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«I segni della morte»
[Vedi interessanti puntualizzazioni di Sandro Magister] Quarant’anni fa, verso la fine dell’estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull’arresto cardiocircolatorio, ma sull’encefalogramma piatto: da allora l’organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello. Si tratta di un mutamento radicale della concezione di morte — che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organo — accettato da quasi tutti i Paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti), con l’eccezione del Giappone. Anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. A ricordare questo fatto è ora il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro (Morte cerebrale e trapianto di organi, Morcelliana) che — oltre a rifare la storia della definizione e dei dibattiti seguiti negli anni Settanta, tra i quali il più importante è senza dubbio quello di cui fu protagonista Hans Jonas — affronta con chiarezza la situazione attuale, molto più complessa e controversa. Il motivo per cui questa nuova definizione è stata accettata così rapidamente sta nel fatto che essa non è stata letta come un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto — scrive Becchi — come «una conseguenza del processo tecnologico che aveva reso disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali». La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo. Come dimostrò nel 1992 il caso clamoroso di una donna entrata in coma irreversibile e dichiarata cerebralmente morta prima di accorgersi che era incinta; si decise allora di farle continuare la gravidanza, e questa proseguì regolarmente fino a un aborto spontaneo. Questo caso e poi altri analoghi conclusi con la nascita del bambino hanno messo in questione l’idea che in questa condizione si tratti di corpi già morti, cadaveri da cui espiantare organi. Sembra, quindi, avere avuto ragione Jonas quando sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall’interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare. Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (Rubbettino), i cui contributi — di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei — sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal cardinale Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: «Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma “irreversibile”, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica (“cadaveri caldi”)». Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo — grazie alla respirazione artificiale — è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente. Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: «Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie». Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che «l’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica», mentre il nodo dei trapianti «non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte», ma attraverso l’elaborazione di «criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili». La Pontificia Accademia delle Scienze — che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard — nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su «I segni della morte». Il quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra quindi riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l’accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.
(1) Nota di
InternEtica:
Il
giornale del papa ha messo in dubbio che per accertare la morte di una
persona basti l'arresto del cervello. E con ciò ha riaperto la
discussione sui prelievi d'organi da "cadaveri caldi" a cuore battente.
Ancor più critici gli studiosi della Pontificia Accademia delle Scienze.
E Ratzinger, quand'era cardinale... L'articolo è di Lucetta Scaraffia, docente di storia contemporanea
all'Università di Roma "La Sapienza" e firma ricorrente del giornale
vaticano. Il direttore della sala stampa della Santa Sede, padre
Federico Lombardi, ha precisato che l'articolo "non è un atto del
magistero della Chiesa né un documento di un organismo pontificio" e che
le riflessioni ivi espresse "sono ascrivibili all'autrice del testo e
non impegnano la Santa Sede". Giusto. "L'Osservatore Romano" ha valore di organo ufficiale della Santa Sede soltanto nella rubrica "Nostre informazioni", che riporta le nomine, le udienze e gli atti del papa. La quasi totalità dei suoi articoli è stampata senza il previo controllo delle autorità vaticane e ricade sotto la responsabilità degli autori e del direttore, il professor Giovanni Maria Vian. Ciò non toglie però che l'articolo ha rotto un tabù, su un giornale che è pur sempre "il giornale del papa". Quarant'anni fa, il 5 agosto del 1968, il "Journal of American Medical Association" pubblicò un documento – il cosiddetto rapporto di Harvard – che fissò il momento della morte non più nell'arresto del cuore, ma nella cessazione totale delle funzioni del cervello. Tutti i paesi del mondo si adeguarono rapidamente a questo criterio. E anche la Chiesa cattolica si allineò. In particolare con una dichiarazione del 1985 della Pontificia Accademia delle Scienze e poi ancora nel 1989 con un nuovo atto della stessa accademia, avvalorato da un discorso di Giovanni Paolo II. Papa Karol Wojtyla tornò ancora sul tema in successive occasioni, ad esempio con un discorso a un congresso mondiale della Transplantation Society, il 29 agosto del 2000. In questo modo, la Chiesa cattolica legittimò di fatto i prelievi di organi così come oggi sono universalmente praticati su persone in fin di vita per malattia o per incidente: col donatore definito morto dopo che si è accertato il suo "coma irreversibile", nonostante ancora respiri e il suo cuore batta. Da allora, su questo punto la discussione nella Chiesa si spense. Le uniche voci che si udivano erano in linea con il rapporto di Harvard. Tra queste voci standard ci fu quella del cardinale Dionigi Tettamanzi, negli anni antecedenti il 2000, quando i temi bioetici erano suo pane quotidiano. Dopo di lui, le autorità della Chiesa più ascoltate in materia sono stati il vescovo Elio Sgreccia, fino a pochi mesi fa presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del pontificio consiglio per la pastorale della salute. Anche un altro esperto oggi tra i più accreditati in campo ecclesiastico, Francesco D'Agostino, professore di filosofia del diritto e presidente emerito del comitato italiano di bioetica, difende a spada tratta i criteri fissati dal rapporto di Harvard. I dubbi affacciati dall'articolo de "L'Osservatore Romano" non scuotono le sue certezze: "Quella esposta da Lucetta Scaraffia è una tesi che esiste in ambito scientifico, ma è ampiamente minoritaria". _______________ Sotto traccia, però, nella Chiesa i dubbi crescono.
Intanto, da Pio XII in poi, i pronunciamenti della gerarchia sulla
questione sono meno lineari di come appaiono. A illustrare queste
"ambiguità" della Chiesa c'è un intero capitolo di un libro uscito di
recente in Italia: "Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione
di etica giuridica", edito dalla Morcelliana di Brescia. Ne è autore
Paolo Becchi, professore di filosofia del diritto nelle università di
Genova e di Lucerna e allievo di un pensatore ebreo che dedicò
riflessioni preoccupate alla questione della fine della vita, Hans Jonas.
Secondo Jonas, la nuova definizione di morte accreditata dal rapporto di
Harvard era motivata, più che da un reale avanzamento scientifico,
dall'interesse, cioè dalla domanda di organi da trapiantare.
Ma soprattutto aumentano nella Chiesa le voci critiche. Già nel 1989, quando la Pontificia Accademia delle Scienze si occupò della questione, il professor Josef Seifert, rettore dell'Accademia Filosofica Internazionale del Liechtenstein, avanzò forti obiezioni alla definizione di morte cerebrale. A quel convegno, quella di Seifert fu l'unica voce dissenziente. Ma anni dopo, quando il 3-4 febbraio del 2005 la Pontificia Accademia delle Scienze si riunì di nuovo a discutere la questione dei "segni della morte", le posizioni si erano capovolte. Gli esperti presenti – filosofi, giuristi, neurologi di vari paesi – si trovarono d'accordo nel ritenere che la sola morte cerebrale non è la morte dell'essere umano e che il criterio della morte cerebrale, privo di attendibilità scientifica, debba essere abbandonato. Questa conferenza fu uno choc per i dirigenti vaticani che aderivano al rapporto di Harvard. Il vescovo Marcélo Sánchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, dispose che gli atti non fossero pubblicati. Un buon numero dei relatori consegnò allora i propri testi a un editore esterno, Rubbettino. E ne venne un libro dal titolo latino: "Finis Vitae", curato dal professor Roberto de Mattei, vicedirettore del Consiglio Nazionale delle Ricerche e direttore della rivista "Radici Cristiane". Il libro ha avuto una doppia edizione, in italiano e in inglese. Allinea diciotto saggi, metà dei quali di studiosi che non parteciparono al convegno della Pontificia Accademia delle Scienze ma ne condividevano gli orientamenti. Tra questi il professor Becchi. Mentre tra i relatori al convegno spiccano i nomi di Seifert e del filosofo tedesco Robert Spaemann, quest'ultimo molto stimato da papa Joseph Ratzinger. Sia questo doppio volume edito da Rubbettino, sia quello di Becchi pubblicato dalla Morcelliana hanno dato lo spunto a Lucetta Scaraffia per riaprire la discussione sulle colonne de "L'Osservatore Romano", nel quarantesimo del rapporto di Harvard. _________________ E Benedetto XVI? Sulla questione non si è mai pronunciato direttamente, nemmeno da teologo e cardinale. Si sa però che apprezza le argomentazioni dell'amico Spaemann. Nel concistoro del 1991 Ratzinger tenne ai cardinali una relazione sulle "minacce contro la vita". E nel descrivere tali minacce si espresse così: "La diagnosi prenatale viene usata quasi di routine sulle donne cosiddette a rischio, per eliminare sistematicamente tutti i feti che potrebbero essere più o meno malformati o malati. Tutti quelli che hanno la buona sorte di essere portati sino al termine della gravidanza dalla loro madre, ma hanno la sventura di nascere handicappati, rischiano fortemente di essere soppressi subito dopo la nascita o di vedersi rifiutare l'alimentazione e le cure più elementari. "Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma 'irreversibile' saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d'organo o serviranno, anch'essi, alla sperimentazione medica, come 'cadaveri caldi'. "Infine, quando la morte si preannuncerà, molti saranno tentati di affrettarne la venuta mediante l'eutanasia". Da queste parole si intuisce che Ratzinger aveva già allora forti riserve sui criteri di Harvard e sulla pratica che ne è derivata. A suo giudizio i prelievi d'organo su donatori in fin di vita avvengono spesso su persone non già morte, ma "messe a morte" a tal fine. Inoltre, da papa, Ratzinger ha pubblicato il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica. Nel quale si legge, al n. 476: "Per il nobile atto della donazione degli organi dopo la morte deve essere pienamente accertata la morte reale del donatore". Commenta Becchi nel suo libro: "Poiché oggi ci sono buoni argomenti per ritenere che la morte cerebrale non equivalga alla morte reale dell'individuo, le conseguenze in materia di trapianti potrebbero davvero essere dirompenti. E ci si può chiedere quando esse saranno oggetto di una presa di posizione ufficiale della Chiesa". | indietro | | inizio pagina | |
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