Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto dall’allora
Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede, durante una Conferenza svoltasi presso l’Abbazia benedettina di
“Notre Dame de Fontgombault”, in Francia (22-24 luglio 2001)
Il Concilio Vaticano II definisce la liturgia come "l'opera del Cristo
sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa" (Sacrosanctum Concilium , n. 7).
L'opera di Gesù Cristo è designata nello stesso testo come l’opera della
redenzione che il Cristo ha compiuto in modo particolare attraverso il
mistero pasquale della Sua passione, della Sua Resurrezione dai morti e
della Sua gloriosa ascensione. "Con questo mistero, morendo, ha distrutto la
nostra morte e, risorgendo, ha restaurato la vita" (Sacrosanctum Concilium ,
n. 5).
A prima vista, in queste due frasi la parola "opera del Cristo" sembra
utilizzata in due distinti significati. L’opera del Cristo designa in primo
luogo le azioni redentrici storiche di Gesù, la Sua morte e la Sua
Resurrezione; d’altra parte si definisce "opera del Cristo" la celebrazione
della liturgia. In realtà, i due significati sono inseparabilmente legati:
la morte e la Resurrezione, il mistero pasquale non sono soltanto
avvenimenti storici esteriori. Per la Resurrezione, questo appare molto
chiaramente.
Raggiunge e penetra la storia, ma la trascende in un doppio senso; non è
l’azione di un uomo bensì una azione di Dio, e conduce in tal modo Gesù
risuscitato oltre la storia, là dove siede alla destra del Padre. Neanche la
croce è una semplice azione umana.
L’aspetto puramente umano è presente nelle persone che condussero Gesù alla
croce. Per Gesù, la croce non è un’azione, ma una passione, e una passione
che significa che Egli è un tutt’uno con la volontà divina, un’unione della
quale l’episodio dell’Orto degli Ulivi ci fa vedere l’aspetto drammatico.
Così la dimensione passiva della Sua messa a morte si trasforma nella
dimensione attiva dell’amore: la morte diventa abbandono di se stesso al
Padre per gli uomini. In questo modo l’orizzonte si estende, qui come nella
Resurrezione, ben al di là del puro aspetto umano e ben al di là del puro
fatto di essere stato crocifisso e di essere morto.
Il linguaggio della fede ha chiamato mistero questa eccedenza riguardo al
mero istante storico e ha condensato nel termine mistero pasquale il
nocciolo più intimo dell’avvenimento redentore. Se possiamo dire da allora
in poi che il mistero pasquale costituì il nocciolo dell’opera di Gesù, il
rapporto con la liturgia è già patente; è precisamente questa opera di Gesù
che è il vero contenuto della liturgia. Tramite questa, con la fede e la
preghiera della Chiesa, l’opera di Gesù raggiunge continuamente la storia
per penetrarla.
Nella liturgia il puro istante storico è così trasceso di nuovo ed entra
nell’azione divino-umana permanente della redenzione. In questa Cristo è il
vero soggetto: e l’opera del Cristo, ma in essa Egli attira a sé la storia,
precisamente in questa azione che è il luogo della nostra salvezza.
Il sacrificio rimesso in questione
Tornando al Vaticano II, vi troviamo la seguente descrizione di questi
rapporti: "La liturgia, mediante la quale, soprattutto nel divino sacrificio
dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in
sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli
altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera Chiesa" (ibid. n.
2).
Tutto ciò è diventato estraneo al pensiero moderno e nemmeno trent’anni
dopo il concilio, persino tra i liturgisti cattolici, è oggetto di punti
interrogativi. Oggi chi parla ancora del sacrificio divino dell’Eucaristia?
Certo le discussioni intorno alla nozione di sacrificio sono tornate ad
essere sorprendentemente vive, sia da parte cattolica che protestante. Si
avverte che in un’idea che ha sempre occupato, sotto molte forme, non
soltanto la storia della Chiesa, ma la storia intera dell’umanità, vi deve
esserci l’espressione di qualche cosa di essenziale che riguarda anche noi.
Ma nello stesso tempo restano ancora vive ovunque le vecchie posizioni
dell’illuminismo: accusa a priori di magia e di paganesimo, sistematiche
opposizioni tra rito ed ethos, concezione di un cristianesimo che si libera
dal culto ed entra nel mondo profano; teologi cattolici che non hanno per
nulla voglia, per l’appunto, di vedersi tacciare di anti-modernità.
Anche se si ha in un modo o nell'altro il desiderio di ritrovare il concetto
di sacrificio, ciò che alla fine resta è l’imbarazzo e la critica. Così
recentemente Stephan Orth, in un vasto panorama della bibliografia recente
consacrata al tema del sacrificio, ha creduto di riassumere tutta la sua
inchiesta con le constatazioni seguenti: oggi, persino molti cattolici
ratificano il verdetto e le conclusioni di Martin Lutero, per il quale
parlare di sacrificio è il più grande e spaventoso errore, è una maledetta
empietà.
Per questo motivo vogliamo astenerci da tutto ciò che sa di sacrificio,
compreso tutto il canone e considerare solo tutto ciò che è santo e puro.
Poi Orth aggiunge: dopo il Concilio Vaticano II questa massima fu seguita
anche nella Chiesa cattolica, per lo meno come tendenza, e condusse a
pensare anzitutto il culto divino a partire dalla festa della Pasqua, citata
nel racconto della Cena. Facendo riferimento ad un’opera sul sacrificio
edita da due liturgisti cattolici di avanguardia, dice in seguito, in
termini un po’ più moderati, che appare chiaramente che la nozione di
sacrificio della Messa, più ancora di quella del sacrificio della Croce, è
nel migliore dei casi una nozione che si presta motto facilmente a
malintesi.
Non è necessario che dica che io non faccio parte dei "numerosi"
cattolici che considerano con Lutero come il più spaventoso errore e una
maledetta empietà il fatto di parlare di sacrificio della Messa. Si
comprende parimenti che il redattore abbia rinunciato a menzionare il mio
libro sullo Spirito della liturgia che analizza nel dettaglio la nozione di
sacrificio.
La sua diagnosi risulta costernante. È anche vera? Io non conosco questi
numerosi cattolici che considerano come una maledetta empietà il fatto di
comprendere l’Eucaristia come un sacrificio. La seconda diagnosi, più cauta,
secondo la quale si considera la nozione di sacrificio della Messa come
concetto altamente esposto a malintesi, si presta invece a facile
verifica. Ma, se si lascia da parte la prima affermazione del redattore,
non trovandoci che una esagerazione retorica, resta
un problema sconvolgente che occorre risolvere. Una parte non trascurabile
di liturgisti cattolici sembra essere praticamente arrivata alla conclusione
che occorre dare sostanzialmente ragione a Lutero contro Trento nel
dibattito del XVI secolo; si può del pari ampiamente constatare la medesima
posizione nelle discussioni post-conciliari sul sacerdozio.
Il grande storico del Concilio di Trento, Hubert Jedin, indicava questo
fatto nel 1975, nella prefazione all’ultimo volume della sua Storia del
Concilio di Trento: "il lettore attento... non sarà, leggendo ciò, meno
costernato dell’autore, quando si renderà conto del numero di cose, a dire
il vero quasi tutte, che, avendo una volta agitato gli uomini, sono di nuovo
proposte oggi".
Solo a partire da qui, dalla squalifica pratica di Trento, si può
comprendere l’esasperazione che accompagna la lotta contro la possibilità di
celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il messale del
1962. Questa possibilità è la contraddizione più forte e quindi la meno
tollerabile in rapporto all’opinione di colui che ritiene che la fede
nell’Eucaristia formulata a Trento abbia perso il suo valore. Sarebbe facile
raccogliere prove a sostegno di questa situazione.
Faccio astrazione dalla teologia liturgica estrema di Harald Schutzeichel,
che si stacca completamente dal dogma cattolico ed espone, per esempio,
l’affermazione avventurosa che soltanto nel Medioevo l’idea di presenza
reale sarebbe stata inventata. Un liturgista di punta, come David N. Power,
ci insegna che nel corso della storia non solo la maniera con la quale una
verità viene espressa, ma lo stesso contenuto di ciò che vi è espresso può
perdere il suo significato. Mette concretamente questa teoria in rapporto
con gli enunciati di Trento.
Th. Schnitker ci dice che una liturgia rinnovata include egualmente una
espressione differente della fede e dei cambiamenti teologici. Del resto,
secondo lui ci sarebbero teologi, per lo meno nel cerchio della Chiesa
romana e della sua liturgia, che non avrebbero ancora colto la portata di
queste trasformazioni promosse dalla riforma liturgica nel campo della
dottrina della fede. L’opera senza dubbio seria di R. Messner sulla riforma
della Messa in Martin Lutero e l’Eucaristia della Chiesa antica, che
contiene molte interessanti riflessioni, giunge tuttavia alla conclusione
che Lutero comprese la Chiesa antica meglio di Trento.
La gravità di queste teorie consiste nel fatto che frequentemente passano
subito nella pratica. La tesi secondo la quale è la comunità in quanto tale
il soggetto della liturgia passa per una autorizzazione a manipolare la
liturgia secondo la comprensione di ciascuno. Pretese nuove scoperte e le
forme che ne conseguono si diffondono con una stupefacente rapidità e con
una obbedienza riguardo a tali mode che da tempo non esiste più riguardo
alle norme dell’autorità ecclesiastica. Delle teorie nel campo della
liturgia si trasformano oggi molto rapidamente in pratica e la pratica, a
sua volta, crea o distrugge comportamenti e forme di comprensione
La problematica del resto si è nel frattempo aggravata per il motivo che il
movimento più recente dell’illuminismo supera di gran lunga Lutero. Mentre
Lutero prendeva ancora alla lettera i racconti della Istituzione e li poneva
come norma normans, come fondamento dei suoi tentativi di riforma, le
ipotesi della critica storica stanno da tempo provocando un’ampia erosione
dei testi.
I racconti della Cena appaiono come un prodotto della costruzione liturgica
della comunità; dietro ad essi si cerca un Gesù storico che "naturalmente"
non poteva aver pensato al dono del Suo corpo e del Suo sangue, né aver
compreso la Sua croce come sacrificio di espiazione; bisognerebbe piuttosto
pensare a un pasto d’addio contenente una prospettiva escatologica.
Non solo l’autorità del Magistero ecclesiale è
declassata agli occhi di molti, ma anche la Scrittura, al posto della quale
entrano delle ipotesi pseudo-storiche mutevoli, che in fondo daranno spazio
a qual si voglia arbitrio ed espongono la liturgia alla mercé della moda.
Laddove sulla base di tali idee si manipola sempre più liberamente la
liturgia, i credenti sentono che in realtà nulla vi è celebrato ed è
comprensibile che abbandonino la liturgia e con questa la Chiesa.
I principi della ricerca teologica
Torniamo dunque alla questione fondamentale: è giusto qualificare
l’Eucaristia di sacrificio divino, oppure è una maledetta empietà? In questo
dibattito occorre per prima cosa stabilire i principali presupposti che
determinano in ogni caso la lettura della Scrittura e conseguentemente le
conclusioni che se ne traggono. Per il cristiano cattolico qui si impongono
due linee ermeneutiche essenziali di orientamento. La prima: noi diamo
fiducia alla Scrittura e ci basiamo sulla Scrittura, non su ricostruzioni
ipotetiche che si collocano al di qua di essa e ricostruiscono a modo loro
una storia nella quale svolge un ruolo fondamentale la domanda presuntuosa
di sapere ciò che si può o ciò che non si può attribuire a Gesù; il che
significa "naturalmente" solo ciò che un erudito moderno vuole attribuire a
un uomo di un tempo che lui stesso ha ricostruito.
La seconda è che noi leggiamo la scrittura nella comunità vivente della
Chiesa e dunque sulla base di decisioni fondamentali, grazie alle quali è
divenuta storicamente efficace e ha precedentemente gettato le basi della
Chiesa. Non bisogna separare il testo da questo contesto vivente. In
questo senso la Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile e
questo è il punto che Lutero, all’alba del risveglio dalla coscienza
storica, non è riuscito a vedere. Egli credeva alla univocità della lettera,
univocità che non esiste e alla quale ha da lungo tempo rinunciato la
storiografia moderna.
Che nella Chiesa nascente, l’Eucaristia sia stata sin dall’inizio compresa
come sacrificio, persino in un testo come la Didachè, difficile e piuttosto
marginale in rapporto alla grande tradizione, è un elemento di
interpretazione di prim’ordine. Ma c’è ancora un altro aspetto ermeneutico
fondamentale nella lettura e nella interpretazione della testimonianza
biblica. Il fatto che io possa o no riconoscere un sacrificio
nell’Eucaristia, così come il Signore l’ha istituita, si collega
essenzialmente alla questione di sapere ciò che io intendo per sacrificio,
dunque a ciò che si chiama pre-comprensione. La pre-comprensione di Lutero,
per esempio, in particolare la sua concezione dell’avvenimento e della
presenza storica della Chiesa, era tale che la categoria di sacrificio, così
come egli la vedeva, non poteva nella sua applicazione all’Eucaristia della
Chiesa apparire che come un’empietà.
I dibattiti ai quali si riferisce Stephan Orth mostrano quanto confusa e
ingarbugliata è la nozione di sacrificio in quasi tutti gli autori e mettono
in condizione di vedere tutto il lavoro da farsi sull’argomento. Per il
teologo credente risulta evidente che è la stessa Scrittura che deve fargli
da guida verso la definizione essenziale di sacrificio e ciò a partire da
una lettura "canonica" della Bibbia nella quale la Scrittura è letta nella
sua unità e nel suo movimento dinamico, le cui diverse tappe ricevono il
loro significato ultimo da Cristo, al quale questo movimento nella sua
interezza conduce. In questa stessa misura, l’ermeneutica qui presupposta è
una ermeneutica della fede, fondata sulla sua logica interna. Non dovrebbe
essere, in fondo, una evidenza? Poiché senza la fede, la stessa Scrittura
non è la Scrittura, ma un insieme piuttosto disparato di brani letterari, il
che non potrebbe rivendicare oggi alcun significato normativo.
Il sacrificio e la Pasqua
Il compito al quale si fa qui allusione supera di molto, beninteso, i limiti
di una conferenza; mi sia allora permesso di rimandare al mio libro su Lo
spirito della liturgia, nel quale ho cercato di tracciare le grandi linee di
questa questione. Ciò che se ne deduce è che, nel suo percorso attraverso la
storia delle religioni e la storia biblica, la nozione di sacrificio assume
delle connotazioni che vanno ben oltre la problematica che noi leghiamo
abitualmente alla nozione di sacrificio. Di fatto, apre l’accesso alla
comprensione globale del culto e della liturgia: sono queste grandi
prospettive che vorrei tentare di indicare qui. In questo modo devo
necessariamente rinunciare a questioni speciali d’esegesi, in particolare al
problema fondamentale dell’interpretazione dei racconti dell’istituzione,
riguardo alla quale, oltre al mio libro sulla liturgia, ho cercato di
fornire alcuni elementi nel mio contributo su Eucaristia e Missione.
C’è tuttavia una indicazione che non posso impedirmi di dare, Nella
menzionata rassegna bibliografica Stephan Orth dice che il fatto di avere
evitato, dopo il Vaticano II, la nozione di sacrificio, ha condotto a
"pensare il culto divino soprattutto a partire dal rito della Pasqua,
rapportata nei racconti della Cena". Questa formulazione appare a prima
vista ambigua: si pensa il culto divino a partire dalla Cena, oppure dalla
festa di Pasqua che vengono indicate come quadro temporale, ma non vengono
descritte ulteriormente? Sarebbe giusto dire che la Pasqua ebraica, la cui
istituzione è riportata in Es 12, acquista nel Nuovo Testamento un nuovo
senso. Proprio in essa si manifesta un grande movimento storico che va dalle
origini fino alla Cena, alla Croce e alla Resurrezione di Gesù. Ma ciò che
stupisce, soprattutto nella formulazione di Orth, è l’opposizione costruita
tra l’idea di sacrificio e la Pasqua.
I dati veterotestamentari giudaici privano tutto ciò di senso, poiché dalla
legislazione deutoronomistica l’uccisione degli agnelli è legata al tempio;
ma persino nel periodo primitivo, in cui la Pasqua era ancora una festa
familiare, l’uccisione degli agnelli aveva già un carattere sacrificale.
Così, per l’appunto attraverso la tradizione della Pasqua, l’idea di
sacrificio arriva fino alle parole e ai gesti della Cena, dove è presente,
del resto, sulla base di un secondo passaggio veterotestamentario, Es 24,
che riporta la conclusione dell’Alleanza del Sinai. Là è riferito che il
popolo fu asperso col sangue delle vittime condotte in precedenza e che Mosè
disse in quella occasione: "Questo è il sangue dell’alleanza che il Signore
ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole" (Es 24,8).
La nuova Pasqua cristiana è così espressamente interpretata nei racconti
della Cena come un avvenimento sacrificale e, sulla base delle parole della
Cena, la Chiesa nascente sapeva che la croce era un sacrifico, poiché la
Cena sarebbe stata un gesto vuoto senza la realtà della croce e della
Resurrezione, che vi è anticipata e resa accessibile per tutti i tempi nel
suo contenuto interno.
Menziono questa strana opposizione tra la Pasqua e il sacrificio, perché
rappresenta il principio architettonico di un libro recentemente pubblicato
dalla Fraternità San Pio X, che pretende esista una rottura dogmatica tra la
nuova liturgia di Paolo VI e la precedente tradizione liturgica cattolica.
Questa rottura è vista precisamente nel fatto che tutto ormai si interpreta
a partire "mistero pasquale" al posto del sacrificio redentore d’espiazione
del Cristo; la categoria del mistero pasquale sarebbe l’anima della riforma
liturgica ed e proprio questo che pare la prova della rottura verso la
dottrina classica della Chiesa. È chiaro che vi
sono autori che prestano il fianco a un simile malinteso. Ma che
si tratti di un malinteso è assolutamente evidente per chi osserva il fatto
da vicino. In realtà, il termine di mistero pasquale rinvia chiaramente agli
avvenimenti che hanno avuto luogo nei giorni che vanno dal Giovedì Santo al
mattino di Pasqua: la Cena come anticipazione della Croce, il dramma del
Golgota e la Resurrezione del Signore.
Nel termine di mistero pasquale, questi episodi sono visti sinteticamente
come un unico avvenimento, unitario, come "l’opera del Cristo", così come
l’abbiamo inizialmente sentito dire dal Concilio, come una realtà che è
storicamente avvenuta e allo stesso tempo trascende questo preciso istante.
Poiché questo avvenimento è, interiormente, un culto reso a Dio, ha potuto
diventare un culto divino e in questo modo essere presente in ogni istante.
La teologia pasquale del Nuovo Testamento, alla quale abbiamo dato un rapido
sguardo, dà precisamente a intendere questo: l’episodio apparentemente
profano della crocifissione del Cristo è un sacrificio d’espiazione, un atto
salvatore dell’amore riconciliatore del Dio fatto uomo. La teologia della
Pasqua è una teologia della redenzione, una liturgia di un sacrificio
espiatorio. Il pastore è diventato agnello. La visione dell’agnello, che
appare nella storia di Isacco, dell’agnello che rimane impigliato negli
sterpi e riscatta il figlio, è diventata una realtà: il Signore si fa
agnello, si lascia legare e sacrificare, per liberarci.
Tutto ciò è divenuto estremamente estraneo al pensiero contemporaneo.
Riparazione, "espiazione", può forse evocare qualche cosa nel quadro dei
conflitti umani e nella liquidazione della colpabilità che regna tra gli
esseri umani, ma la sua trasposizione al rapporto tra Dio e l’uomo non può
sortire buon esito. Ciò si collega sicuramente al fatto che la nostra
immagine di Dio è impallidita, si è avvicinata al deismo. Non ci si può
più immaginare che l’errore umano possa ferire Dio e ancor meno che debba
avere bisogno di una espiazione, simile a quella che costituisce la croce
del Cristo. Stessa cosa per la sostituzione vicaria: non possiamo affatto
rappresentarci qualche cosa a questo riguardo. La nostra immagine dell’uomo
è diventata troppo individualista per questo.
Così la crisi della liturgia ha per base delle concezioni centrali
sull’uomo. Per superarla, non è sufficiente banalizzare la liturgia e
trasformarla in una semplice riunione o in un pasto fraterno. Ma come uscire
da questi disorientamenti? Come ritrovare il senso di questa realtà immensa
che è nel cuore del messaggio della Croce e della Resurrezione? In ultima
istanza, certamente non attraverso delle teorie e delle riflessioni erudite,
ma solo per mezzo della conversione, per mezzo di un radicale cambiamento di
vita, al quale possono certamente aprire la strada taluni elementi di
discernimento, e vorrei proporre delle indicazioni in questo senso e ciò in
tre tappe.
L’amore, cuore del sacrificio
La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione
essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio
come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo;
distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la
sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali
o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo
direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori,
berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli
nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.
In che cosa consiste allora il sacrificio? Non
nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto
che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando
diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci
permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino.
A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici
veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio
propriamente detto, ed per questo, dice, che il culto doveva essere
trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le
prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo
o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del
prossimo" (La Città di Dio, X, 5).
Ma Agostino sa anche che l’amore diventa vero solo quando conduce l’uomo a
Dio e così lo indirizza verso il suo vero fine; solo qui si può verificare
l’unità degli uomini tra loro. Così il concetto di sacrificio rinvia alla
comunità e la prima definizione tentata da Agostino si trova, a partire da
questo momento, ampliata dal seguente enunciato: "Tutta la comunità umana
riscattata, cioè l’unione e la comunità dei santi è offerta a Dio in
sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso" (ibid. X, 6). E
più semplicemente ancora: "Tale è il sacrificio dei cristiani: la
moltitudine, un solo corpo nel Cristo" (ibid. X, 6).
Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella
conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri.
Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle
differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto
in tutti" (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che
diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola
cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza? Prima di
tutto esiste a questo proposito una netta frontiera tra le religioni fondate
sulla fede di Abramo da una parte e dall’altra parte le altre forme di
religione come le troviamo in particolare in Asia, ma anche — probabilmente
sulla base di tradizioni asiatiche - nel neo-platonismo di impronta
plotiniana.
Là l’unione significa liberazione dalla finitezza che si svela infine come
apparenza, abolizione dell’io nell’oceano del tutto che, di fronte al nostro
mondo di apparenze, e il nulla, tuttavia in verità è il solo vero essere.
Nella fede cristiana, che dà compimento alla fede dl Abramo, l’unità è vista
in modo completamente diverso: è l’unità dell’amore, nella quale le
differenze non sono abolite, ma si trasformano nell’unità superiore degli
amanti, quale si trova, come in archetipo, nell’unità trinitaria di Dio.
Mentre, per esempio, presso Plotino, il finito è decadenza in rapporto
all’unità ed è per così dire il livello del peccato e in quanto tale e al
tempo stesso il livello di ogni male, la fede cristiana non vede il finito
come una negazione, ma come una creazione, come il frutto di un volere
divino, che crea un partner libero, una creatura che non deve essere
abolita, ma deve essere compiuta e inserirsi nell’atto libero dell’amore.
La differenza non è abolita, ma diventa la modalità
di una superiore unità. Questa filosofia della libertà, che è
alla base della fede cristiana e la differenzia dalle religioni asiatiche,
include la possibilità della negazione. Il male non è una semplice decadenza
dell’essere, ma la conseguenza di una libertà male utilizzata. Il cammino
dell’unità, il cammino dell’amore, è perciò un cammino di conversione, un
cammino di purificazione, prende la figura della croce, passa attraverso il
mistero pasquale, attraverso la morte e la Resurrezione. Ha bisogno di un
Mediatore che nella Sua morte e nella Sua Resurrezione diventa per noi la
via, ci attira tutti a lui (Gv 12, 32) e ci esaudisce.
Gettiamo un colpo d’occhio addietro.
Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con
ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo
Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio"
(6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette
semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il
cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più
che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può
avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.
È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo
fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di
trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni
agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è
fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare
tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine
è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il
sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è
mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X,
6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio
della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al
contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza
di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia.
Il nuovo tempio
Vorrei ora richiamare ancora, in modo molto breve, altre due linee di
avvicinamento all’aspetto centrale della questione. A mio avviso, una
indicazione importante è data nella scena della purificazione del tempio, in
particolare nella forma trasmessa da Giovanni. In realtà Giovanni riferisce
una parola di Gesù che nei Sinottici è presente soltanto durante il processo
a Gesù sulle labbra di falsi testimoni e in modo deformato. La reazione di
Gesù riguardo ai mercanti e ai cambiavalute del tempio era nella pratica un
attacco contro le immolazioni di animali che vi erano presentati, dunque un
attacco contro la forma esistente del culto del sacrificio in generale.
È questo il motivo per cui le competenti autorità ebraiche gli domandano,
con pieno diritto, con quale segno Egli giustifichi una tale azione che
equivaleva a un attacco contro la legge di Mosè e le sacre prescrizioni
dell’Alleanza. In proposito Gesù risponde: "Distruggete (dissolvete) questo
tempio e in tre giorni lo faro risorgere" (Gv 2,19).
Questa sottile formula evoca una visione di cui Giovanni stesso dice che
i discepoli non la compresero, se non dopo la Resurrezione, ricordandosi gli
eventi, e che ricondusse a credere alle Scritture e alla Parola detta da
Gesù (Gv 2, 22). Ora infatti comprendono che al momento della
crocifissione di Gesù il tempio è stato abolito: secondo Giovanni, Gesù fu
crocifisso esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano
immolati nel santuario.
Nel momento in cui il Figlio si consegna in persona come agnello, vale a
dire si dona liberamente al Padre e così (pure) a noi, giungono alla fine le
antiche prescrizioni del culto, che non potevano essere altro che un segno
delle realtà autentiche. Il tempio è distrutto. E ormai il Suo corpo
risuscitato — Lui stesso — diventa il vero tempio dell’umanità, nel quale
si svolge l’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma Spirito e verità
non sono concetti filosofici astratti — Lui stesso è la verità, e lo Spirito
è lo Spirito Santo che da Lui procede.
In tal modo, anche qui appare con chiarezza che il
culto non è sostituito dalla morale, ma che il culto antico giunge alla
fine, con le sue sostituzioni e i suoi malintesi, spesso tragici, perché la
realtà stessa, il nuovo tempio, si manifesta: il Cristo risuscitato che ci
attiva, ci trasforma e ci unisce a Lui. Ed è di nuovo chiaro che
l’Eucaristia della Chiesa — per parlare con Agostino — è sacramentum del
vero sacrificium — segno sacro nel quale si produce ciò che è significato.
Il sacrificio spirituale
Infine vorrei segnalare molto brevemente una terza via secondo la quale è
progressivamente diventato più chiaro il passaggio dal culto di
sostituzione, quello della immolazione di animali, al vero sacrificio — alla
comunione, alla offerta del Cristo. Presso i profeti pre-esilici c’era stata
contro il culto del tempio una critica estremamente dura, che Stefano, con
stupito terrore dei dottori e dei sacerdoti del tempio, riprese nel suo
grande discorso. segnatamente questo versetto di Amos: "Mi avete forse
offerto vittime e sacrifici per quarant’anni ne! deserto, o casa di Israele?
Avete preso con voi la tenda di Moloc e la stella del dio Refan, simulacri
che vi siete fabbricati per adorarli" (5,25, At 7,42).
La critica dei profeti fu il presupposto interno che permise ad Israele di
attraversare la prova della distruzione del tempio, dell’epoca senza culto.
Allora ci si trovò nella necessità di mettere in luce in modo più profondo e
nuovo che cosa è il culto, l’espiazione, il sacrificio. Al tempo della
dittatura ellenistica, in cui Israele fu di nuovo senza tempio e senza
sacrificio, il libro di Daniele ci ha trasmesso questa preghiera: "Ora,
Signore, noi siamo diventati più piccoli dl qualunque altra nazione.., ora
non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né
oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare
misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo
spirito umiliato, come olocausti dl montoni e di tori, come migliaia di
grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a Te e ti sia
gradito, perché non c’è delusione per coloro che confidano in te. Ora ti
seguiamo con tutto i! cuore, ti temiamo e cerchiamo il Tuo volto" (Dn,
37-41).
Così lentamente maturò la scoperta che la preghiera, la parola, l’uomo che
prega e diviene lui stesso parola è il vero sacrificio. A questo proposito
la lotta di Israele poté entrare in fecondo contatto con la ricerca del
mondo ellenistico: anche esso cercava il ripiego per uscire dal culto di
sostituzione delle immolazioni di animali, per arrivare a un culto
propriamente detto, alla vera adorazione. In questa prospettiva è maturata
l’idea della loghikè tysia — del sacrificio consistente nella parola che noi
incontriamo nel Nuovo Testamento in Romani 12,1, dove l’apostolo esorta i
credenti ad offrire se stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a
Dio.
Questo è indicato come loghikè latreia, come servizio divino secondo la
parola, ragionevole. Sotto un’altra forma, troviamo la stessa affermazione
in Eb 13, 15: "Per mezzo di Lui — il Cristo — offriamo a Dio
continuamente un sacrificio di fede, cioè il frutto di labbra che confessano
il Suo nome". Numerosi esempi, provenienti dai Padri della Chiesa,
mostrano come queste idee furono sviluppate e divennero il punto di
congiunzione tra la cristologia, la fede eucaristica e la traduzione
pratico-esistenziale del mistero pasquale.
Vorrei solo citare, a titolo di esempio, alcune frasi di Pietro Crisologo,
di cui si dovrebbe in verità leggere l’intero Sermone in questione per poter
seguire questa sintesi da capo a fondo: "Singolare sacrificio, dove il corpo
si offre senza il corpo, il sangue senza il sangue! Vi scongiuro, dice
l’Apostolo, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come
sacrificio vivente. Fratelli questo sacrificio prende ispirazione
dall’esempio di Cristo che immolò il Suo corpo, perché gli uomini abbiano la
vita. Diventa, uomo, diventa il sacrificio di Dio e il suo sacerdote. Dio
cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua promessa, non del tuo sangue.
Il fervore lo placa, non l’uccisione".
Anche qui si tratta di tutt’altra cosa che di un puro moralismo, tanto
l’uomo vi è impegnato nel suo essere totale: sacrificio consistente nella
parola. I pensatori greci avevano già messo questo aspetto in relazione al
logos, alla parola stessa, indicando che il sacrificio della preghiera non
deve essere un puro discorso, bensì la trasformazione del nostro essere nel
logos, l’unione con Lui. Il culto divino implica che noi stessi diventiamo
degli esseri della Parola, che ci conformiamo alla Ragione creatrice. Ma è
nuovamente chiaro che non possiamo ottenere tutto questo da noi stessi e
così tutto sembra di nuovo finire nel nulla, fino al giorno in cui viene il
Logos, il vero, il Figlio, fino al giorno in cui sì fa carne e ci attira a
se stesso nell’esodo della croce.
Questo vero sacrificio, che ci trasforma tutti in sacrificio, vale a dire ci
unisce a Dio, fa di noi degli esseri conformi a Dio, è certamente fissato e
fondato in un avvenimento storico, ma non si trova come una cosa del passato
dietro di noi; anzi diventa contemporaneo e accessibile a noi nella comunità
della Chiesa, che crede e prega, nel suo sacramento: ecco che cosa significa
il sacrificio della Messa. L’errore di Lutero si fondava - ne sono
convinto — su un falso concetto di storicità, in una errata comprensione
dell’unicità (ephapax). Il sacrificio di Cristo non si trova dietro di noi
come una cosa del passato. Raggiunge tutti i tempi ed è presente in noi.
L’Eucaristia non è semplicemente la distribuzione di ciò che viene dal
passato, ma più a fondo è la presenza dei mistero pasquale del Cristo che
trascende ed unisce i tempi. se il Canone romano cita Abele, Abramo, Melchisedec, annoverandoli tra coloro che celebrano l’Eucaristia, lo fa
nella convinzione che anche in essi, i grandi offerenti, il Cristo
attraversava i tempi, oppure meglio che nella loro ricerca essi camminavano
incontro al Cristo. La teologia dei Padri, così come la troviamo nel Canone,
non nega l’insufficienza dei sacrifici precristiani; però il Canone include,
con le figure di Abele e Melchisedec, gli stessi "santi pagani" nel mistero
di Cristo.
La conclusione è precisamente che tutto ciò che precedeva è visto nella
sua insufficienza come ombra, ma pure che il Cristo attira tutto a sé, che
vi è anche nel mondo pagano una preparazione al Vangelo, che anche elementi
imperfetti possono condurre al Cristo, qualunque siano le purificazioni di
cui hanno bisogno.
Il Cristo soggetto della liturgia
Vengo alla conclusione. Teologia della liturgia — questo significa che Dio agisce per mezzo del Cristo nella liturgia
e che noi non possiamo agire che per mezzo Suo e con Lui. Da noi stessi non
possiamo costruire la nostra via verso Dio. Questa via non è percorribile,
eccetto il caso che Dio stesso si faccia la via. E
una volta per sempre: le vie dell’uomo che non pervengono accanto a Dio sono
delle non-vie.
Teologia della liturgia significa inoltre che nella liturgia il Logos stesso
ci parla e non solo parla: viene con il Suo corpo, la Sua anima, la Sua
carne, il Suo sangue, la Sua divinità, la Sua umanità per unirci a Lui, per
fare di noi "un solo corpo". Nella liturgia cristiana tutta la storia della
salvezza, anzi tutta la storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene
assunta e portata al suo compimento. La liturgia
cristiana è una liturgia cosmica —abbraccia la creazione intera che attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8, 19).
Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido
fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile.
Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo, attingendo
alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di
tutti i tempi. Vi sono autentici segni di speranza di questa comprensione
rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare tramite la
mediazione delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani
protestanti.
Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non
deve essere il terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche.
In questi ultimi decenni, congetture di esperti sono entrate troppo
rapidamente nella pratica liturgica. spesso anche passando a lato
dell’autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero
divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella
pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua
grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.
La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo
per inserirci umilmente nello spirito della liturgia a per servire Colui che
è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo. La liturgia non è
l’espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e
cangiante. Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera e di
conseguenza la sua norma è la fede della Chiesa, nella quale la Rivelazione
è accolta. Le forme che si danno alla liturgia possono variare in relazione
ai luoghi e ai tempi, così come i riti sono diversi. Essenziale è il legame
con la Chiesa che, a sua volta, è vincolata dalla fede nel Signore.
L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia, oltre la
frontiera dei luoghi e dei tempi e così ci lascia sperimentare l’unità della
Chiesa, della Chiesa come patria del cuore.
Infine, l’essenza della liturgia è riassunta nella preghiera trasmessa da S.
Paolo (1 Cor 16, 22) e dalla Didaché (10, 6) Maranà tha — il Signore viene —
vieni o Signore! . Nella liturgia si compie già ora la parusia, ma questo
avviene protendendoci verso il Signore che viene e precisamente insegnandoci
ad invocare "Vieni Signore Gesù". Ed essa ci fa sempre percepire ancora oggi
la sua risposta e ce ne fa provare la verità: sì, vengo presto (Ap
22, 1 7-20).