Bolla del Sommo Pontefice Pio XI
Il Vescovo Pio, servo dei servi di Dio.
A perpetua memoria.
Poiché la Chiesa ha ricevuto da Cristo, suo
Fondatore, il mandato di tutelare la santità del culto divino, essa ha
certamente il compito di comandare — fatta salva la sostanza del sacrificio
e dei sacramenti — su tutto ciò che riguarda il perfetto svolgimento di tale
augusto, pubblico ministero, come cerimonie, riti, formule, preghiere e
canto; cioè, su tutto ciò che è chiamato propriamente con il nome di
Liturgia, o azione sacra per eccellenza. E la Liturgia, in
effetti, è cosa sacra.
Per mezzo di essa, infatti, veniamo elevati
ed uniti a Dio, testimoniamo la nostra fede e ci uniamo a Lui nello
strettissimo dovere di riconoscenza per i benefìci e gli aiuti di cui sempre
abbisogniamo. Da qui l’intimo legame che intercorre fra il dogma e la sacra
liturgia, come fra il culto cristiano e la santificazione del popolo. Per
tale motivo Celestino I riteneva che il canone della fede si trovava
espresso nelle venerande formule della liturgia. In proposito egli afferma:
« La legge della preghiera determina la legge della fede. Infatti, quando
i presuli delle sante assemblee adempiono alle funzioni loro affidate, essi
sostengono davanti alla clemenza divina la causa del genere umano e pregano
e supplicano con tutta la Chiesa che geme con loro » (1).
Tali preghiere collettive, chiamate dapprima
opus Dei e successivamente officium divinum, come una specie
di debito da soddisfare quotidianamente a Dio, una volta si effettuavano di
notte e di giorno con grande partecipazione dei fedeli.
Ed è meraviglioso constatare quanto fin dagli
antichi tempi quelle ingenue litanie, che accompagnavano le sacre preci e
l’azione liturgica, contribuivano ad alimentare nel popolo il fervore
religioso. Infatti, principalmente nelle vecchie basiliche, dove il vescovo,
il clero e il popolo alternavano le lodi divine, i canti liturgici
contribuirono a far sì che un grande numero di barbari abbracciasse il
cristianesimo e la nostra civiltà, come la storia insegna. Fu nei templi che
gli avversari del cattolicesimo impararono a conoscere più a fondo il dogma
della comunione dei santi. Fu così che l’imperatore Valente, ariano, rimase
quasi tramortito davanti alla maestà dei divini misteri celebrati da San
Basilio; e a Milano gli eretici accusavano Sant’Ambrogio di ammaliare le
folle con i canti liturgici: quegli stessi canti che colpirono Agostino al
punto da indurlo ad abbracciare la fede di Cristo. Più tardi fu nelle
chiese, dove quasi tutta la cittadinanza si riuniva come in un immenso coro,
che gli artigiani, gli architetti, i pittori, gli scultori e gli stessi
letterati appresero dalla liturgia quelle cognizioni teologiche che oggi
risplendono meravigliosamente nei monumenti del medioevo.
Da questo si comprende perché i Romani
Pontefici ebbero così grande sollecitudine nel tutelare e custodire la
liturgia sacra; e, come usarono tanta cura nell’esprimere il dogma con
precise parole, così si studiarono di mettere in ordine le sacre norme della
liturgia, difendendole e preservandole da ogni alterazione.
E così pure comprendiamo perché i Santi Padri
hanno tanto commentato la liturgia (cioè la legge della preghiera) a
viva voce e per iscritto, e perché il Concilio Tridentino ha voluto che essa
fosse esposta e spiegata al popolo cristiano.
Relativamente ai nostri tempi moderni, Pio X,
nel promulgare venticinque anni fa, con Motu proprio, le norme che
regolano il canto gregoriano e la musica sacra, si propose come scopo
precipuo di far rifiorire e mantenere nei fedeli lo spirito cristiano,
provvedendo con sagge disposizioni a rimuovere quanto potesse contrastare
con la santità e la dignità del tempio. Infatti i fedeli si radunano nei
luoghi sacri per attingervi la pietà come a prima e principale fonte,
partecipando attivamente ai venerandi misteri della Chiesa e alle solenni
pubbliche preghiere.
È dunque molto importante che tutto ciò che è
destinato alla bellezza della liturgia sia regolato da leggi e prescrizioni
della Chiesa, in modo che le arti servano veramente, come è doveroso, quali
nobili ancelle al culto divino. E ciò non tornerà a loro detrimento, ma anzi
conferirà maggiore dignità e splendore in quanto utilizzate in luoghi sacri.
Ciò si è riscontrato in modo meraviglioso a proposito della musica. In
verità, ovunque le regole sono state applicate con cura, ivi si è avuto,
unitamente al risorgere delle più elette forme dell’arte, anche un diffuso
rifiorire dello spirito religioso in quanto il popolo cristiano,compenetrato
da un più profondo sentimento liturgico, si abituò a partecipare più
attivamente al rito eucaristico, alla sacra salmodia e alle preghiere
pubbliche. Noi stessi ne avemmo una consolante conferma quando, nel primo
anno del Nostro Pontificato, un coro immenso di chierici, di ogni nazione,
accompagnò con le melodie gregoriane la solenne liturgia da Noi celebrata
nella Basilica Vaticana.
Tuttavia Ci spiace rilevare che quelle
sapientissime leggi non sono state applicate dappertutto, e pertanto non
sono stati ottenuti i frutti desiderati. Sappiamo infatti che alcuni hanno
affermato di non essere tenuti all’osservanza di quelle leggi, le quali
erano state così solennemente emanate; che altri, dopo una prima adesione,
insensibilmente sono tornati a permettere un certo genere di musica che deve
essere del tutto proscritta dal tempio; e che infine in qualche luogo,
specialmente in occasione di centenarie commemorazioni di illustri
musicisti, si cercava pretesto per eseguire composizioni, le quali
quantunque ragguardevoli, non rispondendo però né alla maestà del luogo
sacro né alla santità delle norme liturgiche, non si dovevano assolutamente
eseguire in chiesa.
Così, affinché il clero e il popolo
obbediscano più religiosamente alle norme e alle prescrizioni che devono
essere santamente e inviolabilmente osservate, Ci piace aggiungerne
qualcuna, suggerita dall’esperienza di questi venticinque anni.
E ciò facciamo anche più volentieri perché
quest’anno non solo viene ricordata la citata restaurazione della musica
sacra, ma è stata pure celebrata la memoria del celebre monaco Guido
d’Arezzo il quale, circa novecento anni fa, chiamato a Roma dal Romano
Pontefice, fece conoscere quel suo ingegnoso sistema grazie al quale i canti
liturgici, provenienti fin dagli antichi secoli, potessero venire divulgati
più agevolmente e integralmente conservati, per il bene e il decoro della
Chiesa e dell’arte stessa. Nel Palazzo Laterano, ove in passato San Gregorio
Magno, dopo aver raccolto, ordinato e accresciuto il tesoro della melodia
sacra — eredità e monumento dei Padri — aveva sapientemente costituito
quella celebre Schola per perpetuare la genuina interpretazione dei
canti liturgici, il monaco Guido effettuò una dimostrazione della sua
meravigliosa invenzione alla presenza del clero romano e dello stesso Sommo
Pontefice il quale, approvando pienamente l’iniziativa e vivamente
elogiandola, si adoperò a che l’innovazione potesse pian piano diffondersi
ovunque e si estendesse ad ogni genere di musica.
Perciò, a tutti i Vescovi ed Ordinari, ai
quali spetta in modo particolare la custodia della liturgia e la cura delle
arti sacre nelle chiese, prescriviamo alcune norme quasi per rispondere ai
voti che da tutti i congressi di musica, e specialmente da quello testé
celebrato a Roma, Ci sono pervenuti da tanti sacri Pastori e da illustri
studiosi della materia, ai quali tutti tributiamo qui la meritata lode; e
prescriviamo che tali norme siano messe in pratica secondo i mezzi e i
metodi più efficaci che qui elenchiamo.
I. Tutti coloro che si avviano al sacerdozio,
non solo nei Seminari, ma anche nelle case religiose, siano istruiti nel
canto gregoriano e nella musica sacra fin dall’adolescenza, poiché più
facilmente in tale età potranno apprendere tutto ciò che riguarda il canto e
il suono; così pure riuscirà loro più agevole eliminare o modificare difetti
naturali, se per caso ne avessero, ed ai quali sarebbe impossibile rimediare
poi in età più adulta. Iniziandosi così l’insegnamento del canto e della
musica fin dalle classi elementari, e proseguendo nel ginnasio e nel liceo,
i futuri sacerdoti, già divenuti, senza fatica e difficoltà, esperti del
canto, potranno ricevere quella cultura superiore che si può ben dire l’estetica
della monodìa gregoriana e dell’arte musicale, della polifonìa e
dell’organo, scienza che è quanto mai opportuno che il clero possegga.
II. Nei Seminari pertanto,e negli altri
Istituti di studio, vi sia una breve ma frequente, pressoché quotidiana,
lezione o esercitazione di canto gregoriano e di musica sacra; se questa
sarà impartita con spirito veramente liturgico, riuscirà piuttosto di
sollievo che di peso per gli animi degli alunni dopo le faticose ore di
altri severi insegnamenti. Conseguentemente, una più completa e perfetta
educazione liturgico-musicale del clero varrà senza dubbio a far ritornare
all’antica dignità e splendore l’ufficiatura corale, che è parte
precipua nel culto divino; e così pure riuscirà a ridare alle scuole
e alle cappelle musicali la primitiva gloria.
III. Tutti coloro che sono a capo delle
basiliche, delle chiese cattedrali, collegiate e
conventuali religiose devono rivolgere ogni loro sforzo affinché sia
restaurata l’ufficiatura corale secondo le prescrizioni della Chiesa,
ciò non solo per quanto è di pracetto generico di eseguire sempre il divino
ufficio con dignità, attenzione e devotamente, ma anche
per quanto si riferisce all’arte del Canto, poiché nella salmodìa si deve
badare sia alla precisione dei toni con le loro proprie cadenze medie e
finali, sia alla pausa conveniente dell’asterisco, sia infine alla piena
concordia della declamazione dei versetti salmodici e delle strofe degli
inni.
Se tutto ciò sarà eseguito con scrupolo,
tutti, salmeggiando secondo le regole, non solo dimostreranno l’unità dei
loro spiriti intenti alla lode di Dio, ma nell’equilibrato avvicendarsi
delle due ali del coro sembreranno emulare la lode eterna dei Serafini, i
quali ad alta voce cantavano alternativamente Santo, Santo,
Santo.
IV. Affinché nessuno in avvenire abbia ad
accampare facili scuse per credersi dispensato dall’obbligo di obbedire alle
leggi della Chiesa, tutti gli Ordini dei canonici e tutte le Comunità
religiose dovranno trattare tali disposizioni in apposite riunioni, e come
un tempo vi era il cantore o rettore del coro, così per il
futuro in ogni coro di canonici e di religiosi vi sia una persona
competente, la quale mentre vigilerà sull’osservanza delle regole liturgiche
e del canto corale, correggerà nella pratica i difetti dei singoli e
dell’intero coro. Né va dimenticato che, secondo l’antica e costante
disciplina della Chiesa e secondo le stesse costituzioni capitolari tuttora
vigenti, è necessario che tutti coloro i quali sono tenuti all’ufficiatura
corale conoscano in modo conveniente almeno il canto gregoriano.
Per canto gregoriano poi, da eseguirsi in
ogni chiesa, nessuna eccettuata, si deve intendere solo quello che è stato
restituito alla fedeltà degli antichi codici, e che è già stato proposto
dalla Chiesa nell’edizione autentica della tipografia Vaticana.
V. Noi vogliamo qui raccomandare a chi spetta
anche le cappelle musicali che, succedendo nel tempo alle antiche
scuole, furono istituite nelle basiliche e nelle chiese maggiori per
eseguirvi specialmente musica polifonica. Ora la polifonìa sacra
tiene legittimamente il primo posto dopo il canto gregoriano, e Noi
vivamente desideriamo che tali cappelle, come fiorirono dal secolo
XIV al secolo XVI, così vengano ricostituite e si rafforzino soprattutto
dove la maggiore frequenza ed ampiezza del culto divino richiedono un
maggior numero di cantori ed una scelta più accurata.
VI. Quanto alle scuole dei fanciulli,
esse devono essere istituite non solo presso le chiese maggiori e le
cattedrali, ma anche presso le chiese minori e le parrocchiali, e i
fanciulli vi vengano educati al bel canto dai maestri di cappella,
affinché le loro voci, secondo l’antico costume della Chiesa, si aggiungano
ai cori virili, specie quando nella musica polifonica è affidata ad esse
come fu sempre, la parte di soprano, ovvero del cantus. Dal novero di
questi fanciulli, specie nel secolo XVI, uscirono, come è noto, i migliori
compositori di polifonìa, fra i quali il più grande di tutti, Giovanni
Pierluigi da Palestrina.
VII. In verità, poiché abbiamo appreso che in
qualche luogo si tenta di rimettere in uso un genere di musica assolutamente
contrastante con la celebrazione degli uffici divini soprattutto per lo
smodato uso degli strumenti, Noi sentiamo qui il dovere di affermare che più
che il canto con accompagnamento di strumento è la voce viva quella che deve
risuonare nel tempio: la voce umana al di sopra di ogni strumento, cioè la
voce del clero, dei cantori, del popolo. Né si deve credere che la Chiesa,
anteponendo la voce umana al suono di ogni strumento, sia contraria al
progresso dell’arte musicale. Nessun istrumento infatti, per quanto esimio e
perfetto, potrà mai competere in vigore di espressività con la voce
dell’uomo, specialmente quando questa è messa al servizio dell’anima per
pregare e lodare 1’onnipotente Iddio.
VIII. Ma c’è uno strumento musicale che è
proprio della Chiesa e che viene dagli antenati, l’organo, il quale,
per la sua meravigliosa grandiosità e maestà, fu ritenuto degno di
associarsi ai riti liturgici, sia accompagnando il canto, sia durante i
silenzi del coro, secondo le prescrizioni della Chiesa, diffondendo armonie
soavissime.
Tuttavia, anche in questo è da evitare quel
miscuglio di sacro e di profano che, per iniziativa di costruttori da un
lato e per le modernissime prodezze di taluni organisti dall’altro, minaccia
il fine proprio al quale questo magnifico strumento è destinato. Anche Noi,
fatte salve le regole liturgiche, desideriamo che tutto ciò che riguarda
l’organo progredisca di continuo, ma non possiamo esimerCi dal deplorare che
— come in altri tempi con altre musiche che la Chiesa giustamente riprovò —
si tenti oggi di introdurre nel tempio con modernissime forme lo spirito
mondano. Se tali forme cominciassero ad infiltrarsi, la Chiesa non potrebbe
far altro che condannarle decisamente. Risuonino nei templi solo quelle
armonie di organo che si rapportano alla maestà del luogo e profumano della
santità dei riti; soltanto a questa condizione l’arte dei costruttori di
organi e dei musicisti che useranno tali strumenti rivivrà quale efficace
mezzo della sacra liturgia.
IX. Affinché i fedeli partecipino più
attivamente al culto divino, il canto gregoriano — per quanto spetta al
popolo — sia restituito all’uso del popolo. Infatti, occorre assolutamente
che i fedeli non assistano alle funzioni sacre come estranei o muti
spettatori ma, veramente compresi della bellezza della liturgia, partecipino
alle sacre cerimonie — anche alle solenni processioni dove intervengono il
clero e le pie associazioni — in modo da alternare, secondo le dovute norme,
la loro voce a quelle del sacerdote e della scuola. Se quanto
auspicato si verificherà, non accadrà più che il popolo non risponda affatto
o risponda appena con sommesso mormorio alle preghiere comuni proposte in
lingua liturgica o in lingua volgare.
X. Sotto la guida dei Vescovi e degli
Ordinari, i membri dell’uno e dell’altro clero si adoperino alacremente per
curare, o direttamente o con l’aiuto di esperti, l’insegnamento della
liturgia e della musica al popolo, quali discipline strettamente unite alla
dottrina cristiana. E ciò si otterrà più facilmente se si istruiranno nel
campo liturgico soprattutto le scuole, i pii sodalizi e le altre
associazioni.
Inoltre, le comunità dei religiosi, delle
suore e di pie istituzioni femminili operino con zelo per conseguire questo
fine nei diversi istituti di educazione loro affidati. Confidiamo parimenti
che contribuiranno alla realizzazione di questo obiettivo quelle società che
in diverse regioni, obbedendo alle autorità ecclesiastiche, si adoperano per
restaurare la musica sacra secondo le norme della Chiesa.
XI. Per realizzare tutte queste speranze, è
assolutamente necessario disporre di maestri esperti ed in gran numero. A
questo proposito, non possiamo fare a meno di tributare le dovute lodi a
quelle Scuole ed Istituti fondati qua e là per il mondo cattolico;
insegnando con ogni cura e diligenza le discipline musicali, formano dei
bravi e valorosi maestri. Ma soprattutto Noi vogliamo qui ricordare e lodare
la Pontificia Scuola di musica sacra, fondata nell’Urbe da Pio X
nell’anno 1910. Questa Scuola, che poi l’immediato Nostro Antecessore
Benedetto XV fervorosamente sostenne ed alla quale diede una nuova sede,
anche da Noi è circondata da particolare favore, come una preziosa eredità
lasciataCi da due Pontefici; e perciò la raccomandiamo caldamente a tutti
gli Ordinari.
Sappiamo benissimo quanto impegno e quanta
fatica richiedono le prescrizioni sopra espresse. Ma chi ignora i molti
capolavori artistici realizzati dai nostri antenati che, superando tante
difficoltà, imbevuti di fervore religioso e di spirito liturgico, ci hanno
lasciato? Né questo stupisce minimamente: tutto ciò che trae la propria
origine dalla vita interiore della Chiesa trascende le cose più perfette
della terra. Le difficoltà di questa santissima iniziativa, anziché
deprimere i Pastori della Chiesa, li ecciteranno e li stimoleranno. Essi,
concordemente e costantemente ossequiosi alla Nostra volontà, presteranno
tutti al Sommo Pontefice un’opera degnissima del loro ministero episcopale.
Queste cose prescriviamo, dichiariamo,
ordiniamo. Noi vogliamo che questo Atto Apostolico sia e resti sempre fermo,
valido ed efficace, e realizzi e ottenga i suoi effetti pieni ed integri,
nonostante qualsiasi cosa contraria. A nessuno pertanto sia lecito violare
questa Costituzione da Noi promulgata, o temerariamente opporsi ad essa.
Dato a Roma, presso San Pietro, nel
cinquantesimo anniversario del Nostro sacerdozio, il giorno 20 dicembre
1928, anno settimo del Nostro Pontificato.
PIUS PP. XI
1 Epist. ad episcopos Galliarum,
Patrol. Lat., L, 535.