L'essenza della celebrazione eucaristica
secondo il Nuovo Testamento. Ultima cena e sacrificio
di Christopher Robert Abeynaike
Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un
vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell'ultima cena.
Quest'affermazione potrebbe a prima vista, sorprendere, dato che l'autore
della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento esplicito e diretto
all'ultima cena.
L'autore della Lettera agli Ebrei è l'unico scrittore del Nuovo Testamento
che attribuisce a Cristo i titoli di "sacerdote" – o piuttosto, "sommo
sacerdote" – e di "mediatore della Nuova Alleanza". L'autore, come ebreo
imbevuto del pensiero dell'Antico Testamento, rilegge infatti l'azione
salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie
del passato: l'inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte
Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta
ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell'Espiazione, il
Kippur.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali. Nella prima,
Mosè ratificava l'alleanza di Dio con il popolo d'Israele aspergendo il
popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole
"Ecco il sangue dell'alleanza" (Esodo 24, 8; Ebrei 9, 18-22).
Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le
vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il
"Santo dei Santi" dove aspergeva il sangue, compiendo così l'espiazione dei
peccati del popolo (Levitico 16; Ebrei 9, 6-10). Ma secondo quanto dice il
nostro autore: "è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di
capri" (Ebrei 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non
potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza
del peccato (Ebrei 9, 6-10).
L'autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il
preannuncio di:
- un nuovo sacerdote – "Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei
sacerdote per sempre al modo di Melchisedek" (Salmo 110, 4);
- un nuovo sacrificio – "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un
corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per
il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà"
(Salmo 40, 7-9);
- una nuova alleanza – "Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io
stipulerò con la casa d'Israele un'alleanza nuova; non come l'alleanza che
feci con i loro padri. Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi
ricorderò più dei loro peccati" (Geremia 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un
nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una
nuova alleanza.
Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice: "Cristo invece,
venuto come sommo sacerdote di beni futuri [...] non con sangue di capri e
vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario
[del cielo], procurandoci così una redenzione eterna. [...] Il sangue di
Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio,
purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio
vivente. Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza" (Ebrei 9,
11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda. Dove, nella vita di Cristo
avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote
nell'atto di offrire un sacrificio per l'espiazione dei peccati e,
contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell'atto
di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell'ultima cena, dove
Cristo aveva pronunciato le parole: "Questo, è il mio sangue dell'alleanza,
versato per molti, in remissione dei peccati" (Matteo 26, 28).
Dicendo infatti le parole "Questo è il mio sangue dell'alleanza", Cristo, si
manifestava come il mediatore di un'alleanza fondata nel suo proprio sangue
e quindi contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole: "Ecco il
sangue dell'alleanza" (Esodo 24, 8).
Aggiungendo le parole "versato per molti in remissione dei peccati", egli
faceva intendere che l'alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova
Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe
stata assicurata: "Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò
più dei loro peccati" (31, 34).
Inoltre, le parole: "il mio sangue versato per molti in remissione dei
peccati" – dove l'idea di un sacrificio per l'espiazione dei peccati del
popolo è chiarissima – non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro
autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno
dell'Espiazione.
Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell'invisibilità del
cielo – "Entrò una volta per sempre nel santuario" (Ebrei, 9, 12) – si
sarebbe stagliato davanti agli occhi dell'autore il parallelo con l'azione
del sommo sacerdote levitico, il quale dopo aver immolato le vittime entrava
nell'invisibilità del santuario terrestre per compiere l'espiazione dei
peccati aspergendovi il sangue sacrificale.
Potremmo, dunque, affermare che l'ultima cena fosse appunto il momento della
vita di Cristo in cui l'autore della Lettera agli Ebrei avrebbe potuto
riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come
mediatore della Nuova Alleanza.
Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo. Le
parole, invece, sul pane – "Questo è il mio corpo" – avrebbero dovuto far
tornare in mente all'autore la profezia dei salmi, di un nuovo tipo di
sacrificio in contrasto con i sacrifici dell'Antica Alleanza: "Tu non hai
voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Ecco io
vengo per fare, o Dio, la tua volontà" (Salmo 40, 7-9).
L'autore della Lettera infatti commenta al riguardo: "Ed è appunto per
quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del
corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre" (Ebrei, 10, 10).
Infine, il pane e il vino dell'ultima cena, gli stessi doni offerti da
Melchisedek (Genesi 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro autore che
il nuovo sacerdote, manifestandosi nell'offerta del suo corpo alla cena,
fosse appunto – in adempimento del vaticinio del salmo 110, 4 – il sacerdote
"al modo di Melchisedek".
In conclusione, possiamo dire che quando l'autore della Lettera agli Ebrei –
nel cuore della sua epistola, ai versetti 9, 11-15 – parla della
manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l'offerta di
se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e,
contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce
alle parole e alle azioni di Gesù nell'ultima cena.
I versetti immediatamente seguenti lo confermano: "Per questo egli è
mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte
fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima
alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l'eredità eterna che è
stata promessa. Dove, infatti, c'è un testamento (diathéke), è necessario
che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha
valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue"
(Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l'autore effettivamente sta giocando sul duplice senso
della parola greca "diathéke", usata nella versione dei Settanta per
tradurre la parola ebraica "berith", alleanza, mentre nel greco
contemporaneo significava testamento.
Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d'ogni giorno. Come una "diathéke",
un testamento, diventa valida solo alla morte del testatore, così pure la "diathéke",
l'alleanza proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte
per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata
dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca "diathéke", un'alleanza e
un testamento hanno qualcos'altro in comune: il concetto di un'eredità.
L'eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di
Canaan. L'eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del
regno di Dio. Quindi, noi troviamo Cristo che nell'ultima cena si manifesta
non solo nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma
anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del
possesso del regno di Dio: "Io vi dico che da ora non berrò più di questo
frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di
mio Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione: "Per questo egli è
mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte
fosse intervenuta, coloro che sono stati chiamati ricevano l'eredità eterna
che è stata promessa (Ebrei 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l'ultima cena fu:
- un sacrificio in cui Cristo "offrì se stesso a Dio" (Ebrei 9, 14) per la
remissione dei peccati;
- la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo;
- la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in "eredità eterna"
(Ebrei 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (Matteo 26, 29; Luca
22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce doveva seguire
ineluttabilmente. Le parole e le azioni di Cristo all'ultima cena erano,
infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza
la quale non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice.
Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d'Espiazione
era l'ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel
santuario terrestre per portare a compimento l'espiazione dei peccati, così
anche Cristo nella sua ascensione è entrato nel santuario celeste "per
comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore" (Ebrei 9, 24),
"procurandoci così una redenzione eterna" (Ebrei 9, 12). Proprio perché
Cristo "offrì se stesso con uno Spirito eterno" (Ebrei 9, 14), il suo
sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane "sommo sacerdote per
sempre alla maniera di Melchisedek" (Ebrei 6, 20).
Abbiamo dunque, potremmo dire, un "Giorno di Espiazione" che dura per
sempre, cui l'autore si riferisce quando dice: "Il sangue di Cristo
purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio
vivente" (Ebrei 9, 14). E ancora: "Avendo dunque, fratelli, piena libertà di
entrare nel santuario [celeste] per mezzo del sangue di Gesù e un sacerdote
grande sopra la casa di Dio, accostiamoci..." (Ebrei, 10 19-22).
In un altra occasione l'autore parla di cristiani come di un popolo che si è
accostato "al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme
celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e
al sangue dell'aspersione" (Ebrei 12, 22-24). Il "sangue di Gesù" è per il
nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione,
ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto
di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione
eucaristica.
Quel perdurare dell'opera redentrice di Cristo, che l'autore della Lettera
agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo
sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella preghiera liturgica in
cui si afferma che ogni volta che la messa è celebrata "si effettua l'opera
della nostra redenzione" (cfr. "Presbyterorum ordinis" 13). Nei suddetti
passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i
cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo
mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l'eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore
si riferisce dicendo: "Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di
mangiare" (Ebrei 13, 10). San Paolo chiarisce il senso di queste parole
quando nella prima lettera ai Corinzi (10, 14-22) paragona l'eucaristia sia
ai pasti sacrificali dell'Antico Testamento (Levitico 7), sia a quelli dei
pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica
necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il
sacrificio è stato offerto. Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare
al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di
continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione
con il corpo e sangue di Cristo dicendo: "Chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha
mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà
per me" (6, 56-57). Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il
cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso,
su questa terra. Pare che questo sia lo stesso concetto che l'autore della
Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della
celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell'Antico Testamento – che
i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla
presenza di Dio.
Questa indagine sull'insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla
celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero
che essa comprende. Giustamente i padri orientali l'avevano chiamata "sacrificium
tremendum".
È chiaro che la maniera in cui l'eucaristia viene celebrata – la "ars
celebrandi" – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e
deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti. È questa, infatti, la
suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la
preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in
modo particolare durante l'anno sacerdotale in corso, dato che, come ci
ricorda il concilio Vaticano II: "I presbiteri esercitano il loro sacro
ministero soprattutto nel culto eucaristico" (Lumen gentium 28).
(Da "L'Osservatore Romano" del 24 luglio 2009).