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VATICANO - Il Motu Proprio Summorum
Pontificum è “anche un segno per tutta la Chiesa su alcuni principi
teologico-disciplinari da salvaguardare per un suo profondo
rinnovamento, tanto auspicato dal Concilio” - Intervista a Sua Ecc.
Mons. Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo Segretario della Congregazione
per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti[v.
anche Intervista sull'Osservatore Romano in ordine al dibattito sulla
liturgia]
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Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Il 14 settembre è entrato in vigore
il Motu Proprio
Summorum Pontificum promulgato da Papa Benedetto XVI il 7 luglio
2007 e dedicato al rito di San Pio V rivisto nel 1962 da Papa Giovanni
XXIII. Con il Motu Proprio (iniziativa promossa da parte ci chi ne ha le
facoltà) torna la possibilità di celebrare col Messale tridentino senza
dover necessariamente chiedere il permesso del Vescovo. Con il Concilio
Vaticano II e in particolare con la riforma liturgica del 1970 promossa
da Papa Paolo VI, l’antico Messale era stato sostituito dal nuovo e,
anche se ufficialmente non era mai stato abolito, i fedeli per
utilizzarlo dovevano avere espressamente il permesso del Vescovo. Un
permesso sancito all’interno di un altro Motu Proprio: l’Ecclesia
Dei adflicta firmato da Papa Giovanni Paolo II il 2 luglio 1988.
Oggi, con il nuovo
Motu Proprio, questo permesso non è più necessario e qualsiasi
«gruppo stabile» di fedeli può liberamente chiedere al proprio parroco
la possibilità di celebrare seguendo l’antico Messale. L’Agenzia Fides
ha rivolto alcune domande a questo proposito a Sua Ecc. Monsignor Albert
Malcolm Ranjith, Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Culto
Divino e la disciplina dei Sacramenti.
Eccellenza Reverendissima, qual è a suo avviso il significato
profondo del Motu Proprio Summorum Pontificum?
Vedo in questa decisione non solo la sollecitudine del Santo Padre di
aprire la strada del rientro nella piena comunione della Chiesa ai
seguaci di Monsignor Lefebvre, ma anche un segno per tutta la Chiesa su
alcuni principi teologico-disciplinari da salvaguardare per un suo
profondo rinnovamento, tanto auspicato dal Concilio.
Mi pare che ci sia un forte desiderio del Papa di correggere quelle
tentazioni visibili in alcuni ambienti i quali vedono il Concilio come
un momento di rottura con il passato e di un nuovo inizio. Basti
ricordare il suo discorso alla Curia Romana il 22 Dicembre 2005.
D’altronde neanche il Concilio pensò, di se stesso, in questi termini.
Sia nelle sue scelte dottrinali che in quelle liturgiche come anche in
quelle giuridiche-pastorali, il Concilio fu un altro momento di
approfondimento e di aggiornamento della ricca eredità
teologico-spirituale della Chiesa nella sua storia bimillenaria. Con il
Motu Proprio il Papa vuole affermare chiaramente che ogni tentazione di
disprezzo di queste venerate tradizioni è fuori posto. Il messaggio è
chiaro: progresso, sì, ma non a scapito, o senza la storia. Anche la
riforma liturgica deve essere fedele a tutto ciò che è successo dagli
inizi ad oggi, senza esclusioni.
Dall’altro lato, non dobbiamo mai dimenticare che per la Chiesa
Cattolica la Rivelazione Divina non è qualcosa proveniente solo dalla
Sacra Scrittura, ma anche dalla Tradizione vivente della Chiesa. Tale
fede ci distingue nettamente da altre manifestazioni della fede
cristiana. La verità per noi è ciò che emerge, per così dire, da tutti e
due questi poli, cioè Sacra Scrittura e Tradizione. Questa posizione per
me è molto più ricca di altre vedute perché rispetta la libertà del
Signore a guidarci verso una più adeguata comprensione della verità
rivelata anche attraverso ciò che succederà nel futuro. Naturalmente, il
processo di discernimento di ciò che emerge verrà attuato attraverso il
Magistero della Chiesa. Ma ciò che dobbiamo cogliere è l’importanza
attribuita alla Tradizione. La Costituzione Dogmatica Dei Verbum
affermò questa verità chiaramente (DV 10).
Inoltre la Chiesa è una realtà che sorpassa i livelli di una pura
invenzione umana. Essa è il Corpo mistico di Cristo, la Gerusalemme
celeste e la stirpe eletta di Dio. Essa, perciò, supera le frontiere
terrestri e ogni limitazione di tempo ed è una realtà che trascende di
molto la sua manifestazione terrestre e gerarchica. Perciò in essa, ciò
che è ricevuto, dovrà essere trasmesso fedelmente. Noi non siamo né
inventori della verità, né i suoi padroni, ma solo coloro che la
ricevono e hanno il compito di proteggerla e trasmetterla agli altri.
Come diceva San Paolo parlando dell’Eucaristia: “io infatti ho ricevuto
dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1Cor 11, 23). Il
rispetto della Tradizione non è dunque una nostra scelta libera nella
ricerca della verità, ma la sua base che deve essere accettata. Nella
Chiesa la fedeltà alla Tradizione perciò, è un atteggiamento essenziale
della Chiesa stessa. Il
Motu Proprio,
a mio parere, và inteso anche in questo senso. Esso è un possibile
stimolo per una necessaria correzione di rotta. Infatti, in alcune
scelte della riforma liturgica attuata dopo il Concilio, sono stati
adottati degli orientamenti che hanno offuscato alcuni aspetti della
liturgia, meglio riflettuta dalla precedente prassi, perché, da alcuni,
il rinnovamento liturgico è stato inteso come qualcosa da realizzare ex
novo. Però, sappiamo bene che tale non fu l’intenzione della
Sacrosanctum Concilium, che rileva che “le nuove forme in qualche
modo scaturiscano organicamente da quelle già esistenti” (SC 23).
Una caratteristica del Pontificato di Benedetto XVI sembra essere
l’insistenza intorno a una corretta ermeneutica del Concilio Vaticano II.
Secondo Lei il Motu Proprio “Summorum Pontificum” va in questa
direzione? Se sì, in che senso?
Già da Cardinale nei suoi scritti il Papa aveva rigettato un certo
spirito di esuberanza visibile in alcuni circoli teologici motivati da
un cosiddetto “spirito del Concilio” che per lui fu in realtà un vero
“anti spirito” o un “Konzils - Ungeist” (Rapporto sulla Fede, San Paolo,
2005, capitolo 2). Cito testualmente tale scritto in cui il Papa
sottolinea: “bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un
prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato
dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la
continuità del cattolicesimo” (ibid p. 33).
Ora, un tale errore di interpretazione del Concilio e del cammino
storico-teologico della Chiesa ha influito su tutti i settori
ecclesiali, liturgia inclusa. Un certo atteggiamento, di facile rigetto
degli sviluppi ecclesiologici e teologici, come anche di quelli
liturgici dell’ultimo millennio da un lato e una ingenua idolizzazione
di ciò che sarebbe stato la mens della Chiesa cosiddetta dei
primi cristiani dall’altro, ha avuto un influsso di non poca rilevanza
sulla riforma liturgico-teologica dell’era post conciliare.Il rigetto
categorico della Messa pre-conciliare, come un relitto di un’epoca ormai
“superata”, fu il risultato di questa mentalità. Tanti hanno visto le
cose in questo modo, per grazia di Dio, non tutti.
La stessa Sacrosanctum Concilium, la Costituzione Conciliare sulla
Liturgia, non offre alcuna giustificazione a tale atteggiamento. Sia nei
principi generali che nelle norme proposte, il Documento è sobrio e
fedele a ciò che significa la vita liturgica della Chiesa. Basti leggere
il numero 23 di detto documento per essere convinti di tale spirito di
sobrietà.
Alcune di queste riforme hanno abbandonato importanti elementi della
Liturgia con le relative considerazioni teologiche: ora è necessario e
importante recuperare questi elementi. Il Papa, considera il rito di San
Pio V rivisto dal Beato Giovanni XXIII una via di recupero di quegli
elementi offuscati dalla riforma, avrà certamente riflettuto tanto sulla
sua scelta; sappiamo che ha consultato diversi settori della Chiesa su
tale questione e, nonostante alcune posizioni contrarie, ha deciso di
permettere la libera celebrazione di quel Rito. Tale mossa non è tanto,
come dicono alcuni, un ritorno al passato, quanto il bisogno di
riequilibrare in modo integro gli aspetti eterni, trascendenti e celesti
con quelli terrestri e comunitari della liturgia. Essa aiuterà a
stabilire eventualmente un equilibrio anche tra il senso del sacro e del
mistero da un lato e quello dei gesti esterni e degli atteggiamenti e
impegni socio-culturali derivanti dalla liturgia.
Quando era ancora Cardinale, Joseph Ratzinger insisteva molto sulla
necessità di leggere il Concilio Vaticano II a partire dal suo primo
documento e cioè la Sacrosanctum Concilium. Perché, secondo Lei, i Padri
Conciliari hanno voluto dedicarsi innanzitutto alla liturgia?
Prima di tutto dietro tale scelta stava sicuramente la consapevolezza
dell’importanza vitale della liturgia per la Chiesa. La liturgia, per
così dire, è l’occhio del tifone, perché ciò che si celebra, è ciò che
si crede e ciò che si vive: il famoso assioma Lex orandi, lex credendi.
Perciò ogni vera riforma della Chiesa passa attraverso la liturgia. I
Padri erano consci di tale importanza. D’altronde la riforma liturgica
era un processo già in atto anche prima del Concilio a partire
soprattutto dal Motu Proprio Tra le Sollecitudini di San Pio X e la
Mediator Dei di Pio XII.
È San Pio X che attribuì alla liturgia l’espressione “prima sorgente”
dell’autentico spirito cristiano. Forse già anche l’esistenza delle
strutture e dell’esperienza di chi si impegnava per lo studio e
l’introduzione di alcune riforme liturgiche, stimolava i Padri
Conciliari a scegliere la liturgia come materia da considerare per prima
nelle sedute del Concilio. Papa Paolo VI rifletteva la mens dei Padri
Conciliari sulla questione quando disse: “noi vi ravvisiamo l’ossequio
della scala dei valori e doveri: Dio al Primo posto; la preghiera prima
nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi
comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che
possiamo fare al popolo cristiano…” (Paolo VI, Discorso di chiusura del
2° periodo del Concilio, 4 dicembre 1963).
In molti hanno letto la pubblicazione del Motu Proprio “Summorum
Pontificum” come una volontà del Pontefice di avvicinare la Chiesa agli
scismatici lefebvriani. È così secondo Lei? Va anche in questo senso il
Motu Proprio?
Si, ma non solo. Il Santo Padre spiegando le motivazioni della sua
decisione, sia nel testo del Motu Proprio che nella lettera di
presentazione scritta ai Vescovi, elenca anche altre ragioni importanti.
Naturalmente avrà tenuto conto della richiesta sempre più crescente,
fatta da diversi gruppi e soprattutto dalla Società di San Pio X e la
Fraternità Sacerdotale di San Pietro come anche da Associazioni di
Laici, per la liberalizzazione della Messa di San Pio V. Assicurare
l’integrazione totale dei Lefebvriani era importante anche per il fatto
che spesso, nel passato, sono stati commessi degli errori di giudizio
causando inutili divisioni nella Chiesa, divisioni che ora sono
diventate quasi insuperabili. Il Papa parla di questo possibile pericolo
nella lettera di presentazione del Documento scritta ai Vescovi.
Quali sono a Suo avviso le problematiche più urgenti per la giusta
celebrazione della Sacra liturgia? Quali le istanze su cui insistere
maggiormente?
Credo che nella crescente richiesta per la liberalizzazione della Messa
di San Pio V, il Papa abbia visto segni di un certo svuotamento
spirituale causato dal modo con cui i momenti liturgici, sono finora
celebrati nella Chiesa. Tale difficoltà scaturisce tanto da certi
orientamenti della riforma liturgica post conciliare che tendevano a
ridurre, o meglio ancora, a confondere aspetti essenziali della fede,
quanto da atteggiamenti avventurosi e poco fedeli alla disciplina
liturgica della stessa riforma; il che si constata ovunque.
Credo che una delle cause per l’abbandono di alcuni elementi importanti,
del rito tridentino nella realizzazione della riforma post conciliare da
parte di certi settori liturgici sia il risultato di un abbandono o
d’una sottovalutazione di ciò che sarebbe successo nel secondo millennio
della storia della liturgia. Alcuni liturgisti vedevano gli sviluppi di
questo periodo piuttosto negativamente. Tale giudizio è erroneo perché
quando si parla della tradizione vivente della Chiesa non si può
scegliere qua e là ciò che concorda con le nostre idee pre concepite. La
Tradizione, considerata in un senso generale anche negli ambiti della
scienza, filosofia o teologia, è sempre qualcosa di vivente che continua
a evolvere e progredire anche nei momenti alti e bassi della storia. Per
la Chiesa la Tradizione vivente è una delle fonti della rivelazione
divina ed è frutto di un processo di evoluzione continuo. Ciò è vero
anche nella tradizione liturgica, con la “t” minuscola. Gli sviluppi
della liturgia nel secondo millennio hanno il loro valore. La
Sacrosanctum Concilium non parla di un nuovo Rito, o di un momento
di rottura, ma di una riforma che emerga organicamente da ciò che già
esiste. È per questo che il Papa dice: “nella storia della liturgia c’è
crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni
anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può
essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato
dannoso” (Lettera ai Vescovi, 7 luglio 2007). Idolatrare ciò che è
successo nel primo Millennio a scapito di quello successivo è, dunque,
un atteggiamento poco scientifico. I Padri Conciliari non hanno mostrato
un tale atteggiamento.
Una seconda problematica sarebbe quella di una crisi di obbedienza verso
il Santo Padre che si nota in alcuni ambienti. Se tale atteggiamento di
autonomia è visibile fra alcuni ecclesiastici, anche nei ranghi più alti
della Chiesa, non giova certamente alla nobile missione che Cristo ha
affidato al suo Vicario.
Si sente che in alcune nazioni o diocesi sono state emanate dai Vescovi
delle regole che praticamente annullano o deformano l’intenzione del
Papa. Tale comportamento non è consono con la dignità e la nobiltà della
vocazione di un pastore della Chiesa. Non dico che tutti siano così. La
maggioranza dei Vescovi ed ecclesiastici hanno accettato, con il dovuto
senso di riverenza e obbedienza, la volontà del Papa. Ciò è veramente
lodevole. Purtroppo ci sono state delle voci di protesta da parte di
certuni.
Allo stesso tempo non si può ignorare che tale decisione fu necessaria
perché, come dice il Papa, la Santa Messa: “in molti luoghi non si
celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso
veniva addirittura inteso come un’autorizzazione o perfino come un
obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni della
liturgia al limite sopportabile”. “Parlo per esperienza”, continua il
Papa “perché ho vissuto anche io quel periodo con tutte le sue attese e
confusioni e ho visto quanto profondamente siano state ferite dalle
deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente
radicate nella fede della Chiesa” (Lettera ai Vescovi). Il risultato di
tali abusi fu un crescente spirito di nostalgia per la Messa di San Pio
V. Inoltre un senso di disinteresse generale a leggere e rispettare sia
i documenti normativi della Santa Sede, nonché le stesse Istruzioni e
Premesse dei libri liturgici peggiorò la situazione. La liturgia ancora
non sembra figurare sufficientemente nella lista delle priorità per i
Corsi di Formazione continua degli ecclesiastici.
Distinguiamo bene. La riforma post conciliare non è del tutto negativa;
anzi ci sono molti aspetti positivi in ciò che fu realizzato. Ma ci sono
anche dei cambiamenti introdotti abusivamente che continuano ad essere
portati avanti nonostante i loro effetti nocivi sulla fede e sulla vita
liturgica della Chiesa.
Parlo qui per esempio d’un cambiamento effettuato nella riforma, il
quale non fu proposto né dai Padri Conciliari né dalla Sacrosanctum
Concilium, cioè la comunione ricevuta sulla mano. Ciò ha contribuito
in qualche modo ad un certo calo di fede nella Presenza reale di Cristo
nell’Eucaristia. Questa prassi, e l’abolizione delle balaustre dal
presbiterio, degli inginocchiatoi dalle chiese e l’introduzione di
pratiche che obbligano i fedeli a stare seduti o in piedi durante
l’elevazione del Santissimo Sacramento riducono il genuino significato
dell’Eucaristia e, il senso della profonda adorazione che la Chiesa deve
rivolgere verso il Signore, l’Unigenito Figlio di Dio. Inoltre, la
Chiesa, dimora di Dio viene in alcuni luoghi usata come un’aula per
incontri fraterni, concerti o celebrazioni inter-religiose. In qualche
chiesa il Santissimo Sacramento viene quasi nascosto e abbandonato in
una Cappellina invisibile e poco decorata. Tutto questo oscura la fede
così centrale della Chiesa, nella presenza reale di Cristo. Per noi
cattolici la Chiesa è essenzialmente la dimora dell’eterno.
Un altro serio errore è quello di confondere i ruoli specifici del clero
e dei laici sull’altare rendendo il presbiterio un luogo di disturbo, di
troppo movimento e non certamente “il luogo” dove il cristiano riesce a
cogliere il senso di stupore e splendore davanti alla presenza e
all’azione salvifica del Signore. L’uso delle danze, degli strumenti
musicali e di canti che ben poco hanno di liturgico, non sono per nulla
consoni all’ambiente sacro della chiesa e della liturgia; aggiungo anche
certe omelie di carattere politico-sociale spesso poco preparate. Tutto
ciò snatura la celebrazione della S. Messa e ne fa una coreografia e una
manifestazione di teatralità, ma non di fede.
Ci sono anche altri aspetti poco coerenti con la bellezza e lo stupore
di ciò che si celebra sull’altare. Non tutto va male con il Novus Ordo,
ma molte cose ancora devono essere messe in ordine evitando ulteriori
danni alla vita della Chiesa. Credo che il nostro atteggiamento verso il
Papa, le sue decisioni e l’espressione della sua sollecitudine per il
bene della Chiesa deve essere solo quello che San Paolo raccomandò ai
Corinzi - “ma tutto si faccia per edificazione” (1Cor 14, 26). (P.L.R.)
Fonte: Agenzia Fides 16/11/2007
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L'arcivescovo Ranjith interviene nel dibattito sulla liturgia.
Fedeltà al Concilio
Maurizio Fontana
A sessant'anni di distanza dalla pubblicazione dell'enciclica di Pio XII
Mediator Dei, il dibattito sulla liturgia è quanto mai aperto e vivo: la
recente entrata in vigore del
motu proprio Summorum Pontificum - con il
quale Benedetto XVI ha concesso la possibilità di celebrare l'Eucaristia
secondo il messale tridentino senza dover chiedere il permesso del
vescovo - ha alimentato un confronto che a partire dal Concilio Vaticano
II non è stato, in realtà, mai sopito.
Ne "L'Osservatore Romano" di domenica 18 novembre, Nicola Bux, proprio
richiamandosi alla Mediator Dei, ha riaffermato l'importanza di un
dibattito ampio sulla liturgia, portato avanti "senza pregiudizi e con
grande carità": un confronto - ha specificato - necessariamente guidato
dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Su questi temi abbiamo intervistato il segretario della Congregazione
per il Culto Divino, l'arcivescovo Albert Malcom Ranjith.
Partiamo proprio dalla Mediator Dei: possiamo riassumerne gli aspetti
qualificanti?
Con l'enciclica Mediator Dei, Pio XII - sulla base anche di quanto
affermato da Pio X nel motu proprio Tra le sollecitudini - cerca di
presentare ai fedeli una sintesi teologica dell'intima essenza della
liturgia: si sofferma a coglierne le origini e la definisce come l'atto
sacerdotale di Cristo che rende lode e gloria a Dio e - soprattutto
attraverso il suo sacrificio - effettua la volontà salvifica del Padre.
In questo senso Cristo è al centro della preghiera e del ruolo
sacerdotale della Chiesa.
"Il Divino Redentore - leggiamo nell'enciclica - volle, poi, che la vita
sacerdotale da Lui iniziata nel suo corpo mortale con le sue preghiere e
il suo sacrificio, non cessasse nel corso dei secoli nel suo Corpo
Mistico che è la Chiesa". In sostanza l'enciclica evidenzia che il culto
non è il nostro, ma è quello di Cristo nel quale tutti noi siamo
inseriti. Più o meno è la linea che Benedetto XVI ha offerto nei suoi
scritti liturgici prima e dopo la sua elezione: non siamo noi che
compiamo l'atto liturgico ma in esso ci conformiamo all'atto liturgico
celeste che già sta accadendo in eterno.
L'enciclica di Pio XII "sulla sacra liturgia" anticipò di sedici anni la Sacrosantum Concilium: quali rapporti possiamo trovare fra i due
documenti? C'è una continuità fra di essi? Davvero - come ha scritto Bux
- senza la Mediator Dei non si può comprendere appieno la costituzione
conciliare?
Si può senz'altro affermare che la riforma liturgica preconciliare fu
una sorta di apertura verso ciò che sarebbe poi successo nel Concilio
Vaticano II.
Del resto, il fatto che la Sacrosantum Concilium sia stato il primo
documento dell'assise ecumenica conferma non solo l'importanza primaria
della liturgia per la vita della Chiesa, ma anche che evidentemente i
padri conciliari avevano già a disposizione gli strumenti pronti per
procedere a una rapida definizione e al rinnovamento della liturgia. Si
deve poi ricordare che la maggior parte degli esperti che avevano
lavorato per guidare la riforma preconciliare, sono stati integrati e
coinvolti nella preparazione della Sacrosantum Concilium.
C'è insomma una continuità pratica che fa il paio con la continuità
teologica: la Sacrosantum Concilium infatti - pur nella spiccata
preoccupazione pastorale di rendere la liturgia più efficace e
partecipata - esprime bene il concetto della partecipazione alla
liturgia celeste. Questo aspetto della Mediator Dei in un certo senso
confluisce in maniera naturale nella Sacrosantum Concilium. Anche
guardando all'impostazione dei due documenti, troviamo più o meno uno
stesso schema compositivo. I legami appaiono chiari: la Sacrosantum
Concilium continua la grande tradizione della Mediator Dei, così come la
Mediator Dei si era posta sulla linea dei precedenti pontefici, in
particolare di Pio X.
Di fronte a questa continuità vanno forse superati certi pregiudizi
sulla Chiesa preconciliare e in particolare sullo stesso Pio XII.
Certamente. Del resto il cardinale Ratzinger - nel Rapporto sulla fede -
parlava della distinzione tra una interpretazione fedele del Concilio e
un approccio piuttosto avventuroso e irreale allo stesso, portato
avanti da certi circoli teologici animati da quello che veniva definito
lo "spirito del Concilio" e che lui invece definisce "anti spirito" o
Konzils-Ungeist. Tale distinzione si può cogliere anche relativamente a
quanto accaduto in materia liturgica: in diverse innovazioni introdotte
si possono infatti riscontrare delle differenze sostanziali tra il testo
della Sacrosantum Concilium e la riforma postconciliare portata avanti.
È vero che il documento lasciava spazi aperti all'interpretazione e alla
ricerca, ma ciò non vuol dire che esso invitasse a un rinnovamento
liturgico inteso come qualcosa da realizzare ex novo; al contrario, esso
s'inseriva pienamente nella tradizione della Chiesa.
Come lei stesso ha ricordato, dalla Mediator Dei ai documenti conciliari
la centralità di Cristo nella liturgia è sempre affermata con chiarezza
e vigore: la cosiddetta Chiesa postconciliare ha saputo incarnare
pienamente questa realtà?
Con questo tocchiamo un tasto doloroso. C'è infatti un problema pratico:
il valore delle norme e delle indicazioni dei libri liturgici non è
stato pienamente capito da tutti nella Chiesa. Faccio un esempio. Quello
che accade sull'altare è ben spiegato nei testi liturgici,
evidentemente, però, certe indicazioni non sono state prese del tutto
sul serio: c'è infatti una certa tendenza a interpretare la riforma
liturgica postconciliare utilizzando la "creatività" come regola. Questo
non è permesso dalle norme. La liturgia in certi luoghi non sembra
riflettere il suo cristocentrismo ma esprime invece uno spirito di
immanentismo e di antropocentrismo. La verità è ben diversa: un vero
antropocentrismo deve essere cristocentrico. Quello che succede
sull'altare è un qualcosa che non operiamo noi: è Cristo che agisce e la
centralità della figura di Cristo sottrae quell'atto al nostro governo.
Noi siamo assorbiti e ci facciamo assorbire in quell'atto, tanto che
alla fine della preghiera eucaristica pronunciamo la stupenda dossologia
che recita: "Per Lui, in Lui e con Lui".
La tendenza "creativa" cui accennavo non è permessa dalle istruzioni dei
libri liturgici. Purtroppo essa deriva da una cattiva interpretazione
dei testi o forse da una scarsa conoscenza di essi e della liturgia
stessa.
Dobbiamo renderci conto che la liturgia ha una peculiare caratteristica
"conservativa" - ma non nell'accezione negativa che oggi alcuni danno
alla parola. Nell'Antico Testamento emerge una grande fedeltà ai riti e
lo stesso Gesù ha continuato a essere fedele al rituale dei padri. In
seguito, la Chiesa ha proseguito su questa stessa linea. San Paolo
afferma: "Io trasmetto a voi ciò che ho ricevuto" (1 Corinzi, 11, 23), e
non "ciò che ho inventato". Questo è un aspetto centrale: noi siamo
chiamati a essere fedeli a qualcosa che non ci appartiene ma che ci
viene dato; dobbiamo essere fedeli alla serietà con cui si celebrano i
sacramenti. Perché dovremmo riempire pagine e pagine di istruzioni se
poi ciascuno si ritiene autorizzato a fare quello che vuole?
Dopo la pubblicazione del
motu proprio Summorum Pontificum si è riacceso
il confronto tra i cosiddetti tradizionalisti e innovatori. Ha senso una
contrapposizione del genere?
Assolutamente no. Non c'era e non c'è una cesura tra un prima e un dopo,
c'è invece una linea continuativa.
Parlando del motu proprio ritorniamo piuttosto al discorso appena
affrontato. Riguardo alla messa tridentina c'è stata una domanda
crescente nel tempo, via via sempre più organizzata. Di contro, la
fedeltà alle norme della celebrazione dei sacramenti continuava a
calare. Più diminuivano tale fedeltà, il senso della bellezza e dello
stupore nella liturgia, più aumentava la richiesta per la messa
tridentina. E allora, di fatto, chi ha realmente chiesto la messa
tridentina? Non solo quei gruppi, ma anche coloro che hanno avuto poco
rispetto per le norme della celebrazione degna secondo il Novus ordo.
Per anni la liturgia ha subìto troppi abusi e tanti vescovi li hanno
ignorati. Papa Giovanni Paolo II aveva fatto un accorato appello nell'Ecclesia
Dei afflicta che altro non era se non un richiamo alla Chiesa ad
essere più seria nella liturgia. La stessa cosa è avvenuta con
l'istruzione
Redemptionis sacramentum. Eppure in certi circoli di liturgisti
e uffici di liturgia questo documento è stato criticato. Il problema
quindi non era la richiesta della messa tridentina, quanto piuttosto un
abuso illimitato della nobiltà e della dignità della celebrazione
eucaristica.
Di fronte a ciò il Santo Padre non poteva tacere: come si nota nella
lettera scritta ai vescovi sul
motu proprio e
anche nei suoi molteplici discorsi, egli sente un profondo senso di
responsabilità pastorale. Questo documento perciò - oltre ad essere un
tentativo di cercare l'unione con la Fraternità Sacerdotale san Pio X -
è anche un segno, un forte richiamo del pastore universale a un senso di
serietà.
È un richiamo anche a chi forma i sacerdoti?
Direi di sì. Del resto di fronte a certe concezioni arbitrarie e poco
serie della liturgia c'è da chiedersi cosa s'insegna in alcuni seminari.
Non ci si può accostare alla liturgia con atteggiamento superficiale e
poco scientifico. Questo vale per chi adotta un'interpretazione
"creativa" della liturgia, ma anche per chi presume troppo facilmente di
stabilire come era la liturgia alle origini della Chiesa. Occorre sempre
un'attenta esegesi, non ci si può lanciare in ingenue interpretazioni.
Oltre tutto in alcuni circoli liturgici c'è una certa tendenza a
sottovalutare quanto la Chiesa ha maturato nel secondo millennio della
sua storia. Si parla di impoverimento del rito, ma questa è una
conclusione troppo banale e semplicistica: noi crediamo invece che la
tradizione della Chiesa si manifesti in uno sviluppo continuo. Non
possiamo dire che una parte è migliore di un'altra: ciò che conta è
l'azione dello Spirito in continua crescita, pur negli alti e bassi
della storia. Noi dobbiamo essere fedeli alla continuità della
tradizione.
La liturgia è centrale per la vita della Chiesa: lex orandi, lex
credendi, ma anche lex vivendi. Per un rinnovamento vero
della Chiesa - desiderato tanto dal Concilio - è necessario che non si
limiti la liturgia a uno studio solo accademico, ma che questa diventi
una priorità assoluta nelle Chiese locali. Perciò è importante che alla
formazione liturgica secondo la mente della Chiesa sia data la giusta
importanza a livello locale. In fin dei conti la vita sacerdotale è
strettamente legata a quello che il sacerdote celebra e a come lo
celebra. Se un sacerdote celebra bene l'Eucaristia è sfidato a essere
coerente e a diventare parte del sacrificio di Cristo. La liturgia
diventa così fondamentale per la formazione di sacerdoti santi. È questa
una grande responsabilità dei vescovi che possono così fare tanto per un
vero rinnovamento della Chiesa.
Un aspetto non secondario del dibattito sulla liturgia è senz'altro
quello dell'arte sacra, a cominciare dall'importante capitolo della
musica liturgica. Tra l'altro "L'Osservatore Romano" proprio nei giorni
scorsi ha affrontato questi temi riportando delle considerazioni non
certo rassicuranti di monsignor Valentín Miserachs Grau.
La Congregazione sta ancora studiando il documento per il nuovo
antifonale, abbiamo anche consultato lo stesso Pontificio Istituto di
Musica Sacra e speriamo di poter arrivare a una rapida conclusione.
Cantare significa pregare due volte e questo vale soprattutto per il
canto gregoriano che è un tesoro inestimabile. Il Papa nella
Sacramentum caritatis ha parlato chiaramente della necessità di
insegnare nei seminari il canto gregoriano e la lingua latina: noi
dobbiamo custodire e valorizzare tale immenso patrimonio della Chiesa
cattolica e utilizzarlo per rendere lode al Signore. Bisogna sicuramente
lavorare ancora su questo aspetto.
Vi sono poi nell'uso comune molti canti che non si rifanno alla
tradizione del gregoriano: è importante assicurare che siano edificanti
per la fede, che alimentino spiritualmente chi partecipa alla liturgia e
che dispongano realmente il cuore dei fedeli all'ascolto della voce di
Dio. I contenuti, poi, devono essere controllati dai vescovi per
evitare, ad esempio, tendenze new age.
A questo riguardo anche nell'uso degli strumenti musicali bisogna
esercitare un grande senso di discrezione: che tutto sia solo per
l'edificazione della fede.
Nel campo dell'architettura sacra il dialogo con gli specialisti
sembra più delineato; più difficoltoso sembra invece quello con gli
artisti figurativi. Se alcuni grandi artisti contemporanei appaiono
coinvolti nell'interpretazione dei temi sacri, ciò accade molto meno per
la produzione pensata appositamente per i luoghi di culto. È solo un
problema di committenze o il dialogo tanto sostenuto da Paolo VI
necessita di nuovo impulso?
Il Concilio ha dedicato un intero capitolo all'arte sacra. Tra i
principî affermati, essenziale è quello del legame tra arte e fede.
Il dialogo è fondamentale. Ogni artista è una persona tutta particolare,
ha un suo stile di cui è molto orgoglioso. Bisogna saper entrare nel
cuore dell'artista con la dimensione della fede. È difficile, ma la
Chiesa deve trovare le vie per un dialogo più profondo.
Il 1° dicembre ci sarà - sul tema - una giornata di studio in Vaticano
organizzata dalla Congregazione: noi contiamo che possa essere
un'occasione per dare impulso a questo dialogo e alla promozione
dell'arte sacra.
©L'Osservatore Romano - 19-20 novembre 2007
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