Uno dei compiti principali del pastore
d'anime, o diciamo semplicemente del
sacerdote, è quello di presiedere e di
iniziare alla liturgia. Ma questo è
possibile solo se, a sua volta, egli è stato
introdotto alla sua comprensione, o alla sua
teologia e spiritualità; solo se ha capito
il mistero che è chiamato a celebrare e
illustrare, facendone il cuore stesso del
suo ministero.
Possiamo ancora una volta ricordare il
diffuso affanno con cui si va alla ricerca
di strategie inedite per l'evangelizzazione
e la formazione cristiana: in realtà la più
efficace, la più valida e, aggiungiamo, la
più nuova rimane quella che da sempre
accompagna, per istituzione divina, la vita
della Chiesa, cioè la celebrazione dei santi
misteri, che segue e traduce
l'evangelizzazione e l'accoglienza della
fede.
Se la liturgia risulta priva d'interesse e
non avvincente, la ragione non sta nel
contenuto che si sia logorato: l'occhio e la
sensibilità della fede lo avverte sempre
vivido ed esuberante.
Solo che quest'occhio e questa sensibilità
devono anzitutto contrassegnare lo spirito e
lo stile di colui che celebra.
Penso, in questo momento, a un grande
liturgo che la Chiesa ebbe nel secolo
passato, il cardinale Ildefonso Schuster,
arcivescovo di Milano, che edificava solo al
vederlo celebrare. "La sua presenza dava a
ogni celebrazione guidata da lui il senso
quasi fisicamente percepibile della realtà
salvifica che l'azione sacra efficacemente
evocava. Non era un colosso, eppure la sua
presidenza veniva percepita come qualcosa di
determinante e di intenso.
La gente semplice correva a contemplare
quest'uomo esiguo e fragile che, nelle vesti
del liturgo, diventava un gigante. I suoi
gesti erano sempre sciolti e misurati: non
c'era niente di teatrale nella sua
attitudine. Eppure il suo era davvero uno
spettacolo, al tempo stesso spontaneo e
affascinante. Intento insieme e assorto, era
agli occhi di tutti un testimone eloquente
dell'invisibile.
Si immergeva con naturalezza nel mondo del
trascendente; tanto da sembrare più spaesato
fuori, nella dimensione comune e secolare
dell'esistenza. Non aveva bisogno di
attardarsi nelle locuzioni e nei gesti per
dare spessore e significanza ai riti.
Nessuno era più sollecito di lui, che si
muoveva entro i sacri misteri con la
disinvoltura di chi si sente a casa. Niente
perciò di quanto poteva dire o fare
acquistava agli occhi dei fedeli maggiore
rilevanza di questo "magistero visivo".
Ciò che contava, ciò che era più prezioso,
ciò che in definitiva si iscriveva nei
cuori, era la sua testimonianza sacerdotale,
che diventava per tutti la più autentica e
valida delle "mistagogie"; diventava cioè un
invito discreto ed efficace a entrare
esistenzialmente nello splendore e nella
gioia del mistero della salvezza" (cardinale
Giacomo Biffi).
Ora, la prima condizione perché questo
avvenga è la formazione teologica del
presbitero, esattamente centrata sui punti
fondamentali del dogma cristiano, da cui è
generata la pietà.
L'impegno principale negli anni della
preparazione al ministero non deve essere,
infatti, quello di addestrare ai rapporti
pre-pastorali, ma quello di iniziare - in un
clima di silenzio, di studio prolungato e
rigoroso e di orazione - all'assimilazione e
alla contemplazione del mistero cristiano.
Il resto verrà e sarà fecondo a suo tempo.
Oggi, con discutibili e autorizzate
motivazioni di avviamento all'apostolato, i
seminaristi appaiono troppo distratti.
Passando ai contenuti: il cuore di tutta la
formazione teologica deve riguardare la
figura di Cristo e in particolare la
professione della sua divinità, tanto
maggiormente necessaria, quanto più oggi
rischia di essere annebbiata. Un movimento
di riduzione della figura di Gesù di Nazaret
nei confini puramente umani, o una specie di
inquietante arianesimo sembrano serpeggiare,
come se l'assoluta originalità di Cristo sia
il suo essere uomo, e non invece il suo
essere un vero uomo che è personalmente Dio,
quindi l'unico Rivelatore e, per tutti e in
ogni tempo, l'unica via di salvezza.
Del resto, è quello che immediatamente
appare dai Vangeli, che nascono dallo
stupore suscitato da Colui nel quale, con
l'ovvia umanità, constatano una dimensione
inattesa e insospettata, quella che lo
colloca sul piano stesso della divinità.
Non stupisce che in questo inquietante e
serpeggiante offuscamento gli stessi
miracoli di Gesù siano intesi come puri
simboli, a cui la stessa risurrezione del
Signore viene ricondotta.
Il secondo grande dogma al quale va iniziato
chi studia teologia riguarda la Chiesa,
"Opera di Dio", Corpo di Cristo e suo
"sacramento", e quindi sua concreta
visibilità, sua iniziale e fondamentale
riuscita.
Anche al riguardo non si fatica a incontrare
concezioni ecclesiologiche non affatto
cattoliche, che interpretano la Chiesa come
un insieme di fragili ed effimeri tentativi
di esperienza cristiana, differenti l'uno
dall'altro, ma alla fine equivalenti, invece
che l'imprescindibile e storica mediazione
di salvezza per ogni uomo.
Basterebbe vedere con quale leggerezza ne
viene contestata l'unità e la santità e con
quale compiacenza se ne faccia oggetto di
denigrazione, che parrebbe la condizione per
essere "profeti", dimenticando che ogni
ferita alla Chiesa tocca Gesù Cristo stesso.
Poi viene la formazione teologica relativa
ai sacramenti, dove è in atto l'opera della
salvezza, a motivo della presenza in essi di
Gesù Cristo e del suo Spirito, dai quali i
segni ricevono efficacia.
In realtà, un'autentica e stabile educazione
al dogma - che non può certo equivalere a
una semplice e sterile ripetizione
scolastica - deve abbracciare tutte le sue
branche, e quindi anche la mariologia, la
dottrina del peccato originale, i
"Novissimi", con la preoccupazione di
ascoltare e di comprendere la splendida
Tradizione della fede, che è diventato d'uso
emarginare per ascoltare le voci nuove, di
teologi e di filosofi, che non raramente
seducono con alcune loro dottrine brillanti,
ma che, a una riflessione critica,
dissolvono l'originalità della Rivelazione.
Ci si potrebbe anche chiedere se riguardo
appunto alla mariologia e al peccato
originale l'insegnamento sia dappertutto
conforme alla dottrina di fede definita.
Si avverte subito che, senza questa
formazione dogmatica del pastore d'anime,
anche la celebrazione risulterà alterata e
priva della sua sostanza, per cui consisterà
non in una celebrazione da parte della
Chiesa, Sposa di Cristo, della Grazia che
redime e che ricrea; né in uno sguardo
ammirato e adorante del disegno divino; né
in un ministero svolto in persona Christi, e
che introduce nel mondo soprannaturale; né
in un elogio e in un ringraziamento per
l'iniziativa di Dio per la salvezza
dell'uomo; equivarrà, invece, alla
celebrazione di una iniziativa dell'uomo, a
una sua auto-glorificazione.
Senza dubbio, pur fondamentale, l'istruzione
dottrinale non basta per l'iniziazione
liturgica: occorrono l'esercizio e la
coltivazione del gusto e della proprietà,
che nulla hanno a che fare con un
superficiale liturgismo estetico, ma che
sono tanto più necessari quanto più sublime
è il livello sul quale i pastori d'anime
saranno chiamati a operare e quanto più
prezioso è il dono che passa attraverso la
loro mediazione rituale.
In ogni caso, se si incontrassero dei
ministri della liturgia demotivati,
indifferenti, trascurati, la prima ragione
andrebbe individuata in una carenza di tipo
teologico, nel senso che o si è rimasti alla
periferia del dogma, o lo si è per qualche
verso contaminato, in particolare per quanto
concerne la figura di Gesù Cristo,
l'immagine della Chiesa e la concezione dei
sacramenti.
Da qui la grave responsabilità di quanti
sovrintendono a questa educazione teologica.
©L'Osservatore Romano - 19 gennaio 2008