La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano Secondo
afferma che la Chiesa “è stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre
ricercato il loro nobile servizio, specialmente perché le cose appartenenti
al culto sacro fossero veramente degne, decorose e belle, segni e simboli
delle realtà soprannaturali, ed ha formato degli artisti”.1
Partendo da questa dichiarazione importante della Sacrosanctum Concilium
vorrei presentare, in modo piuttosto essenziale, gli aspetti liturgici che
incidono sull’arte. Anzitutto riconsideriamo ora i fondamenti teologici del
rapporto fra liturgia e arte. Poi accenneremo a tre elementi particolari
mediante i quali la liturgia incide sull’arte: le immagini sacre, la musica
sacra e la lingua sacra.
1. Fondamenti teologici
Per la Chiesa, che ha ben presente l’“autonomia delle realtà terrene”,
rettamente intesa2, l’arte assolve principalmente ad una funzione di culto.
Esso è l’essenza del fenomeno religioso, il quale, se ha dimensioni
personali ed intime, ha pure necessariamente espressioni comunitarie e
pubbliche. Gli edifici sacri, le immagini, gli arredi, le suppellettili, i
libri liturgici, gli stessi testi liturgici e il repertorio musicale, sono
opere d’arte che nascono per essere poste a servizio del culto divino.
L’arte non è un elemento estrinseco alla Liturgia e neppure è puramente
decorativo; essa è piuttosto parte integrante del culto, come mette in
rilievo Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Post-Sinodale
Sacramentum Caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si
manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza.
La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un
intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia
rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e
ci chiama alla comunione. In Gesù, come soleva dire san Bonaventura,
contempliamo la bellezza e il fulgore delle origini. Tale attributo cui
facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità
dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce,
facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera
vocazione: l’amore”.3
1.1 Arte al servizio del culto divino nell’Antico Testamento
Lo storico d’arte Timothy Verdon, riflettendo sul “genio artistico della
liturgia”, osserva che “[i]n quasi tutte le culture antiche, l’arte
monumentale ha carattere religioso e specificamente cultuale. Viene prodotta
cioè al servizio della liturgia, come ‘visibilità del mistero’. La liturgia
poi – il complesso di riti con cui una civiltà esterna il suo rapporto con
Dio – è in sé opera artistica e generatrice d’arte”. “In alcune culture”,
Mons. Verdon continua, “l’estro creativo al servizio del culto è considerato
addirittura un dono di Dio, e l’arte in tutte le sue forme … è pensata in
rapporto al sacro. Nell’Antico Testamento, per esempio, l’origine delle arti
viene inequivocabilmente presentata in funzione del culto, e ‘gli artisti
che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in
grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario’, vengono
istruiti da Mosè in persona, perché facciano ‘ogni cosa secondo ciò che il
Signore aveva ordinato’ (Esodo 36,1)”.4
L’esodo nel deserto rappresentò per Israele l’esperienza fondante della sua
formazione a popolo di Dio. Momenti significativi di questo itinerario sono
non solo il passaggio del Mar Rosso, in cui Dio manifesta la sua potenza
salvifica (cfr Esodo 14, 15 – 15, 21), o la proclamazione dell’Alleanza e la
consegna del Decalogo a Mosé, come segno di predilezione di Israele (cfr
Esodo 19, 1 – 20, 21), ma anche la costruzione ed erezione del santuario,
con l’indicazione dei materiali da utilizzare e la descrizione minuziosa
degli arredi e dei paramenti sacerdotali, che occupa ben sedici capitoli del
libro dell’Esodo (cc. 25-31 e 35-40). È evidente che l’organizzazione del
culto mediante le prescrizioni dei riti, comprensive delle indicazioni
relative agli oggetti funzionali alla esecuzione di questi ultimi con
precisione e splendore, è considerata nella Sacra Scrittura il mezzo più
importante per realizzare l’incontro di Dio con il suo popolo.
In ciò certamente Israele, rispetto agli altri popoli con i quali era in
contatto non ha portato nella forma del culto innovazioni decisive. Esso
attingeva sostanzialmente al sentimento religioso universale che porta
l’uomo a rivolgersi alla divinità offrendole i frutti migliori del proprio
lavoro come ringraziamento e come invocazione; un sentimento riflesso nei
sacrifici di Caino e di Abele descritti nella Genesi (4, 3-5). La novità
assoluta del culto giudaico consisteva piuttosto nel fatto che esso fosse
rivolto ad un unico Dio e che contenesse in sé i germi di una sua
spiritualizzazione che, annunciata dai profeti (Ezechiele, Geremia, Michea),
si sarebbe realizzata in Cristo.
1.2 Culto in spirito e verità nella Nuova Alleanza
Durante il Suo incontro con la donna di Samaria presso il pozzo di Giacobbe,
Gesù dichiara che “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori
adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali
adoratori” (Giovanni 4, 23).
Come spesso nel Vangelo secondo Giovanni, che i Padri della Chiesa hanno
denominato “il Vangelo spirituale”, si possono cogliere alcuni sensi
complementari.
In primo luogo, il culto cristiano è distinto dal culto dei samaritani e
degli ebrei, perché esso è “in spirito”, cioè non è limitato ad un singolo
santuario, come il monte Garizim per i samaritani ed il tempio di
Gerusalemme per gli ebrei. Questo non significa che, sotto il Vangelo, non
ci debbano essere riti e cerimonie, nessun culto pubblico o nessun edificio
sacro. Una tal conclusione sarebbe sbagliata, anche solo per il fatto che
quasi duemila anni della Traditio Ecclesiae parlano contro di esso. Il
Signore non ha detto alla donna samaritana che non ci dovrebbero essere
luoghi ed edifici per il culto nella Nuova Alleanza; così nella profezia
sulla distruzione del tempio, il Maestro divino non afferma per nulla che
non si dovrebbe costruire mai più un’altra casa in onore di Dio, ma
piuttosto che ci dovrebbero essere molte case. Questa verità ha trovato una
bella espressione in un sermone del cardinale John Henry Newman: “La gloria
del Vangelo non è l’abolizione dei riti, ma la loro diffusione; non la loro
assenza, ma la loro presenza vivente ed efficace per la grazia di Cristo”.5
In secondo luogo, tornando al discorso di Gesù, il culto cristiano è “in
verità”, perché non è compromesso dagli errori di idolatria e di
sincretismo, che hanno contagiato i samaritani. C’è una regola antica,
risalente al quinto secolo, che è citata spesso nella formula: lex orandi,
lex credendi. Dovremmo essere prudenti circa l'interpretazione di questo
principio, dato che la fede non viene dalla liturgia, piuttosto la
celebrazione dei misteri della fede presuppone l’annuncio del Vangelo. Ciò
nonostante, il culto pubblico è espressione e testimonianza della fede
infallibile della Chiesa e dovrebbe aiutare a comprendere in senso profondo
che i nostri desideri e le nostre aspirazioni verso tutto quello che è
buono, che è vero, che è bello, sono radicati ed esauditi nella realtà
trascendente di Dio.
Il culto “in spirito e verità” propugnato da Gesù, non è mai stato avvertito
dalla Chiesa come una rinuncia alla forma esteriore di adorazione e di lode
a Dio; si deve piuttosto intendere il cristianesimo come una religione in
cui gli aspetti esteriori sono espressione della purezza del cuore e delle
virtù.
1.3 Considerazioni teologico-antropologiche
San Tommaso d’Aquino è molto chiaro nell’osservare che dobbiamo rendere
onore a Dio non solo in spirito. Poiché gli uomini sono creature corporee, i
sensi sono sempre coinvolti. Poiché la mente umana conosce l'invisibile per
mezzo del visibile, ne consegue che “nel culto divino è necessario usare le
cose corporee, che la mente dell'uomo viene mossa dai segni a compiere
quegli atti spirituali per mezzo dei quali si compie l’unione con Dio”.6
Non siamo “puri spiriti”, ma siamo fatti di anima e di corpo, è per questo
motivo che abbiamo bisogno dei segni sensibili per purificare il nostro
cuore e nutrire il nostro desiderio di unione con il Dio invisibile.
Comunque, S. Tommaso riconosce che il fine della liturgia è l'offerta
spirituale compiuta da coloro che partecipano ad essa. Ma l'unione del corpo
e dell'anima è tale che l'espressione interna dell'anima, se è genuina,
cerca allo stesso tempo una manifestazione corporea esterna. La vita interna
è sostenuta dagli atti esterni, atti liturgici. Il Doctor communis osserva:
“Le cose esterne sono offerte a Dio, non come se aveste bisogno di esse … ma
come segni delle opere interne e spirituali, che sono accettabili a Dio”.7 È
alla volontà provvidenziale di Dio che dovremmo offrire i segni visibili
della nostra offerta spirituale, perché è dai segni esterni che gli esseri
umani, come creature corporee, comunicano.8
In questo senso, il decreto del Concilio di Trento sul sacrificio della S
Messa, in un passaggio importante del suo primo capitolo, citato poi nel
Catechismo della Chiesa Cattolica, dichiara: “[Cristo] Dio e Signore nostro
… nell’ultima Cena, la notte in cui fu tradito (1 Cor 11,23), [volle]
lasciare alla Chiesa, sua amata Sposa, un sacrificio visibile (come esige
l’umana natura), con cui venisse significato quello cruento che avrebbe
offerto una volta per tutte sulla croce, prolungandone la memoria fino alla
fine del mondo, e (1 Cor 11,23), applicando la sua efficacia salvifica alla
remissione dei nostri peccati quotidiani”.9
Ciò che interessa specificamente la nostra riflessione è la descrizione del
sacrificio eucaristico come “visibile”, a cui il Concilio aggiunge la
proposizione “come esige l’umana natura”. Nel quinto capitolo dello stesso
decreto questa proposizione è così spiegata: “E perché la natura umana è
tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine
senza accorgimenti esteriori, per questa ragione la Chiesa, pia madre, ha
stabilito alcuni riti … . Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le
benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molto altri
elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui
viene messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti
dei fedeli vengono attratte da questi segni visibili della religione e della
pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo
sacrificio”.10
L’Ultima Cena di Gesù con gli Apostoli non è una semplice cena; è necessario
comprendere che si tratta della Cena in cui Cristo offre se stesso
anticipando il suo sacrificio del Calvario e istituendo per noi il
sacramento del suo corpo e del suo sangue. Per tale motivo occorre prestare
attenzione a non banalizzare la celebrazione dell’Eucaristia. In tal senso
anche l’arte sacra deve aiutare a far capire che si tratta del sacrificio di
Dio fatto uomo, evitando che le cose attorno all’altare siano banali, come
anche i canti e la musica
1.4 Insegnamenti del Magistero e testimonianza dei Santi
Nella sua ultima Enciclica
Ecclesia de Eucharistia, il Servo di Dio Giovanni
Paolo II, alla parte teologica, in cui è spiegato il fondamento teologico
del Sacramento, fa seguire una parte liturgico-artistica in un capitolo
intitolato “Decoro della celebrazione liturgica” (nn. 47-52), in cui vengono
impartite indicazioni molto importanti per la relazione fra liturgia ed
arte.
L’Enciclica afferma che Cristo stesso ha voluto il decoro: per questo si
ricordano la preparazione della sala per l’ultima Cena (cf Marco 14, 15;
Luca 22, 12) e l’Unzione di Betania (cf Matteo 26, 8 e paralleli), che
anticipa l’istituzione dell’Eucarestia. In quest’ultimo episodio, una donna,
identificata con Maria sorella di Lazzaro, unge il Signore con olio
profumato preziosissimo. Di fronte all’obiezione scandalizzata di Giuda e
nella quale non è difficile ravvisare molti atteggiamenti della demagogia
dei nostri tempi “Si potrebbe con quei soldi aiutare tanti poveri”, Gesù
osservò che mentre i poveri li avrebbero avuti sempre con sé non così Lui,
mostrando di apprezzare molto quel gesto della donna, perché compiuto con
amore nei confronti della Sua persona. È l’affermazione della bontà del
decoro!
Altrove il Papa cita il passo di san Giovanni Crisostomo, in cui si afferma
che il decoro non è lusso, e deve sempre essere rapportato ad una povertà
essenziale: certamente non è giusto avere calici preziosi e innalzare
colonne d’oro, se Cristo muore nel povero sulla strada. Tuttavia la Chiesa è
sempre stata sia amante del decoro, sia operosa nella carità. È quanto mai
eloquente rilevare come i grandi Santi della carità e della povertà
evangelica si siano sempre distinti per l’amore allo splendore del culto
divino. Questo fa riflettere, osservare ed anche trarre delle conseguenze.
La Chiesa, si legge nell’enciclica
Ecclesia de Eucharistia, “non ha temuto
di ‘sprecare’, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo
stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia ”, di
spendere denaro per la bellezza e il decoro. Lo scopo è lo “stupore adorante
di fronte al dono incommensurabile”.11 Il decoro ha il fine di suscitare
ammirazione per il mistero contenuto nel Sacramento dell’Altare.
Che sia un falso problema contrapporre il valore del spirito di povertà alla
preziosità degli arredi lo mostra, tra gli altri, San Francesco, il
“poverello” di Assisi, che sempre raccomandò ai suoi frati il massimo
rispetto della parola e del corpo del Signore, da esprimersi anche con
l’utilizzo di vasi preziosi. Raccomandava infatti nel suo Testamento (1226):
“E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati,
venerati e collocati in luoghi preziosi. E dovunque troverò i nomi
santissimi e le sue parole scritte in luoghi indecenti, voglio raccoglierle,
e prego che siano raccolte e collocate in luogo decoroso”;12 mentre le sue
biografie riportano che “essendo colmo di reverenza per questo venerando
sacramento […] volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose,
perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della
redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro”.13
Il decoro è ovviamente, innanzi tutto, un atteggiamento interiore, e l’arte
rientra a pieno titolo in esso, perché nell’arte si esprime la percezione
della Bellezza ed è al servizio del contenuto. Il decoro sacro è concepito
per facilitare la preghiera e lo stupore per il mistero contenuto. Da questa
stessa sorgente è nata la liturgia cristiana, che scaturisce dal convito e,
quindi, da un clima di festa e di bellezza. Proprio dal desiderio di
manifestare esternamente l’interiore atteggiamento di devozione, la Chiesa
ha prodotto un ricchissimo patrimonio d’arte, che costituisce una
testimonianza di fede in grado di parlare un linguaggio universale
attraverso i tempi.
L’atteggiamento della Chiesa, di mettere a disposizione del culto quanto di
più bello e prezioso è possibile produrre, al fine di preparare un ambiente
degno dei grandi misteri che in esso vengono celebrati, trova preziosa
conferma in Gesù stesso. Il Salvatore ha voluto che per l’Ultima Cena i
discepoli andassero a preparare quanto occorreva nella casa di un amico che
aveva una “sala grande e addobbata” (Luca 22,12). L’enciclica
Ecclesia de
Eucharistia commenta: “Non meno dei primi discepoli incaricati di
predisporre la ‘grande sala’, essa si è sentita spinta lungo i secoli e
nell’avvicendarsi delle culture a celebrare l’Eucaristia in un contesto
degno di così grande mistero”.14
Pertanto, anche gli arredi, le suppellettili, i paramenti e gli stessi
edifici sacri, pur essendo oggetti materiali, rientrano in tale visione
spirituale del culto cristiano che, in virtù del mistero dell’Incarnazione
di Cristo, non disprezza la materia, ma la considera luogo della
manifestazione della gloria di Dio. Si comprende allora come san Giovanni
Damasceno abbia giustificato la venerazione delle immagini e l’uso delle
sacre suppellettili:
“Ecco anche la materia diviene pregiata, essa che presso di voi è
disprezzata. Che cosa è più volgare dei peli di capra e dei colori? O forse
non sono colori il cremisi, la porpora ed il giacinto? Ed ecco anche le
opere delle mani dell’uomo e le figure dei cherubini: ed inoltre, anche
tutto il tabernacolo era un’immagine. Infatti, guarda – dice Dio a Mosé – ed
esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. E tuttavia esso
è venerato d’ogni intorno da tutto Israele. E che cosa dovrei dire dei
cherubini? Non erano dinanzi allo sguardo del popolo? E l’arca, il
candelabro, la tavola, l’urna d’oro e la verga, che il popolo guardava e
venerava? Io non venero la materia, ma venero il Creatore della materia che
per causa mia è diventato materia, ha preso dimora nella materia e
attraverso la materia ha operato la mia salvezza”.15
Per fedeltà alla divina Rivelazione e alla perenne Traditio Ecclesiae, è
certamente urgente porre fine a discorsi ed atteggiamenti demagogici, a
forme varie di pauperismo e di intellettualismo o di archeologismo, per
seguire piuttosto l’esempio dei Santi. È ora anche, nei confronti del
Dio-con-noi, che è nel Santissimo Sacramento dell’altare, di lasciar parlare
il cuore, di rispondere all’Amore con il linguaggio dell’amore. Allora –
come è sempre accaduto – alla dignità del culto divino, alla devota maestà
di tutto ciò che ne è l’espressione, conseguirà il fervore della carità
verso il prossimo. La carità dimostra la verità del culto e la dignità del
culto dimostra la verità della carità.
Per tale motivo la Chiesa, nelle varie disposizioni in materia di
celebrazione e di culto eucaristico, non omette mai di raccomandare la
preziosità dei vasi sacri destinati ad accogliere il corpo e il sangue del
Signore durante la S. Messa (calice, patena, pisside) e durante l’adorazione
eucaristica (ostensorio, teca). Recentemente la Congregazione per il Culto
divino e la disciplina dei Sacramenti ha emanato una istruzione “su alcune
cose che si devono osservare ed evitare circa la santissima Eucaristia” in
cui, tra l’altro, ricorda che tali oggetti devono essere forgiati con
materiali considerati nobili a seconda delle varie regioni e culture
(pertanto l’oro o altri metalli preziosi, ma anche pietre dure, legni
pregiati ecc.) ed evitati contenitori di uso comune o privi di qualsiasi
valore artistico (come cestini, vasi di vetro, di argilla o di altro
materiale fragile o poroso), e questo perché “con il loro uso si renda onore
al Signore e si eviti completamente il rischio di sminuire agli occhi dei
fedeli la dottrina della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche”.16
Questi non sono solo consigli, ma disposizioni da porre in pratica
universalmente. Disposizioni molto, molto disattese. Non credo sarebbe
pastoralmente utile produrre Istruzioni per spiegare o attuare l’Istruzione
o e poi applicare il sistema diffuso del silenziatore.
2. Orientamenti pratici
Consideriamo ora tre aspetti del modo nel quale la liturgia incide
sull’arte: immagini sacre, musica sacra e lingua sacra.
2.1 Immagine sacre
Il messaggio evangelico non è solo verbale, perché il Verbo si è fatto carne
(Gv 1,14). Le Sacre Scritture annunciano che il Cristo è “immagine del Dio
invisibile” (Col 1, 15), “irradiazione della … gloria [del Padre] e impronta
della sua sostanza” (Eb 1,3). Gesù stesso afferma “chi vede me, vede il
Padre” (Gv 14,9): cioè, nel mistero della persona di Cristo rifulge in forma
sensibile l’intera realtà divina, consegnando alla fede cristiana un
insostituibile contenuto visivo. Nell’Incarnazione, l’invisibile vita di Dio
si è fatta “visibile” agli uomini, come risposta alle esigenze della natura
umana. In una conferenza pronunciata nel 1981, l'allora cardinale Joseph
Ratzinger diceva: “Per accostarsi al mistero di Dio l'uomo ha bisogno di
vedere, di fermarsi a vedere, e di fare sì che tale vedere divenga un
toccare. Egli deve salire la 'scala' del corpo, per trovare su di essa la
strada alla quale la fede lo invita”.17 Il Verbo che si è fatto visibile
diventò pertanto il volto o l’icona di Dio. L’importanza dell’arte sacra
della tradizione liturgica e devozionale dei cristiani va colta proprio in
questa prospettiva.
Il mistero del Verbo fatto carne fornisce la base e l’argomentazione del
culto delle immagini. La rappresentazione di Dio - superando l'esplicito
divieto dell'Antico Testamento (cf Es 20, 4 e Dt 5, 8) - nella Nuova
Economia è resa possibile dall'Incarnazione del Figlio di Dio. Dio stesso ha
fatto la sua immagine, Gesù Cristo. Nell’Incarnazione, l’invisibile vita di
Dio è diventata visibile agli uomini avviando l’ininterrotta serie di
stagioni che hanno raccolto le opere dei più grandi artisti.
Eppure, nella storia della Chiesa, non sono mancate discussioni e polemiche
su questo culto. Al periodo delle persecuzioni fece seguito il periodo della
costruzione delle grandi basiliche e si accese la discussione sulle sacre
immagini, poiché si paventava il rischio dell’idolatria. Non si può
dimenticare al riguardo il Sinodo di Elvira (304) quando afferma: Picturas
in ecclesia esse non debere, ne quod colitur et adoratur in parietibus
depingatur. Ricordiamo anche la teologia anti-iconica di Eusebio di Cesarea
nella sua lettera all’imperatrice Costanza. Questa lettera fu una delle
testimonianze patristiche di ostilità alle immagini, che gli iconoclasti di
Bisanzio, nell’ottavo secolo, usavano per appoggiare la propria lotta. Nella
teologia di Eusebio, il grande storico della Chiesa, esiste veramente una
connessione tra la sua opposizione all’icona di Cristo, il suo pensiero
generale sull’immagine e la sua concezione molto spiritualistica dei
sacramenti. Si nota che la questione delle immagini sacre è, in fondo, una
questione teologica. Il fenomeno iconoclastico è presente in vari periodi
della storia del cristianesimo; oltre a quello del movimento iconoclasta
bizantino, risultato di molte e complesse cause, non dimentichiamo quello
del calvinismo all’inizio dell’età moderna; anche il XX secolo ha conosciuto
scuole di teologia sprezzanti nei confronti delle rappresentazioni
figurative nell’arte sacra. In ogni caso, movimenti iconoclasti sono sempre
sintomatici di una crisi di fede nel mistero dell’Incarnazione.
Tuttavia il sensus fidei dei cristiani, la riflessione teologica, il
Magistero della Chiesa e gli esempi dei Santi sono sempre stati a favore
dell’arte e dell’iconografia. I papi dell’VIII e IX secolo diedero il
proprio appoggio al decreto del Concilio di Nicea II (787) che dichiarava
legittimo il possesso e la venerazione delle immagini di Cristo, della
Vergine, degli Angeli e dei Santi. Da san Gregorio Magno ai teologi
scolastici (san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura da Bagnoregio, Guglielmo
Durando) si sviluppò un discorso di legittimazione che riconosceva alle
immagini un triplice ruolo: mistagogico o memorialistico (esse ricordano),
didattico (esse insegnano), affettivo (esse commuovono).
In primo luogo, le immagini mistagogiche sono capaci di presentare
sinteticamente il mistero di Cristo (Incarnazione, Passione, Risurrezione,
Parusia); la croce monumentale assolve a questo scopo, ma la tradizione
iconografica ci presenta altri modelli (Ascensione, Pantocrator,
Trasfigurazione ecc.); tali immagini sono adatte ad essere collocate sulla
parete di fondo del presbiterio, per costituire un sacro fondale alla
celebrazione eucaristica. A queste la tradizione ha affiancato immagini
simboliche evocanti il sacrificio della S. Messa (come l’Agnello
dell'Apocalisse).
In secondo luogo, sono importanti anche le immagini didascaliche,
preferibilmente di soggetto biblico, organizzate in un programma
iconografico pensato per trasmettere un contenuto catechetico di
illustrazione della storia della salvezza. In questa categoria possono anche
rientrare i programmi decorativi degli arredi sacri (altare, ambone,
battistero ecc.), con episodi adatti, scelti dal Vecchio e dal Nuovo
Testamento sulla base, ad esempio, della lettura tipologica (o profezia).
La terza categoria è quella delle immagini devozionali, che comprende una
tipologia molto variegata. Vi si trovano infatti le immagini di Cristo
(Sacro Cuore, Crocifisso miracoloso ecc.), della Vergine e dei Santi,
patroni della città o della chiesa o comunque venerati da quella comunità
cristiana; oggetto di culto pubblico e di devozione privata, ci ricordano la
comunione con la Chiesa celeste.
Mi sembra che sia ancora attuale quanto dice Pio XII nella Mediator Dei
ove
raccomanda di evitare “con saggio equilibrio l’eccessivo realismo da una
parte e l’esagerato simbolismo dall’altra, tenendo conto delle esigenze
della comunità cristiana, piuttosto che del giudizio e del gusto personale
degli artisti”(IV,2).
2.2 Musica sacra
La tradizione ecclesiale ha sempre affermato che il canto e la musica sacri,
nell’offrire gloria a Dio nella solennità delle celebrazioni, favoriscono la
preghiera e la partecipazione attiva ai santi misteri di quanti vi
assistono, unendoli alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa. Nel
santificare i fedeli e nell’educarne il gusto, il canto sacro rende anche
esplicita la misteriosa unità del corpo mistico. Sant’Agostino descrive
nelle sue Confessioni la viva commozione provata a Milano nel partecipare a
celebrazioni in cui i fedeli eseguivano il canto dei salmi e degli inni di
sant’Ambrogio.18 In un suo sermone lo stesso sant’Agostino dice: “L’uomo
nuovo sa qual è il cantico nuovo. Il cantare è espressione di gioia e, se
pensiamo a ciò con un po’ più di attenzione, è espressione di amore”.19
Numerosi documenti pontifici e conciliari dell’ultimo secolo hanno
richiamato alla celebrazione dei divini uffici solennemente e in canto, alla
presenza attiva dei fedeli.20 Si deve però purtroppo osservare che, negli
ultimi anni, forse sottovalutando l’apprendimento e il gusto estetico di
un’assemblea che, fino a poco tempo prima, conosceva bene e a memoria
melodie gregoriane, abitualmente siano invece proposti canti e canzoni,
peraltro neppure coinvolgenti l’assemblea, spesso mancanti nella forma e nel
contenuto. Da parte sua, peraltro, il Magistero non richiede un’indistinta
partecipazione di tutto il popolo nell’esecuzione di un repertorio spesso
anche complesso, ma ritiene che dal buon coordinamento di tutti, ciascuno
secondo i propri compiti e ministeri, “scaturisca quel giusto clima
spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e
fruttuoso”.21 Andrebbe anche chiarito cosa debba intendersi correttamente
per partecipazione attiva: in sintesi, non si tratta semplicemente di
prendere parte alla liturgia ma di avere coscienza di appartenere a Cristo,
d’essere parte del Corpo ecclesiale di cui Cristo è il Capo.
Il canto gregoriano, intimamente unito alle fonti bibliche, patristiche e
liturgiche, fa parte della lex orandi, che si è forgiata sull’arco di più di
quindici secoli. Che l’assemblea dei fedeli, nella celebrazione della sacra
liturgia, e specialmente nella Santa Messa, partecipi cantando in gregoriano
le parti che le spettano, è non solo possibile, ma è anzitutto auspicabile.
Non è una opinione personale, ma è il pensiero della Chiesa! Si veda a tal
proposito l’ampia documentazione che va dal
Motu proprio Tra le
sollecitudini di San Pio X fino ai giorni nostri, passando attraverso Pio XII (Musicae sacrae disciplina), il cap. VI della Costituzione sulla
Liturgia del Vaticano II, la successiva Istruzione dell’allora Congregazione
dei Riti del 1967, e il chirografo di Giovanni Paolo II del 2003,
commemorativo del centenario del Motu proprio Tra le sollecitudini.
Nella sua Esortazione Apostolica Post-Sinodale
Sacramentum Caritatis,
Benedetto XVI afferma: “La Chiesa, nella sua bimillenaria storia, ha creato,
e continua a creare, musica e canti che costituiscono un patrimonio di fede
e di amore che non deve andare perduto. Davvero, in liturgia non possiamo
dire che un canto vale l’altro. A tale proposito, occorre evitare la
generica improvvisazione o l’introduzione di generi musicali non rispettosi
del senso della liturgia. In quanto elemento liturgico, il canto deve
integrarsi nella forma propria della celebrazione. Di conseguenza tutto -
nel testo, nella melodia, nell’esecuzione - deve corrispondere al senso del
mistero celebrato, alle parti del rito e ai tempi liturgici. Infine, pur
tenendo conto dei diversi orientamenti e delle differenti tradizioni assai
lodevoli, desidero, come è stato chiesto dai Padri sinodali, che venga
adeguatamente valorizzato il canto gregoriano, in quanto canto proprio della
liturgia romana”.22
Il canto gregoriano assembleare non solo può ma deve essere ripristinato,
accanto a quello della schola e dei celebranti, se si vuole il rispetto
dell’insegnamento del Vaticano II, il ritorno alla serietà della liturgia,
alla santità, alla bontà delle forme e all’universalità che devono
caratterizzare ogni musica liturgica degna di questo nome, come insegna San
Pio X e ribadiscono sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI. Credo si
potrebbe iniziare dalle acclamazioni, dal Pater noster, dai canti
dell’ordinario della S. Messa, specie il Kyrie, il Sanctus, l’Agnus Dei. In
molti paesi il popolo conosceva bene il Credo III e l’intero ordinario della
messa VIII (de Angelis), e non solo! Come sapeva pure il Pange lingua, il
Veni Creator, la Salve Regina e altre antifone. L’esperienza insegna che il
popolo, a seguito di un semplice invito, si mette a cantare anche la Missa
brevis e altre melodie gregoriane facili, che ha nell’orecchio, anche se è
la prima volta che le canta. C’è un repertorio minimo da imparare, contenuto
nel famoso “Jubilate Deo” di Paolo VI, ma dove è finito?, o nel “Liber
cantualis”, ma dove è finito? Se si abitua il popolo a cantare quel
repertorio gregoriano che gli si confà, sarà allenato a imparare anche i
canti nuovi nelle lingue vive; quei canti, si intende, degni di stare
accanto al repertorio gregoriano, che dovrebbe conservare sempre il primato.
La questione è che devono cadere i pregiudizi ideologici!
Senza il canto gregoriano la musica di chiesa è mutilata. Non può esserci
musica di chiesa, nella Chiesa latina, senza canto gregoriano. I grandi
maestri della polifonia sono ancora più grandi quando si basano sul canto
gregoriano, mutuandone le tematiche, la modalità e la poliritmia. Per questo
spirito che ne informa la raffinata tecnica, per questa fedele aderenza al
testo sacro e al momento liturgico, sono stati grandi Palestrina, di Lasso,
da Victoria, Guerrero, Morales, e via dicendo. E non solo nelle composizioni
complesse o corali, ma anche nel creare nuove melodie, in latino o in
volgare, sia per la liturgia che per gli atti devozionali. Il vero canto
popolare sacro - peraltro preziosissimo - tanto più sarà valido e
sostanzioso quanto più si ispirerà al canto gregoriano. Giovanni Paolo II ha
fatto integralmente suo il noto principio di San Pio X: “Una composizione di
chiesa è tanto più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento,
nell’ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto
meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce
difforme”.23
Il canto gregoriano riecheggerà suadente, e amalgamerà il popolo nel vero
senso della cattolicità. E lo spirito del canto gregoriano informerà le
composizioni di nuovo conio, e guiderà col vero sensus Ecclesiae gli sforzi
di una retta inculturazione. Bisogna ricordare che questa musica era
insolita anche alle orecchie di Carlo Magno o di san Tommaso d’Aquino, di
Monteverdi o di Haydn. Ed era tanto estranea ai tempi loro quanto lo è ai
nostri giorni. Oggi, tuttavia, si è meglio disposti verso la musica di altre
culture di quanto non lo fossero i cristiani di molti secoli fa. Anzi, direi
che le melodie delle varie tradizioni locali, anche di paesi lontani e di
cultura ben diversa dalla nostra, sono parenti prossimi del canto
gregoriano, e anche in questo senso il canto gregoriano è veramente
universale, a tutti proponibile, e capace di fare da ponte, nel rispetto
dell’unità e della pluralità. D’altronde sono proprio questi paesi lontani,
queste culture che si sono affacciate di recente sull’orizzonte della Chiesa
cattolica ad insegnarci l’amore per il canto tradizionale della Chiesa.
L’educazione ecclesiale autentica va sempre nel senso della continuità e
tale continuità è ben lungi dall’essere fissismo. Si cammina “in eodem sensu”
e si cammina arricchendosi, non depauperandosi.
2.3 Lingua sacra
Non voglio chiudere queste riflessioni sugli aspetti liturgici che incidono
sull’arte senza far notare una delle numerose brevi opere letterarie che la
liturgia stessa contiene. Intendo le orazioni del rito romano, soprattutto
quelle antiche della domenica. Il latino liturgico era un fortuito
combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della
Rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel
mondo romano. Dato che il latino del Canone Romano e delle orazioni della S.
Messa era una lingua fortemente stilizzata e rimossa dall’idioma della gente
comune, non si tratta semplicemente di un’adozione della lingua “vernacola”
nella liturgia. La forza unificatrice del papato era tale che il latino
divenne l’unica lingua liturgica dell’Occidente. Questo fu un fattore
importante per favorire la sua coesione ecclesiastica, culturale e politica.
Queste composizioni hanno un valore artistico-letterario che è ben
apprezzato anche dai filologi. Un autorevole dizionario tedesco di
letteratura dice: “Gran parte delle orazioni … e dei prefazi è stata
tramandata nei sacramentari del V e VII secolo. In tutti questi testi –
soprattutto da una prospettiva strettamente letteraria – è presente la
sostanza del Missale Romanum: creazioni di alta espressività teologica,
modellate sulle regole della prosa letteraria della tarda latinità. Forme di
una monumentale semplicità e di un’affascinante precisione. Esse, conservate
essenzialmente immutate, sono di una tale perfezione da essere ancor oggi la
forma di preghiera della Chiesa cattolica”.24
Le orazioni mantengono una classica generalità, perché esse sono la
preghiera pubblica della Chiesa per tutta l’umanità, tuttavia hanno un
contenuto che riesce a toccare anche il singolo lettore, perché in esse la
Chiesa esprime la sua confidenza nella Grazia di Dio, che solo può aprire il
cuore dell’uomo peccatore. Perciò, quelle orazioni succinte quanto
sostanziose costituiscono una scuola di sensibilità sacramentale.
Quindi non sorprende che la Chiesa riaffermi il valore perenne della lingua
latina nella liturgia. Come dice il Santo Padre nella sua recente
Esortazione Apostolica Post-Sinodale: “Più in generale, chiedo che i futuri
sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a
celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a
eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi
fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come
anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia”.25 Solo che quanto
il Santo Padre chiede dovrebbe subito diventare prassi. La “communio” deve
essere effettiva non solo “applauditiva”. Già il Vaticano II chiedeva che
tutti i fedeli sapessero rispondere anche in latino. È un “anche” e non un
“solo”. Tutto si può fare con equilibrio e senza fanatismi di sorta e senza
polemiche. Questo è lo stile ecclesiale. Ma cosa è successo della richiesta
del Concilio?
In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua
liturgica comune serve come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte
il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico, che ha
alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario
preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione
vernacola, come fa notare l’istruzione della Congregazione per il Culto
Divino Liturgiam authenticam del 2001.26
3. Conclusione
Infine, vorrei sottolineare la necessità di formazione iniziale e
permanente, innanzitutto del clero, a seguito di una serie di documenti del
Magistero, dal Decreto del Concilio Vaticano II sulla formazione sacerdotale
Optatam totius alla recente Esortazione Apostolica Postsinodale
Sacramentum
Caritatis del Santo Padre Benedetto XVI.27 Certamente il primo lavoro da
fare riguarda la formazione dei candidati al sacerdozio, chiamati ad essere
promotori delle arti sacre. Purtroppo sempre più diffusamente si constata
una carenza quanto mai grave, di una vera educazione alla grande tradizione
artistica della Chiesa, anzi talvolta della più elementare formazione
musicale e il prosperare di banalità, di cattivo gusto, di rozzezza, di
superficiali giovanilismi. Anche la formazione permanente del clero ad
un’autentica comprensione ed utilizzazione dei beni culturali e artistici in
senso ecclesiale è un’esigenza del nostro tempo. Naturalmente ogni cosa
bella e buona ha un costo. Sebbene sia molto importante la buona volontà, a
volte questa non basta. Per ottenere buoni risultati, è necessario investire
delle risorse, soprattutto nella formazione, nella quale vanno impiegati
veri professionisti, anche a tempo pieno. Dobbiamo ricordare che la
formazione artistica e musicale del clero non è un lusso, ma fa parte
dell’ars celebrandi. Così si serve anche alla santificazione del clero
nell’esercizio stesso del sacro ministero.
La liturgia, con l’arte e la musica sacre, serve a far incontrare l’uomo con
la bellezza della fede: “Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri
dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del
superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una
purificazione del cuore, ci rivela la Bellezza, o almeno un raggio di essa.
Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità…la vera
apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua
verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la
bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere
dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare
i santi, a entrare in contatto col Bello”(Joseph Ratzinger, Intervento al
Meeting di Rimini 2002).
+ Mauro Piacenza
Arcivescovo tit. di Vittoriana
Segretario della Congregazione per il Clero
1 Sacrosanctum Concilium, 122.
2 Gaudium et spes, 36.
3 Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Post-Sinodale Sacramentum Caritatis,
22 febbraio 2007, 35.
4 T. Verdon, Vedere il mistero. Il genio artistico della liturgia cattolica,
Milano 2003, p. 13.
5 J. H. Newman, Parochial and Plain Sermons VI, 19: ‘The Gospel Palaces’,
San Francisco 1997, p. 1355: “The glory of the Gospel is not the abolition
of rites, but their dissemination; not their absence, but their living and
efficacious presence through the grace of Christ”.
6 S.Th. II-II, q. 81, a. 7
7 S.Th. II-II, q. 81, a. 7, ad 2.
8 Cfr III, q. 61, a. 1.
9 Concilio di Trento, Sessione XXII (1562), DS 1740; citato in CCC, 1366.
10 Concilio di Trento, Sessione XXII (1562), DS 1746.
11 Ecclesia de Eucharistia, 48.
12 Fonti Francescane, pp. 131-132.
13 Tommaso da Celano, Vita seconda, in Fonti Francescane, p. 713.
14 Ecclesia de Eucharistia, 48.
15 San Giovanni Damasceno, Difesa delle immagini sacre 2, 14: Es 25, 31-40.
16 Congregazione per il Culto Divino, Redemptionis Sacramentum, 24 aprile
2004, n. 117.
17 J. Ratzinger, Il Mistero pasquale. Contenuto e fondamento profondo della
devozione al Sacro Cuore di Gesù, in Id., Guardare al Crocifisso. Fondazione
teologica di una cristologia spirituale, Milano 1992, pp. 43-61, part. p. 49
(Conferenza al Congresso sul Sacro Cuore di Gesù, Toulouse, 24-28 luglio
1981).
18 Sant’Agostino, Confessioni IX, 7, 15-16.
19 Sant’Agostino, Sermo 34, 1.
20 Sacrosanctum Concilium, 113
21 Giovanni Paolo II, Chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo
desiderio, 23 novembre 2003.
22 Sacramentum Caritatis, 42; Cfr. Sacrosanctum Concilium, 166; Ordinamento
Generale del Messale Romano, 41.
23 Tra le Sollecitudini 3; Mosso dal vivo desiderio, 12.
24 Kindlers Literaturlexikon, vol. IV (1968), col. 2721.
25 Sacramentum Caritatis, 62.
26 Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Quinta
Istruzione “per la retta Applicazione della Costituzione sulla Sacra
Liturgia del Concilio Vaticano II” (Sacrosanctum Concilium, art. 36).
Liturgiam authenticam: L’Uso delle Lingue Vernacole nella Pubblicazione dei
Libri della Liturgia Romana, Città del Vaticano 2001.
27 Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam
totius, 6; Codice di Diritto Canonico, can. 241, § 1 e can. 1029; Codice dei
Canoni delle Chiese Orientali, can. 342, § 1 e can. 758; Giovanni Paolo II,
Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992) 11.34.50;
Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei
presbiteri Dives Ecclesiae (31 marzo 1994), 58; Sacramentum Caritatis, 21