«Partecipazione attiva»
[Tratto da: Joseph Ratzinger
Introduzione allo spirito della liturgia, pagg. 167-172]
Il Concilio Vaticano II ci ha proposto come
pensiero guida della celebrazione liturgica l'espressione participatio
actuosa, partecipazione attiva di tutti all'Opus Dei, al
culto divino. Ciò a buon diritto: il Catechismo della Chiesa Cattolica,
difatti, sottolinea che l'espressione riguarda il servizio comune, si
riferisce, cioè, a tutto il popolo santo di Dio (cfr. CCC 1069).
In che cosa consiste, però, questa
partecipazione attiva?
Che cosa bisogna fare?
Purtroppo questa espressione è stata molto
presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della
necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare
concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più
spesso possibile.
La parola "partecipazione" rinvia, però, a
un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole
scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale
sia questa "actio" centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della
comunità. Lo studio delle fonti liturgiche permette una risposta che, forse,
in un primo tempo può sorprendere, ma che è del tutto ovvia se si prendono
le mosse dai fondamenti biblici su cui abbiamo riflettuto nella prima parte.
Con il termine "actio", riferito alla
liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione
liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera,
che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per
questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio.
Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica,
poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla liturgia
cristiana, perché essa è il suo centro e la sua forma fondamentale. La
definizione dell'Eucaristia come oratio fu poi una risposta
fondamentale tanto per i pagani che per gli intellettuali in ricerca. Con
questa espressione si diceva infatti a quelli che erano in ricerca: i
sacrifici di animali e tutto ciò che c'era e c'è presso di voi e che non può
appagare nessuno, sono ora liquidati. Al loro posto subentra il
sacrificio-parola. Noi siamo la religione spirituale, in cui ha luogo il
culto divino reso per mezzo della parola; non vengono più sacrificati capri
e vitelli, ma la parola viene rivolta a Dio come a Colui che sostiene la
nostra esistenza e questa parola si unisce alla Parola per
eccellenza, al Logos di Dio che ci innalza alla vera adorazione. Forse è
utile osservare anche che la parola oratio all'inizio non significa
"preghiera" (per questo esisteva il termine prex), ma il discorso
solenne tenuto in pubblico, che ora riceve la sua più alta dignità per il
fatto che si rivolge a Dio, nella consapevolezza che esso proviene da Dio
stesso e da Lui è reso possibile.
Ma finora abbiamo solamente accennalo a ciò
che è centrale. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il
"canone" - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto
del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è
stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in
secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all'agire di Dio. In
questa oratio il sacerdote parla con l'io del Signore - "questo è il
mio corpo", "questo è il mio sangue" - nella consapevolezza che ora non
parla più da se stesso, ma in forza del sacramento che egli ricevuto, che
diventa voce dell'altro che ora parla e agisce. Questo agire di Dio, che si
compie attraverso un discorso umano, è la vera "azione", di cui tutta la
creazione è in attesa: gli elementi della terra vengono trans-sustanziati,
strappati, per cosi dire, dal loro ancoraggio creaturale, ricompresi nel
fondamento più profondo del loro essere e trasformati nel corpo e nel sangue
del Signore. Il nuovo cielo e la nuova terra vengono anticipati.
La vera "azione" della liturgia, a cui noi
tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso. E questa la novità e la
particolarità della liturgia cristiana: è Dio stesso ad agire e a compiere
l'essenziale. Egli introduce la nuova creazione, si rende accessibile, così
che noi possiamo comunicare con Lui in maniera del tutto personale,
attraverso le cose della terra, attraverso i nostri doni.
Ma come possiamo noi avere parte a questa
azione?
Dio e l'uomo non sono del tutto
incommensurabili?
L'uomo, che è finito e peccatore, può
cooperare con Dio, che è infinito e santo?
Egli lo può per il fatto che Dio stesso si è
fatto uomo, che è divenuto corpo e continua, ancora con il suo corpo, a
venire incontro a noi che viviamo nel corpo. L'intero evento, fatto di
Incarnazione, croce, resurrezione e ritorno sulla terra è presente come la
forma con cui Dio prende l'uomo a cooperare con se stesso. Nella liturgia
ciò si esprime, come abbiamo già visto, nel fatto che dell’oratio fa
parte la preghiera di accettazione. Certamente, il sacrificio del Logos è
sempre già accettato. Ma noi dobbiamo pregare perché diventi il nostro
sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel
Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta. E
questo deve essere chiesto nella preghiera. Questa stessa preghiera è una
via, un essere in cammino della nostra esistenza verso l'Incarnazione e la
Resurrezione.
In questa "azione", in questo accostarsi
orante alla partecipazione, non c'è alcuna differenza tra sacerdote e laico.
Indubbiamente, rivolgere al Signore l'oratio in nome della Chiesa e
parlare al suo apice con l'Io di Gesù Cristo, è qualcosa che può accadere
solo in forza del sacramento. Ma la partecipazione a ciò che non è fatto da
alcun uomo, bensì dal Signore stesso e da Lui solo, questo è uguale per
tutti. Per tutti il punto è, secondo quello che si legge in I Cor 6,17,
"unirsi al Signore e diventare così una sola esistenza pneumatica con Lui".
Il punto è che, alla fine, venga superata la
differenza tra l'actio di Cristo e la nostra, che ci sia solamente
una azione, che è allo stesso tempo la sua e la nostra - la nostra per
il fatto che siamo divenuti "un corpo e uno spirito" con Lui.
La singolarità della liturgia eucaristica
consiste appunto nel fatto che è Dio stesso ad agire e che noi veniamo
attratti dentro questo agire di Dio. Rispetto a questo fatto, tutto il resto
è secondario.
E' chiaro poi che si possono distribuire in
maniera sensata le azioni esteriori: leggere, cantare, accompagnare le
offerte. Tuttavia la partecipazione alla liturgia della parola (leggere,
cantare) deve essere distinta dalla celebrazione sacramentale vera e
propria.
Qui dovrebbe essere chiaro a tutti che le
azioni esteriori sono del tutto secondarie.
L'agire dovrebbe venire meno quando arriva
ciò che conta: l’oratio. E deve essere ben visibile che l’oratio
è la cosa che più conta e che essa è importante proprio perché da spazio
all'actio di Dio.
Chi ha capito questo, comprende facilmente
che ora non si tratta più di guardare il sacerdote o di stare a guardarlo,
ma di guardare insieme il Signore e di andargli incontro. La comparsa quasi
teatrale di attori diversi, cui oggi è dato assistere soprattutto nella
preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato
dell'essenziale.
Se le singole azioni esteriori (che di per sé
non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero)
diventano l'essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un
generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia,
che viene anzi ridotto a parodia.
La vera educazione liturgica non può
consistere nell'apprendimento e nell'esercizio di attività esteriori, ma
nell’introduzione nell'actio essenziale, che fa la liturgia,
nell'introduzione, cioè, alla potenza trasformante di Dio, che attraverso
l'evento liturgico vuole trasformare noi stessi e il mondo.
A questo riguardo l'educazione liturgica di
sacerdoti e laici è oggi deficitaria in misura assai triste.
Qui resta molto da fare.