Intervento di apertura dell'Em.mo Card. Giacomo Biffi al convegno

«MULTICULTURALITÀ E IDENTITÀ OGGI»

Bologna, 20 settembre 2001

Oratorio S. Filippo Neri di Bologna


Voglio congratularmi con l’Istituto «Veritatis Splendor» per l’iniziativa di questo Convegno. Le tematiche che qui saranno toccate non soltanto sono per se stesse di grande rilievo, ma anche si connotano di un’attualità viva e (sembra di poter dire) crescente. La felice pluralità delle voci saprà ben lumeggiare, ne sono certo, i vari argomenti; argomenti distinti tra loro e multiformi, ma contigui e anzi in piú di un caso vicendevolmente connessi.

Per parte mia, vorrei richiamare l’attenzione su due differenti questioni, che già altra volta mi hanno dato l’occasione di esprimere qualche convincimento: quella dell’identità cristiana entro la dominante “cultura del dialogo” e quella dell’immigrazione nelle nostre terre. Dico subito che, se la mia “forma mentis” è quella del teologo (sia pure di un teologo in disarmo), le mie prospettive e i miei interessi sono quelli del pastore.

La questione del “dialogo”

La necessità del dialogo - oggi enfaticamente asserita un po’ in tutti i contesti, fino a essere quasi ossessiva - è quasi un’ovvietà. Come potrebbero vivere gli abitanti di un pianeta così fortemente comunicante e unificato come il nostro, senza parlarsi e confrontarsi tra loro? Possiamo anzi essere d’accordo anche sulla doverosa ricerca della reciproca comprensione attraverso una benevola attenzione all’”altro” (questo pare sia oggi il senso culturale del termine “dialogo”).

È tuttavia innegabile che nella concretezza esistenziale del rapporto tra non credenti e credenti (almeno quei credenti che non vogliono smarrire la loro originale identità) emerge a questo proposito qualche problema, che deve essere correttamente affrontato. Basterà pensare alla pubblicazione, lo scorso anno 2000, da parte della Congregazione per la dottrina della fede della Dichiarazione Dominus Iesus: non era mai capitato - in venti secoli di cristianesimo - che si sentisse il bisogno di ricordare ai discepoli di Gesù una verità così elementare e primaria come questa: il Figlio di Dio fatto uomo, morto per noi e risorto, è l’unico necessario Salvatore di tutti. Evidentemente si è temuto che di questi tempi Gesù Cristo potesse diventare l’illustre vittima del dialogo interreligioso.

Paolo VI - che con l’enciclica Ecclesiam suam (1964) ha introdotto ufficialmente il tema nei documenti del Magistero - ha chiarito le opportunità, i metodi, i fini, ma si è volutamente astenuto da dare alla proposta di “dialogo” una vera e propria fondazione teologica. Il che è forse alla fonte delle intemperanze e delle ambiguità che hanno poi aduggiato la cristianità.

Nel tentativo di attenuare tale inconveniente e nella speranza che il discorso sia poi proseguito dagli addetti ai lavori (possibilmente senza eccessive precomprensioni ideologiche e senza troppo indulgere alla moda del “politicamente corretto”), mi proverò a elencare alcuni elementi di riflessione a mio avviso incontestabili e ineludibili.

1. L’evento salvifico - nei due fatti costitutivi dell’incarnazione del Verbo e della risurrezione di Gesù - sta all’origine del cristianesimo e ne rappresenta in forma perenne e definitiva il senso e il cuore. Essendo dei “fatti”, essi non sono “trattabili”: chi “crede” non li può, restando logico, né attenuare né mettere tra parentesi; chi “non crede” non li può razionalmente accettare.

Sono dunque culturalmente “laceranti”. Il che è chiaramente insegnato dalla parola di Dio in alcuni testi oggi abbondantemente censurati:

- “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35).

- “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10,34).

- “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo. Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà” (Mt 21,42.44).

Alla luce di questi insegnamenti, il principio che “bisogna guardare piú a ciò che ci unisce che a quello che ci divide” (utilissimo nella sua accezione “politica” e comportamentale) diventa ambiguo fino a essere deviato e alienante nell’ambito del dialogo interreligioso: il cristiano guarda - e non può mai cessare di guardare - soprattutto a ciò che la Rivelazione gli ha indicato come eminente e sostanziale.

2. Nel cristiano la fede è un’intelligenza assolutamente nuova e imparagonabile, che gli deriva dalla luce comunicatagli dallo Spirito del Signore risorto: tale luce ha come effetto proprio di far partecipare alla conoscenza stessa che possiede il Signore Gesù. Chi ne è privo, manca del principio conoscitivo adeguato a cogliere il significato ultimo di questo ordine di cose concretamente esistente (che è incentrato in Cristo ed è dunque “soprannaturale”).

È l’insegnamento esplicito e inequivocabile di san Paolo, che chiarisce la differenza e la fatale incomunicabilità che c’è tra l’uomo “pneumatikòs” e l’uomo “psychikòs”: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. L’uomo “psichico” invece non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare per mezzo dello Spirito” (cf. 1 Cor 2,12-15).

3. Secondo la dottrina di san Paolo, tutto dall’inizio è stato pensato e voluto in Cristo (cf. Col 1,15-20). E dunque ogni uomo è stato esemplato su Cristo: proprio in quanto uomo, egli è una iniziale immagine del Figlio di Dio. Si deve dunque pensare che nessun uomo, in questa “economia” cristocentrica, sia abbandonato entro i confini della pura naturalità e sia lasciato senza alcun aiuto che lo proporzioni almeno per qualche aspetto alla soprannaturalità dell’universo come in realtà esiste.

4. “Lo Spirito - ha detto Gesù - spira dove vuole” (cf. Gv 3,8). Non è da sottovalutare la libera azione illuminante che è propria dello Spirito Santo, effuso sull’umanità dal Signore che sta alla destra del Padre. È un’azione alla quale noi non possiamo “a priori” assegnare nessun confine. Le intelligenze umane, anche se di solito non arrivano a percepirlo, sono spesso “pneumatizzate” quando si pongono sinceramente al servizio della verità.

In un’opera attribuita un tempo a sant’Ambrogio si trova a questo proposito un’affermazione illuminante (ripetutamente ricordata da san Tommaso d’Aquino): “Quidquid verum a quocumque dicitur, a Sancto dicitur Spiritu” (Ambrosiaster, In primam ad Cor. XII,23).

Come si vede, la risposta al problema se sia o no possibile un dialogo tra il credente e non credente non è semplice perché è una risposta “dialettica”, e sono diversi gli elementi che interagiscono.

Certo, non c’è alcuna possibilità di intesa tra la fede e l’incredulità, considerate come atteggiamenti mentali e spirituali totalmente estranei e tra loro antitetici. Ma noi dobbiamo sempre cercare di avvalorare (e rendere auspicabilmente feconda di verità) l’iniziale conformità a Cristo che si trova in ogni uomo. Senza dire che il non credente può essere portavoce inconsapevole dello Spirito Santo; sicché “a priori” non possiamo trascurare di ascoltarlo con qualche speranza; e, nel caso più fortunato, di convenire con lui.

La questione dell’immigrazione

Sull’immigrazione mi limito a richiamare schematicamente quanto ho avuto occasione di dire lo scorso anno.

Alle comunità cristiane proponevo tre persuasioni semplici ed essenziali.

1. Non è per sé compito della Chiesa e delle singole comunità risolvere i problemi sociali che la storia di volta in volta ci presenta. Noi non dobbiamo perciò nutrire nessun complesso di colpa a causa delle emergenze anche imperiose che non ci riesce di affrontare efficacemente.

2. Dovere statutario del popolo di Dio e compito di ogni battezzato è di far conoscere Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, e il suo necessario messaggio di salvezza. È un preciso ordine del Signore e non ammette deroga alcuna. Egli non ci ha detto: “Predicate il Vangelo a ogni creatura, tranne i mussulmani, gli ebrei e il Dalai Lama”.

3. Allo stesso modo, è nostro dovere l’osservanza del comando dell’amore. Di fronte a un uomo in difficoltà - quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza - i discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità.

Tre convincimenti esprimevo anche nei confronti dello Stato italiano.

1. Di fronte al fenomeno dell’immigrazione, lo Stato non può sottrarsi al dovere di regolamentarlo positivamente con progetti realistici (circa il lavoro, l’abitazione, l’inserimento sociale), che mirino al vero bene sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni.

2. Poiché non è pensabile che si possano accogliere tutti, è ovvio che si imponga una selezione. La responsabilità di scegliere non può essere che dello Stato italiano, non di altri; e tanto meno si può consentire che la selezione sia di fatto lasciata al caso o, peggio, alla prepotenza.

3. I criteri di scelta non dovranno essere unicamente economici e previdenziali: criterio determinante dovrà essere quello della più facile integrabilità nel nostro tessuto nazionale o quanto meno di una prevedibile coesistenza non conflittuale. Un “ecumenismo politico” (per così dire), astratto e imprevidente, che disattendesse questa elementare regola di buon senso amministrativo, potrebbe preparare anche per il nostro popolo un futuro di lacrime e di sangue.

Ho la presunzione di avere con ciò enunciato in termini estremamente chiari delle proposte del tutto ragionevoli (anzi, se si vuole, “laicamente” ragionevoli). E moltissimi le hanno intese e apprezzate.

Mi sfugge invece come sia stato possibile muovere a questa posizione da parte di altri accuse come quelle di integralismo, di prevaricazione clericale, di intolleranza, di atteggiamento antievangelico, eccetera. L’ipotesi più misericordiosa che mi si presenta è che da parte dei miei critici, per il brigoso impegno di parlare, non si sia trovato il tempo di leggere ciò che io avevo scritto.

Quella dell’immigrazione è una questione difficile e complessa, e va affrontata con serietà di informazione e di indagine. Non si tratta perciò soltanto di leggere ciò che si vuol contestare (che è il minimo che si deve fare); bisogna anche - per dirla col Manzoni - “osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”.

“Ma parlare, - continua il Manzoni con la sua saggezza al tempo stesso sorridente e impietosa - questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire” (I promessi sposi, cap. XXXI).

Tanto più quindi mi compiaccio dell’accurato programma di ricerca, di analisi, di discussione, che arricchirà le giornate di questo Convegno. Al quale auguro di cuore un lavoro sereno e fruttuoso.

 

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