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Il problema dell'orientamento nella celebrazione
[Card. Joseph Ratzinger, Tratto dal libro
La Festa della Fede. Saggi di teologia liturgica Milano: Jaca Book, 1984, pp. 129-136.]
Oggi si discute sì e no sul tema dell'orientamento nella celebrazione. Non
sarebbe certo giusto, dopo l'irrequietezza degli anni passati, sollecitare qui
nuovamente modificazioni esteriori. Tanto più importante pare comunque
un'educazione liturgica che conduca a un adempimento interiore preciso e gli
imprima quell'indirizzo che, per l'Eucarestia, è molto importante. Si deve
parimenti prestare attenzione a possibili atteggiamenti difettosi, che possono
risultare facilmente da un malinteso della riforma. Poiché si tratta di un
problema importante, è opportuno pure riprodurre qui, con alcuni cambiamenti e
integrazioni, una lettera che si occupa di questo argomento.
Il gesuita Everett A. Diederich ha presentato un valido
contributo pubblicato sulla rivista internazionale "Communio" "Das
Gegenwartigwerden Christi bei der Feier der Eucharestie" ("L'attuazione
della presenza di Cristo nell'Eucarestia") ed ha con ciò illustrato
acutamente la dinamica interna della liturgia, il suo graduale progresso nella
rappresentazione al vivo del Cristo (1978, n. 71, pp. 498-508). In questo
saggio si trova, oltre al resto, l'osservazione che la Messa era celebrata
secondo l'antico rito verso l'altare, il che equivale a dire verso il
Santissimo (p. 501). Ciò mi autorizzò a fare la correzione che segue.
Celebrare rivolti al Santissimo non è stato mai il senso della
pregressa posizione del rito (che difficilmente si può caratterizzare con un
"rivolgersi all'altare"). Sarebbe inoltre contro ogni logica teologica, poiché
nelle offerte eucaristiche il Signore si fa presente durante la Messa nello
stesso modo come lo è nel tabernacolo nelle offerte provenienti dalla Messa.
L'Eucarestia verrebbe allora celebrata di Ostia in Ostia, ciò che
evidentemente non ha senso. La direzione interiore della Eucarestia può essere
sempre e soltanto la stessa, cioè dal Cristo nello Spirito Santo verso il
Padre; il problema è solamente come ciò si esprima meglio nell'azione
liturgica.
Il contenuto positivo dell'antico senso della celebrazione non
era dunque l'orientamento al tabernacolo. Esso risiedeva in un duplice
elemento. Ciò che noi oggi chiamiamo "rimozione del sacerdote dal popolo" era
stando al suo significato originario (come ha ripetutamente sottolineato J.A.
Jungmann) un rivolgersi conforme del sacerdote e del popolo (1)
verso il comune atto di adorazione trinitaria, com'era stato ad esempio
introdotto liturgicamente da Agostino, in corrispondenza alla predica
contenuta nella preghiera "Conversi ad Dominum". Questo rivolgersi
conforme esteriore aveva come punto di riferimento comune l'Oriente, cioè si
fondava su di un coinvolgimento del significato simbolico del cosmo nella
celebrazione comunitaria, e questo è un fatto di una certa importanza. Il vero
spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo.
Questa dimensione cosmica dell'Eucarestia si faceva presente nell'azione
liturgica mediante l'inorientamento. L'Oriente oriens era anche notoriamente,
dal segno del sole nascente, il simbolo della resurrezione (e pertanto non
solo espressione cristologica, ma indice pure della potenza del Padre e
dell'opera dello Spirito Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusia.
L'orientamento comune in quel senso riveste quindi, assieme con l'orientamento
cosmico, parimenti un significato attinente alla teologia della resurrezione e
alla teologia trinitaria dell'Eucarestia, e con ciò pure un'interpretazione "parusiale",
una teologia della speranza, nella quale ogni Messa è un incamminarsi verso il
ritorno del Cristo.
Si potrebbe dire succintamente: ciò che P. Diederich definisce
"rivolgersi all'altare" è in realtà espressione di una visuale cosmica e
parusiale della celebrazione eucaristica. Si deve aggiungere che, stando alle
indicazioni di E. Peterson (2), questo
inorientamento della preghiera, che fa del cosmo il segno del Cristo e
pertanto spazio della preghiera, era evidenziato molto precocemente nei luoghi
di riunione dei cristiani mediante un segno di croce sulla parete orientale,
che fu ben presto interpretato come segno del Cristo che ritorna, fino a che
assunse più tardi sempre più in sé il richiamo alla storia della Passione del
Signore: infine il pensiero escatologico scomparve quasi completamente
dall'iconografia della croce. Tuttavia la prescrizione rubricistica del
passato, che si debba porre sull'altare una croce, ha per sfondo questa
tradizione cristiana primitiva.
La croce dell'altare si può qualificare come
un residuo dell'inorientamento rimasto fino ai giorni nostri. In essa fu
conservata la vecchia tradizione, che era a suo tempo strettamente collegata
al simbolo cosmico dell'Oriente, di pregare nel segno della croce il Signore
veniente, volgendovi lo sguardo. Se si vuole quindi parlare di un ben
determinato punto di riferimento dell'abituale maniera della celebrazione
anteriore al Concilio, non si può dire che si celebrava rivolti all'altare o
addirittura al Santissimo, ma si può dire che si celebrava rivolti
all'immagine della croce, che conserva in sé tutta la teologia dell'"Oriens".
Si è avuta in questo senso una continuità che risale alle soglie dell'era
apostolica. Si deve senz'altro ammettere che, almeno fin dal secolo XIX, era
scomparso non solo il senso dell'orientamento cosmico della liturgia, ma che
era appena appena compreso il contenuto dell'immagine della croce quale punto
di riferimento della liturgia cristiana. L'antico orientamento della
celebrazione era divenuto così inespressivo; si poté allora formulare la
locuzione che il sacerdote celebra "alla parete", o addirittura l'idea che
egli celebra "al tabernacolo".
La trionfale vittoria del nuovo orientamento
nella celebrazione va spiegata soltanto sullo sfondo di questo malinteso, che
senza alcun ordine tassativo (o appunto per questo) si è imposto con
un'unanimità e una sollecitudine che non sarebbero nemmeno pensabili senza la
perdita del significato della prassi seguita fino allora. Nei migliori lavori
della scienza liturgica, come nel menzionato saggio di P. Diederich, la nuova
posizione scaturiente dalla dinamica intrinseca del fatto liturgico è spiegata
come un graduale avvicinamento comunitario al Signore, e si è fatto così il
tentativo di trasfondere nell'odierno senso della celebrazione l'essenza
dell'eredità protocristiana.
L'opinione generale non segue certamente questa
linea. Essa è nettamente determinata dal carattere comunitario, fortemente
sentito, della celebrazione eucaristica, nella quale sacerdote e comunità sono
rivolti l'uno di fronte all'altro in un rapporto dialogico. Anche in questo
modo viene sempre espressa una sola dimensione dell'Eucarestia. Il pericolo
consiste nel fatto che il fattore comunitario trasformi la comunità in un
circolo chiuso, che non percepisce più l'esplosione dinamica trinitaria, la
quale conferisce grandezza all'Eucarestia. L'educazione liturgica dovrà
reagire con tutte le sue forze a questa concezione, che coincide con l'idea di
una comunità autonoma e autosufficiente. La comunità non dialoga con se
stessa, ma è protesa in uno sforzo collettivo verso il Signore veniente.
Vorrei fare tre proposte per tale educazione:
- Nella crisi dell'antropocentrismo, di un mondo umano fattosi tutto da
sé, dobbiamo oggi scoprire e ancora scoprire il significato della creazione,
anche se si dovesse nuovamente destare la sensazione che la liturgia investe
il cosmo, che la liturgia cristiana è una liturgia cosmica, una preghiera
corale e un canto corale con tutto ciò che c'è "in cielo, in terra e sotto
terra" (Fil 2, 10), ma corale anche nell'inno di lode del sole e delle stelle.
Anche nella costruzione delle chiese si dovrebbe perciò riflettere nuovamente
che la loro erezione non corrisponda soltanto alla funzionalità planetaria
dell'uomo, ma tener presente che questi edifici sacri si trovano nel cosmo e
invitano il sole a essere un segno della lode di Dio e un segno del mistero di
Cristo per la comunità riunita. Una riscoperta dell'inorientamento mi pare
desiderabile per il recupero di una religiosità che accolga in sé anche le
dimensioni della creazione.
- Nella tradizione, Oriente e immagine della croce, e quindi orientamento
cosmico e storico salvifico della devozione, erano amalgamati; nell'immagine
della croce era a sua volta espressa secondo un'interpretazione forse dapprima
puramente escatologica il memoriale della Passione, la fede nella resurrezione
e la speranza della parusia, e quindi tutta la tensione del concetto cristiano
del tempo, per cui il tempo degli astri è trasformato nel tempo dell'uomo e
nel tempo di Dio, nel tempo che non è Dio, ma che Dio ha per noi. Lo sguardo
alla croce compendia in sé, in qualche modo, anche la teologia dell'icona, che
è una teologia dell'incarnazione e della trasfigurazione; di fronte
all'assenza di immagini dell'Antico Testamento (e dell'Islam) il Nuovo
Testamento mette in evidenza la novità nell'immagine di Dio, verificatasi
nell'incarnazione del Figlio: Dio va incontro ai nostri sensi. Egli è
rappresentabile nell'uomo che è suo Figlio (3). L'epoca
postconciliare ha portato un calo dell'immagine, che Si spiega con molte
ragioni; non possiamo essere tranquilli. Non si dovrebbe ripristinare come
cosa estremamente importante, il significato dell'immagine della croce e
rispondere cosi alla costante incisiva di tutta la tradizione della fede?
Anche nell'attuale orientamento della celebrazione, la croce
potrebbe essere collocata sull'altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli
la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare
insieme lui, il trafitto (Zc 12, 10; Ap 1, 7).
- Suscita sempre in me una certa impressione il fatto che i nostri
fratelli evangelici, nella trasformazione delle forme medioevali, hanno
trovato un ben equilibrato rapporto tra la posizione degli antistiti e della
comunità da un lato e la posizione comune in direzione della croce. Fin dai
primissimi esordi, essi hanno dato un rilievo molto forte al carattere
comunitario del culto e hanno così necessariamente marcato con energia
l'ambito delle parti nelle quali antistite e comunità sono rivolti l'uno verso
l'altra, mentre in passato, nella liturgia cattolica, esso consisteva soltanto
in brevi conversioni per i saluti e per gli inviti a pregare. Ma nell'atto
vero e proprio della preghiera ci si rivolge pur lì insieme all'immagine del
crocifisso. Ritengo che dovremmo apprendere seriamente da questo. Nella
preghiera non è necessario, non è anzi nemmeno conveniente, guardarsi l'uno
con l'altro, e tanto meno nel ricevere la comunione. Dipenderà dalle
disposizioni locali come si possa soddisfare a questi due punti di vista.
Forse l'indicazione data al punto 2. può in molti casi aprire una soluzione
pratica. In un uso esagerato e malinteso della "celebrazione rivolta al
popolo" si è continuato a rimuovere la croce dal mezzo dell'altare perfino
nella basilica di San Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il
celebrante e il popolo. La croce sull'altare non è però un impedimento alla
visuale, ma un punto comune di riferimento. Essa è l'iconostasi, che è
scoperta, non ostacola l'andare l'uno verso l'altro, ma media e significa pure
per tutti l'immagine che concentra e unisce i nostri sguardi. Ardirei
addirittura la tesi che la croce sull'altare non è impedimento ma presupposto
della celebrazione "versus populum". Diverrebbe così nuovamente ricca di
significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si
tratta dell'annuncio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell'altra di
un'adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la
invocazione "conversi ad Dominum": Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al
Signore (4)!
NOTE
1 - Cfr. la recensione di J.A. Jungmann all'opera di Nussbaum,
Der Standort des Liturgen am christlichen Altar vor dem Jahre 1000, due
volumi, Bonn 1965, in "ZkTh", 88 (1966), pp. 445-450.
2 - E. Peterson, "Die geschichliche Bedeutung der judischen
Gebetsrichtung", in: E.P., Fruhkirche, Judentum und Gnosis, Freiburg 1959,
pp. 1-14; dello stesso, "Das Kreuz und die Gebetsrichtung", in E.P.,
Fruhkirche, Judentum und Gnosis; dell'immagine della croce, E. Dinker,
Signum crucis. Aufsätze zum Neuen Testament und zur christlichen
Archäeologie, Tübingen 1967; dello stesso, Das Apsismosaik von S.
Apollinare in Classe, Opladen 1964; P. Stockmeier, Theologie und Kult
des Kreuzes bei Joh. Chrysostomos, Munchen 1966.
3 - Cfr. in argomento Chr. von Schonborn, L'icône du Christ.
Fondements théologiques, Fribourg 1976.
4 - Vorrei qui accennare alle pregevoli considerazioni con cui F.J. Nuss ha reagito alle mie argomentazioni in: "Internat. kath. Zeitschr.",
8 (1979), pp. 573-575. Non dovrebbero inoltre rimanere disattese, in ogni
critica che si possa avanzare a questo proposito, le relative ricerche di Kl.
Gamber; rimando a: Geneinsames Erbe. Liturgische Neubesinnung aus dem Geist
der früheren Kirche, Regensburg 1980, pp. 82-89; Liturgie und
Kirchenbau. Studien zur Geschichte der Messfeier und des Gotteshauses in der
Frühzeit, Regensburg 1976;
Die Reform der romischen Liturgie.
Vorgeschichte und Problematik, Regensburg 1979, pp. 46-52.
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