Paolo VI - che con l’enciclica Ecclesiam
suam (1964) ha introdotto ufficialmente il tema nei documenti
del Magistero - ha chiarito le opportunità, i metodi, i fini, ma si
è volutamente astenuto da dare alla proposta di “dialogo” una
vera e propria fondazione teologica. Il che è forse alla fonte delle
intemperanze e delle ambiguità che hanno poi aduggiato la
cristianità.
Nel tentativo di attenuare tale
inconveniente e nella speranza che il discorso sia poi proseguito
dagli addetti ai lavori (possibilmente senza eccessive precomprensioni
ideologiche e senza troppo indulgere alla moda del “politicamente
corretto”), mi proverò a elencare alcuni elementi di riflessione a
mio avviso incontestabili e ineludibili.
1. L’evento
salvifico - nei due fatti costitutivi dell’incarnazione del Verbo e
della risurrezione di Gesù - sta all’origine del cristianesimo e ne
rappresenta in forma perenne e definitiva il senso e il cuore. Essendo
dei “fatti”, essi non sono “trattabili”: chi “crede” non
li può, restando logico, né attenuare né mettere tra parentesi; chi
“non crede” non li può razionalmente accettare.
Sono dunque culturalmente “laceranti”.
Il che è chiaramente insegnato dalla parola di Dio in alcuni testi
oggi abbondantemente censurati:
- “Egli è qui per la rovina e la
risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché
siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35).
- “Non crediate che io sia venuto
a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una
spada” (Mt 10,34).
- “La pietra che i costruttori
hanno scartata è diventata testata d’angolo. Chi cadrà su questa
pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo
stritolerà” (Mt 21,42.44).
Alla luce di questi insegnamenti, il
principio che “bisogna guardare piú a ciò che ci unisce che a
quello che ci divide” (utilissimo nella sua accezione “politica”
e comportamentale) diventa ambiguo fino a essere deviato e alienante
nell’ambito del dialogo interreligioso: il cristiano guarda - e non
può mai cessare di guardare - soprattutto a ciò che la Rivelazione
gli ha indicato come eminente e sostanziale.
2. Nel
cristiano la fede è un’intelligenza assolutamente nuova e
imparagonabile, che gli deriva dalla luce comunicatagli dallo Spirito
del Signore risorto: tale luce ha come effetto proprio di far
partecipare alla conoscenza stessa che possiede il Signore Gesù. Chi
ne è privo, manca del principio conoscitivo adeguato a cogliere il
significato ultimo di questo ordine di cose concretamente esistente
(che è incentrato in Cristo ed è dunque “soprannaturale”).
È l’insegnamento esplicito e
inequivocabile di san Paolo, che chiarisce la differenza e la fatale
incomunicabilità che c’è tra l’uomo “pneumatikòs” e l’uomo
“psychikòs”: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma
lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. L’uomo
“psichico” invece non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse
sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può
giudicare per mezzo dello Spirito” (cf. 1 Cor 2,12-15).
3. Secondo
la dottrina di san Paolo, tutto dall’inizio è stato pensato e
voluto in Cristo (cf. Col 1,15-20). E dunque ogni uomo è stato
esemplato su Cristo: proprio in quanto uomo, egli è una iniziale
immagine del Figlio di Dio. Si deve dunque pensare che nessun uomo, in
questa “economia” cristocentrica, sia abbandonato entro i confini
della pura naturalità e sia lasciato senza alcun aiuto che lo
proporzioni almeno per qualche aspetto alla soprannaturalità dell’universo
come in realtà esiste.
4. “Lo
Spirito - ha detto Gesù - spira dove vuole” (cf. Gv 3,8).
Non è da sottovalutare la libera azione illuminante che è propria
dello Spirito Santo, effuso sull’umanità dal Signore che sta alla
destra del Padre. È un’azione alla quale noi non possiamo “a
priori” assegnare nessun confine. Le intelligenze umane, anche se di
solito non arrivano a percepirlo, sono spesso “pneumatizzate”
quando si pongono sinceramente al servizio della verità.
In un’opera attribuita un tempo a
sant’Ambrogio si trova a questo proposito un’affermazione
illuminante (ripetutamente ricordata da san Tommaso d’Aquino): “Quidquid
verum a quocumque dicitur, a Sancto dicitur Spiritu” (Ambrosiaster, In
primam ad Cor. XII,23).
Come si vede, la risposta al
problema se sia o no possibile un dialogo tra il credente e non
credente non è semplice perché è una risposta “dialettica”, e
sono diversi gli elementi che interagiscono.
Certo, non c’è alcuna
possibilità di intesa tra la fede e l’incredulità, considerate
come atteggiamenti mentali e spirituali totalmente estranei e tra loro
antitetici. Ma noi dobbiamo sempre cercare di avvalorare (e rendere
auspicabilmente feconda di verità) l’iniziale conformità a Cristo
che si trova in ogni uomo. Senza dire che il non credente può essere
portavoce inconsapevole dello Spirito Santo; sicché “a priori”
non possiamo trascurare di ascoltarlo con qualche speranza; e, nel
caso più fortunato, di convenire con lui.
La questione dell’immigrazione
Sull’immigrazione mi limito a
richiamare schematicamente quanto ho avuto occasione di dire lo scorso
anno.
Alle comunità cristiane proponevo
tre persuasioni semplici ed essenziali.
1. Non è
per sé compito della Chiesa e delle singole comunità risolvere i
problemi sociali che la storia di volta in volta ci presenta. Noi non
dobbiamo perciò nutrire nessun complesso di colpa a causa delle
emergenze anche imperiose che non ci riesce di affrontare
efficacemente.
2. Dovere
statutario del popolo di Dio e compito di ogni battezzato è di far
conoscere Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto,
e il suo necessario messaggio di salvezza. È un preciso ordine del
Signore e non ammette deroga alcuna. Egli non ci ha detto: “Predicate
il Vangelo a ogni creatura, tranne i mussulmani, gli ebrei e il Dalai
Lama”.
3. Allo
stesso modo, è nostro dovere l’osservanza del comando dell’amore.
Di fronte a un uomo in difficoltà - quale che sia la sua razza, la
sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza - i
discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di
aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità.
Tre convincimenti esprimevo anche
nei confronti dello Stato italiano.
1. Di
fronte al fenomeno dell’immigrazione, lo Stato non può sottrarsi al
dovere di regolamentarlo positivamente con progetti realistici (circa
il lavoro, l’abitazione, l’inserimento sociale), che mirino al
vero bene sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni.
2. Poiché
non è pensabile che si possano accogliere tutti, è ovvio che si
imponga una selezione. La responsabilità di scegliere non può essere
che dello Stato italiano, non di altri; e tanto meno si può
consentire che la selezione sia di fatto lasciata al caso o, peggio,
alla prepotenza.
3. I
criteri di scelta non dovranno essere unicamente economici e
previdenziali: criterio determinante dovrà essere quello della più
facile integrabilità nel nostro tessuto nazionale o quanto meno di
una prevedibile coesistenza non conflittuale. Un “ecumenismo
politico” (per così dire), astratto e imprevidente, che
disattendesse questa elementare regola di buon senso amministrativo,
potrebbe preparare anche per il nostro popolo un futuro di lacrime e
di sangue.
Ho la presunzione di avere con ciò
enunciato in termini estremamente chiari delle proposte del tutto
ragionevoli (anzi, se si vuole, “laicamente” ragionevoli). E
moltissimi le hanno intese e apprezzate.
Mi sfugge invece come sia stato
possibile muovere a questa posizione da parte di altri accuse come
quelle di integralismo, di prevaricazione clericale, di intolleranza,
di atteggiamento antievangelico, eccetera. L’ipotesi più
misericordiosa che mi si presenta è che da parte dei miei critici,
per il brigoso impegno di parlare, non si sia trovato il tempo di
leggere ciò che io avevo scritto.
Quella dell’immigrazione è una
questione difficile e complessa, e va affrontata con serietà di
informazione e di indagine. Non si tratta perciò soltanto di leggere
ciò che si vuol contestare (che è il minimo che si deve fare);
bisogna anche - per dirla col Manzoni - “osservare, ascoltare,
paragonare, pensare, prima di parlare”.
“Ma parlare, - continua il Manzoni
con la sua saggezza al tempo stesso sorridente e impietosa - questa
cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre
insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da
compatire” (I promessi sposi, cap. XXXI).
Tanto più quindi mi compiaccio dell’accurato
programma di ricerca, di analisi, di discussione, che arricchirà le
giornate di questo Convegno. Al quale auguro di cuore un lavoro sereno
e fruttuoso.