
cuore stesso delle democrazie liberali illustrano tragicamente proprio
questo caso.
Ho parlato di tre limiti
della teoria liberaldemocratica, ma ce n'è un altro che li riassume tutti
ed è il più serio di tutti. Si tratta di questo. Quale che siano i
compromessi pratici che, di volta in volta, instaura fra libertà e
democrazia, la teoria liberaldemocratica privilegia ora la libertà
ora la democrazia rispetto al bene. Perciò essa parla di
"società aperta", "società libera", "società
equa", ma mai di "società buona".
Questa è una vera
mancanza, perché ciò che noi desideriamo non è soltanto una polis
che sia equilibrata, è anche una polis che sia virtuosa.
Ciò che cerchiamo non è solo la democrazia del consenso, ma una
democrazia del senso. Non ci lamentiamo perché l'Occidente è
poco liberale o poco democratico, dacché, in realtà, è molto liberale e
molto democratico. Ci lamentiamo perché è poco virtuoso. Ci
lamentiamo della decadenza dei nostri costumi, della mancanza di una
tensione morale collettiva.
La teoria
liberaldemocratica crede che la felicità di ciascuno, come
singolo, conduca di per sé alla felicità di tutti, come società.
E perché? Perché, l'abbiamo visto, la teoria liberaldemocratica pone
alla base dell'autonomia degli individui un fondamento metafisico,
la ragione universale come essenza della natura umana. Ma un fondamento
metafisico non conduce alla società buona o giusta. Per arrivare lì,
occorre un altro tipo di fondamento, un fondamento morale. E il
problema ora è: come e dove trovarlo questo fondamento morale?
6. Stato laico,
religione e politica
Prima di tentare una
risposta, permettetemi di indicare due casi che mostrano che la teoria
liberaldemocratica non riesce a trovarlo un fondamento morale: lo si vede
da come concepisce lo Stato laico e quale ruolo attribuisce alla religione
nella vita pubblica.
Lo Stato laico è una
grande conquista dell'Occidente. È quello che assicura a me e a voi la
libertà religiosa, la libertà di culto e anche la libertà di non
credere. Ed è quello che evita il fanatismo religioso. Confrontato col
Sacro impero di ieri, in cui vigeva il connubio fra trono e altare, e con
le teocrazie islamiche di oggi, nelle quali o non sei credente oppure non
sei cittadino o sei un dhimmi - o sei una donna! - cioè un
cittadino con pochi diritti, lo Stato laico è quello che ci assicura più
libertà. Grazie perciò ai teorici liberali che questo Stato lo hanno
inventato e grazie ai politici liberali che lo hanno costruito.
Ma attenzione alle
conseguenze che oggi si traggono da questo concetto. Stato laico significa
Stato non confessionale. Non significa Stato neutrale rispetto ai valori
morali, perché quando lo Stato - in particolare l'odierno Stato sociale
che vuole proteggerci "dalla culla alla bara" - legifera,
sceglie, e se sceglie adotta qualche valore. Stato laico non significa
neppure Stato indifferente ai valori religiosi. La dignità, la persona,
la vita, il matrimonio, ad esempio, sono valori religiosi prima di essere
princìpi secolari. "Non uccidere" o "ama il tuo prossimo
come te stesso" o "non testimoniare il falso" sono
comandamenti divini prima che norme dello Stato la cui violazione è
sanzionata da codici penali. Se vogliamo difendere lo Stato laico ed
evitare lo Stato etico e il totalitarismo che gli è connesso, la risposta
corretta è quella di uno Stato ridotto, il quale sia strumento
di una società civile autonoma. Più l'autonomia della società
è ampia, meno invasivo e coercitivo sarà lo Stato. Non era questa la
lezione di don Giussani, quando esaltava la funzione delle
"opere"? O quando affermava il «primato della socialità di
fronte allo Stato»?
Lo stesso vale per il ruolo
della religione. Per assicurare più libertà a ciascuno e meno conflitti
alla società, i liberaldemocratici hanno posto la religione nel privato e
l'hanno tolta dalla sfera pubblica. E anche questo ha prodotto un bene in
termini di convivenza. Ma fino a quanto si può relegare la religione nel
privato, isolarla dalla politica, confinarla nella «gabbia della
soggettività», secondo l'espressione di Papa Ratzinger? Fino al punto di
togliere i crocifissi dalle scuole? Fino al punto di impedire l'esibizione
di simboli religiosi nei luoghi pubblici? Insomma, fino al punto di
trasformare lo Stato laico in Stato laicista, quello che non solo
ghettizza la religione ma fa delle proprie norme e scelte religione a se
stesso?
No. Fino a quel
punto non si può arrivare. Senza un senso collettivo, senza l'adesione ad
una fede, senza un credo comune - dunque, senza un fondamento morale - una
società si indebolisce, scolora, perisce. Questo è il vero problema
problema oggi dell'Occidente. Intenderlo e risolverlo è compito tanto dei
laici quanto dei credenti.
7. Noi e gli
altri
Torniamo allora al punto.
So di aver navigato su acque profonde. Mi sono avventurato - e così
riassumo quanto ho detto - a parlare di irriducibilità dei valori ultimi;
di fondazione morale della democrazia liberale; del bene collettivo; del
ruolo dei valori, anche religiosi, nella vita pubblica. Ho messo in
questione lo Stato laico come oggi è inteso. Ho messo in questione la
separazione, come oggi è praticata, della politica dalla religione.
Insomma, ho messo in questione, la mia stessa bussola laica e liberale. E
ora mi trovo ad affrontare il problema dei fondamenti morali. Come e dove
trovarli?
I fondamenti morali -
questa è la mia risposta alla prima questione - non si definiscono in
astratto, a tavolino, li fornisce la storia, sul campo. I fondamenti
morali li offrono le tradizioni. E qui non intendo spendere una
parola in più rispetto a quanto ho detto tante volte.
La nostra storia, la storia
dell'Europa e dell'Occidente, è storia giudaico-cristiana e greco-romana.
Scendiamo da tre colline: il Sinai, il Golgota, l'Acropoli. E abbiamo tre
capitali: Gerusalemme, Atene, Roma. Questa è la nostra tradizione. Da qui
sono nati i nostri valori. Senza le leggi di Mosé, senza il sacrificio
del Cristo, non avremmo quel sentimento morale che ci fa sentire tutti
- credenti e non - fratelli, uguali, compassionevoli. Senza la ragione dei
Greci e il diritto delle genti dei Romani, non avremmo quelle forme di
pensiero che sorreggono le nostre istituzioni pubbliche. Lo so che, scesi
da quelle colline, lasciate quelle capitali, abbiamo fatto tanto cammino
grazie anche a tanti altri apporti. Ma lo abbiamo fatto a partire da lì,
nutriti con ciò che abbiamo imparato lì, convinti che il senso della
strada fosse ancora lì. Chi rinnega queste origini tradisce la propria
storia e perde la propria identità. Noi non dovremo consentirlo.
Già, ma "noi"
chi? "Noi" non siamo soli. Come rapportarci agli
"altri", quando, immigrando, vogliono entrare nella nostra
comunità? E come difenderci dagli "altri", quando, violando le
nostre leggi, ci vogliono distruggere?
Sul problema della
convivenza e dell'integrazione, l'Europa ha dato una risposta sbagliata e
una risposta ingenua.
La risposta sbagliata - più
democratica che liberale - è quella del multiculturalismo, cioè
la protezione delle culture e delle comunità anziché degli individui. Il
risultato di questa politica è stato quello di gruppi etnici che, nel
migliore dei casi, si ignorano, e, nel peggiore, si dimostrano ostili.
Dopo l'assassinio del politico Fortuym e del regista van Gogh, anche
l'Olanda sta facendo marcia indietro rispetto a questo modello. E lo
stesso accade in Inghilterra dopo gli attentati terroristici del 7 luglio.
La risposta ingenua - più
liberale che democratica - è quella della tolleranza. Con un
grave malinteso: che la tolleranza, così come è intesa e praticata da
noi, è una virtù passiva, che confina con l'indifferenza e la
sopportazione. Dopo tanti fallimenti delle nostre politiche di
integrazione, questo equivoco dovrebbe essere eliminato. Ciò di cui
abbiamo soprattutto bisogno non è la tolleranza così concepita, ma, l'ho
detto più volte, il rispetto, che, a differenza della
tolleranza, è una virtù attiva. Ma il rispetto comincia da casa
nostra. Non possiamo chiedere rispetto, e nessuno ci rispetterà, se non
cominciamo a rispettare noi stessi. Se, alla domanda: "sei tu ebreo e
cristiano?", rispondiamo come Pietro, che rinnegò. O se, alla
domanda: " credi nel valore della tua tradizione?", ci
atteggiamo come Pilato, che non se ne curò. Non c'è altra strada: o ci
impegnamo ad integrare gli altri facendoli diventare cittadini
della nostra civiltà - con la nostra educazione, la nostra
lingua, la conoscenza della nostra storia, la condivisione dei nostri
princìpi e valori - oppure la partita dell'integrazione è perduta.
Ma che cosa dobbiamo fare
quando l'altro non concede la reciprocità del rispetto e ci dichiara
guerra, come oggi fa il terrorista islamico che addirittura ci combatte
con una "guerra di religione"?
La mia risposta, anche
questa detta tante volte, è: ci difendiamo. Ci difendiamo con la
diplomazia, la politica, la cultura, i commerci, i negoziati, gli accordi.
Ci difendiamo offrendo rispetto e chiedendo rispetto. E alla fine ci
difendiamo con la forza delle armi. Quando sia arrivata questa
"fine" è materia di prudenza politica. Importante è che sia
veramente alla fine. Ancora più importante è che la fine non sia mai.
Se così fosse, ci arrenderemmo in partenza.
Noi non vogliamo né guerre
di civiltà né guerre di religione. Siamo democratici e liberali anche
per questo. Ma saremmo irresponsabili se girassimo lo sguardo quando
queste guerre ci sono. E saremmo colpevoli se, quando ci sono, non
sollevassimo un interrogativo.
Dopo averlo pensato tante
volte da solo, non saprei come meglio esprimere questo interrogativo se
non ricorrendo alle parole di un grande storico italiano.
Ha scritto Roberto
Vivarelli: «Nessuno ha diritto di giudicare una fede religiosa in quanto
tale, ma si ha non solo il diritto ma il dovere di giudicare la condotta
di ciascuno. E quando alcuni fedeli, per giustificare azioni di per sé
barbare, dichiarano di conformare la loro condotta ai precetti di una
religione, i casi dovrebbero essere due: o quella pretesa è infondata, e
allora essa dovrebbe essere fermamente condannata dagli altri
correligionari; oppure ci sono buoni motivi per ritenere che quella fede
è inaccettabile».
Ora ho finito. Ho parlato
in scienza, poca, e coscienza, tutta quella che ho. Ho messo in
discussione le mie stesse idee di laico liberale. Ho esposto i limiti
della mia filosofia preferita. Insomma, mi sono messo in questione.
È vero, ho deluso i
giornalisti, anche se spero di non aver deluso voi: non ho parlato di
partito unico, di premiership, di primarie, di neocentrismo, e simili. Ma
l'ho fatto deliberatamente. Penso che tutte queste cose siano importanti e
dovranno essere affrontate. Ma dopo, non prima. Prima dobbiamo
definire la nostra identità. Fissare in quale luogo vogliamo vivere, con
chi e come. Affermare una cornice intellettuale e morale entro cui agire.
Capire in che cosa siamo diversi dai nostri avversari politici. Insomma,
prima dobbiamo aver chiari i contenuti che, dopo, i contenitori dovrebbero
contenere.
Temo che chi antepone il
dopo al prima non avverta la richiesta di identità, il bisogno di senso,
la voglia di basi morali e di fede che milioni di uomini e donne stanno
sollevando in Italia, in Europa, nel mondo. Un partito politico, specie se
nuovo o unico o unitario, deve ascoltare questo bisogno di identità, deve
rappresentarlo e tradurlo in programma e azione politica.
Ciò che qui ho cercato di
fissare è proprio un contenitore culturale e politico per soddisfare
questo bisogno. Non volevo convincere voi, volevo solo riflettere con voi
e mostrare che tra laici e credenti si deve parlare e si può
convenire specie quando si parla di identità. Ma non posso parlare
da solo: la sfida riguarda anche i fedeli, che spesso mostrano una fede
stanca, e riguarda anche la Chiesa, che deve rinnovare il senso del suo
messaggio nel mondo e sollevarne le energie spirituali. Voi di Comunione e
Liberazione siete nella migliore posizione per cimentarvi in questa
impresa e state facendo del vostro meglio per svegliare laici e credenti.
Per questo ho cercato un colloquio con voi. Se anche voi volete parlare
con me - e con coloro che si sforzano come me - sarei lieto di fare tutta
la strada che è possibile fare assieme a voi.