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Vetus-Novus a confronto. Guardiamoci dal
neo-protestantesimo
[Di seguito pubblichiamo un opportuno
approfondimento su Lutero e la sua riforma,
invitandovi a riflettere sul suo concreto riprodursi nel nostro oggi]
Da Francesco Agnoli – Klaus Gamber, La liturgia Tradizionale, Fede &
Cultura, Verona 2007, pp. 96, Euro 9,50
Dopo numerosi annunci, dopo varie dichiarazioni e smentite sulla stampa
italiana, il 7 luglio 2007 è stato reso pubblico il motu proprio "Summorum
pontificum cura" con cui Benedetto XVI ha liberalizzato la cosiddetta "Messa
in latino", o "messa tridentina" o "messa di san Pio V".
I mass media nazionali e mondiali hanno dato grande risalto all'evento,
senza però comprendere veramente il cuore e il senso di questa iniziativa
del pontefice. Digiuni di qualsiasi conoscenza liturgica i più si sono
soffermati solo sulla "reintroduzione del latino", riducendo la differenza
tra il vecchio e il nuovo rito alla sola lingua.
Così si sono sprecate le dichiarazioni sulla Chiesa che non sa stare al
passo coi tempi, che rimane sempre indietro, che non sa parlare alla gente
di oggi, che va a rispolverare vecchie abitudini e linguaggi ormai
incomprensibili. In realtà questo provvedimento con cui la messa latina
torna ad avere piena cittadinanza nel mondo cattolico, ha un'importanza
straordinaria, che va ben al di là di un semplice discorso linguistico. E
che si può comprendere solo attraverso un breve esame storico e liturgico,
che illustri le vere differenze tra i due riti e lo spirito che li anima.
Come prima brevissima considerazione si può solo dire che la messa latina
attrae ancora molti fedeli per il suo potente senso del sacro: sacra e
fascinosa, per la sua antichità e universalità, la lingua; sacri e
spirituali, ben più delle canzonette con la chitarra o con i tamburi, i
canti gregoriani, le polifonie e un immenso patrimonio di brani poetici
accumulatisi nei secoli; solenni e maestosi i vecchi altari medievali,
incorniciati dal ciborio, o gli altari barocchi, slanciati verso il cielo;
densi di significato alcuni momenti della liturgia, contrassegnati dal
silenzio, dal senso del mistero, da un profondo spirito di adorazione
espresso anche fisicamente nella consuetudine di inginocchiarsi in più
occasioni e soprattutto nel momento più importante, quello dell'incontro
eucaristico con Gesù… Di tutto questo si è tornati a parlare subito dopo
l'elezione di Benedetto XVI: si è tornati a discutere su quale sia il modo
più giusto, o più bello, o più opportuno, di pregare, di rivolgersi a Dio.
In molti infatti hanno rispolverato alcuni scritti passati, del Cardinal
Ratzinger, e vi hanno trovato una quantità abbondante di riflessioni, di
ricordi, di annotazioni a margine di abusi liturgici, di canto gregoriano e
di fascinose tradizioni dimenticate.
L'autobiografia stessa di Benedetto XVI, "La mia vita", accenna alle
liturgie naziste, con quegli alberi innalzati nelle piazze, come durante la
Rivoluzione Francese, o come ai tempi dell'Irminsur, l'albero sacro ai
Sassoni pagani; ma soprattutto ricorda la liturgia cattolica, che scandiva
il tempo e il ritmo della sua vita di fanciullo: "un misterioso intreccio di
testi e di azioni", "cresciuto nel corso dei secoli dalla Fede della
Chiesa", che "portava in sé il peso di tutta la storia ed era, insieme,
molto di più che un prodotto della storia umana". Eppure quella liturgia,
continuava il Cardinal Ratzinger, era stata dimenticata, accantonata, con
troppa fretta, e troppa superficialità, creando in lui, e in molti altri
Padri conciliari, un certo disagio, la paura di dover assistere,
addirittura, alla "autodistruzione della liturgia", e la tristezza di vedere
"certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del
banale e del mediocre, tale da dare i brividi…"
Ebbene, a queste ed altre riflessioni del Cardinal Ratzinger, hanno fatto
seguito il Sinodo dei vescovi del 2006, in cui Benedetto XVI ha preso la
parola, all'improvviso, per ribadire con forza il carattere anche
sacrificale della Santa Messa, l'esortazione sinodale a ridare impulso alle
adorazioni eucaristiche, e una serie di articoli di personalità laiche,
impegnate a dibattere, come osservatori, o come fedeli, sulla cosiddetta lex
orandi: hanno parlato di liturgia, confrontando quella tridentina e quella
attuale, tra gli altri, Geminello Alvi, Alberto Melloni e Paolo Isotta, sul
"Corriere della sera", e Antonio Socci, alcune volte, sul "Giornale" e su
"Libero". Proprio quest'ultimo ha ricordato come la nuova liturgia in
volgare, il cosiddetto "Novus Ordo Missae", introdotto ufficialmente nel
1970, avesse sollevato le perplessità, oltre che di molti fedeli, e di
importantissimi ecclesiastici come i cardinali Ottaviani e Bacci, anche di
numerosi intellettuali e scrittori dell'epoca: Cristina Campo, Ettore
Paratore, Massimo Pallottino, De Chirico, Salvatore Quasimodo, Eugenio
Montale, Giorgio Bassani, Guido Piovene, Gianfranco Contini, Agatha Christie,
Graham Greene, Augusto del Noce, Maritain e Mauriac, Tito Casini, Giovannino
Guareschi…
Tutti costoro si schierarono a difesa della liturgia tradizionale convinti
di dover salvaguardare un patrimonio religioso e culturale, di canti, di
preghiere e di gesti, antichi e solenni, in cui vedevano incarnati, al
massimo grado, senso estetico, spirito di devozione e contemplazione del
Mistero. E del resto quanti personaggi famosi, atei o miscredenti
intemerati, si sono convertiti, nei secoli, proprio di fronte alla bellezza
della liturgia, e dei templi per essa costruiti? Non si era appassionato
alla Fede, soprattutto grazie alla bellezza della liturgia latina, un esteta
decadente come Joris Karl Huysmans? "Solo la Chiesa - aveva scritto in
"Controcorrente" - ha raccolto l'arte, la forma perduta dei secoli; ha
fissato, perfino nella vile riproduzione moderna, il disegno dei lavori di
oreficeria, ha conservato il fascino dei calici slanciati come petunie, dei
cibori dai fianchi puri; ha mantenuto perfino nell'alluminio, nei finti
smalti, nei vetri colorati, la grazia delle creazioni di una volta?". E non
era stato Paul Claudel a lasciarsi affascinare, e convertire, con la stessa
travolgente immediatezza di Andrè Frossard, dal canto del Magnificat dei
bambini di Notre Dame e di Saint Nicolas du Chardonnet: "in un istante il
mio cuore fu toccato e io credetti… Improvvisamente ebbi il sentimento
lacerante dell'innocenza, dell'eterna infanzia di Dio: una rivelazione
ineffabile!…Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l'emozione era
accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell'Adeste Fideles".
Non serve essere esperti liturgisti, per chiedersi, semplicemente: dov'è
finito, dopo la riforma liturgica, il senso artistico della Chiesa? Dove la
bellezza della sua arte? Dove la possibilità di commuoversi e di piangere,
liberamente, come un bambino che si sente felice ed amato, per un canto
sacro? E dove sono spariti i turiboli, gli incensi, i paramenti fioriti e
colorati, gli altari barocchi, i tabernacoli, i cibori e i baldacchini, gli
organi immensi, che creavano nei cattolici del passato, come avviene ancora
nel mondo ortodosso, l'idea di poter assaporare, nella liturgia, l'atmosfera
del Paradiso?
La realtà è che la riforma liturgica del Novus Ordo Missae del 1970
rappresenta per alcuni aspetti una rottura con la tradizione liturgica della
Chiesa, un avvicinamento alle posizioni protestanti, ed anche una
trascrizione non fedele persino delle prescrizioni conciliari: è lo stesso
Monsignor Annibale Bugnini, già allontanato da Giovanni XXIII dalla
Commissione conciliare della liturgia ("mi si accusa di iconoclastia"), poi
richiamato da Paolo VI, a definire la sua opera "una vera creazione",
"un'immagine completamente diversa da quel che essa era in passato"
(conferenza stampa del 4/1/'67).
[Nota Bene !] Questo, Benedetto XVI lo sa bene, anche per un
fatto: è un tedesco, e conosce, quindi, quanto la nuova liturgia sia nata
per influenza protestante e quanto sia importante invece ritrovare il senso
di un rito, quello cattolico, che esprime una fede ben diversa da quella
riformata. Per capire questo occorre tornare brevemente a Lutero.
Messa cattolica e messa protestante
Di fronte alla crisi che nel quattro-cinquecento attanaglia la Chiesa
cattolica, i suoi vescovi “vagabondi” e parte del suo clero, la riforma
proposta dal monaco agostiniano Lutero viene a toccare il concetto stesso di
sacerdozio, di gerarchia.
L’attacco al papa, non nella singola persona, ma nell’istituzione in quanto
tale, all’“idolo”, si accompagna alla proclamazione del sacerdozio
universale e quindi alla negazione del Sacramento dell’Ordine.
A proposito di questo, a livello pratico, non si tralascia di far leva
sull’anticlericalismo, particolarmente presente in un’epoca in cui il popolo
cristiano poteva assistere alla confusione fra potere spirituale e potere
temporale, alla bramosia di mondanità rappresentata, al sommo livello, da
varie figure di principi vescovi, ma anche da sacerdoti intenti ad
accumulare incarichi e prebende, più che alla cura animarum.
È evidente che una nuova concezione del sacerdozio, unita alla dottrina
della “sola fides”, porti con sé, consequenzialmente, la riforma di ciò che
è compito precipuo del sacerdote, cioè l’amministrazione dei sacramenti e la
celebrazione della Messa. “Io dichiaro - scrive Lutero nell’Omelia della I
di Avvento - che tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassinii e
gli adulteri sono meno malvagi di quell’abominazione che è la messa papista”
.
E nel “Contra Henricum”: Quando la messa sarà distrutta, penso che avremo
distrutto anche il papato... Infatti il papato poggia sulla messa come su
una roccia. Tutto questo crollerà necessariamente quando crollerà la loro
abominevole e sacrilega messa” . Comprendere la riforma liturgica proposta
da Lutero significa allora cogliere le radici profonde, teologiche, della
sua polemica.
Poco serve il solito impelagarsi in una trattazione storica che si riduca ad
una elencazione cronachistica, settoriale - che non coglie l’essenza - delle
preghiere della messa cattolica mantenute e di quelle tolte, dei cambiamenti
accennati e non realizzati, delle tappe successive e talora contraddittorie
di un lento e progressivo delinearsi del rito... Fin da subito infatti
Lutero ha presente il cardine, lo spirito della sua azione, ma chiaramente i
“dettagli”, gli aspetti “secondari” tardano ad allinearsi, a chiarirsi nella
sua mente, ad essere conformati in modo consequenziale. Talora è il
conflitto coi discepoli, talora la volontà di non turbare le “coscienze
deboli” che determinano ripensamenti, passi indietro, la non applicazione di
principi teorici già espressi, o riforme realizzate tacitamente ma non
esplicitate, non dichiarate.
Talora infine è la grande libertà nelle cerimonie, che Lutero ammette in
linea di principio, a rendere poco proficua una analisi solo anatomica e
diacronica della messa protestante. Per tutti questi motivi occorre
identificare originari fili conduttori, immediatamente presenti al
riformatore Lutero, ma che saranno dipanati nel tempo, un nucleo, lo spirito
stesso, e non i dettagli, della riforma liturgica, che consiste
principalmente nei tre aspetti della condanna della nozione di sacrificio,
dell’altare versus populum e dell’uso del volgare.
Condanna della nozione di Sacrificio
Ciò contro cui il monaco riformatore viene precipuamente a scontrarsi è la
tradizionale nozione cattolica di messa, intesa sì come memoriale e
banchetto, ma, prima e soprattutto, come rinnovazione incruenta del
sacrificio della croce, come rievocazione - riattuazione mistica
dell’offerta che Cristo fece di sé al Padre, per la salvezza degli uomini.
Sacrificio che, come nel mondo ebraico, greco, romano... aveva anche una
funzione di ringraziamento, sottomissione e di impetrazione alla divinità,
dando luogo solo in un secondo momento alla consumazione e alla
compartecipazione. “Vi è un rapporto sorprendente - scrive J.Hani - fra
l’altare di Mosè e il nostro (cattolico, nda.) altare. Mosè costruisce un
altare ai piedi del Sinai, offre il sacrificio e fa due metà con il sangue:
una è data al Signore (più esattamente: è versata sull’altare che Lo
rappresenta) e l’altra la asperge sul popolo...”.
Per Lutero, invece, “la messa non è un sacrificio, o l’azione del
sacrificatore... Chiamiamola benedizione, eucarestia, mensa del Signore o
memoriale del Signore. Le si dia qualunque altro nome, purché non la si
macchi col nome di sacrificio” . Il sacrificio quotidiano, rinnovato più
volte ogni giorno nella Messa, toglierebbe infatti valore all’unico
sacrificio di Cristo, avvenuto in un preciso momento storico e sufficiente
da solo a cancellare i peccati del mondo, definitivamente.
Questa concezione luterana porta, soprattutto ne “L’abominio della messa
silenziosa. Il cosiddetto canone”, del 1525, a modificare la parte
essenziale del rito, eliminando i vari accenni al sacrificio presenti:
soprattutto il “Te igitur”, nel quale si dice “haec dona, haec munera, haec
sancta sacrificia illibata” ed il riferimento ad Abele. “Ora va rimosso
anche il secondo scandalo, che è molto più esteso e appariscente, cioè la
convinzione, diffusa un po’ dappertutto, che la Messa sia un sacrificio
offerto a Dio. Anche le parole del Canone sembrano orientate in questo
senso, dove dice «questi doni, queste offerte, questi santi sacrifici», e
poi «questa offerta».
E ancora, si chiede in modo chiarissimo che il sacrificio sia gradito come
quello di Abele, eccetera. Perciò Cristo è chiamato vittima dell’altare” .
Nell’insegnamento cattolico, che Lutero trova riassunto in Pietro Lombardo,
infatti, il sacrificio dell’agnello fatto da Abele, la morte di Cristo,
“agnus Dei” sulla croce, e Cristo come vittima, “hostia”, nella Messa, sono
collegati, in quanto il primo non è che la prefigurazione
veterotestamentaria dei secondi.
Da un punto di vista esteriore, tangibile, occorrerà allora, per Lutero,
abolire la lettura silenziosa del canone, in quanto essa esclude i fedeli,
anch’essi sacerdoti, dalla partecipazione, e soprattutto mette in evidenza
l’idea della messa come “azione del sacrificatore”. Implica infatti che il
prete, e solo lui, sia concepito come “altro Cristo”, e quindi ad un tempo
il sacerdote e la vittima: per questo legge silenziosamente il canone,
separando nettamente, col cambiamento di tono di voce e di atteggiamento, la
parte della narrazione (“Il quale nella vigilia della passione prese...”),
da quella della consacrazione (“Questo è infatti il mio corpo”), e cioè il
memoriale, cui tutti devono far riferimento, dalla azione attuale, reale
ri-attuazione mistica del sacrificio.
Con Lutero così il canone silenzioso perde di significato, divenendo tutta
la cerimonia esclusivamente banchetto e memoriale, e come tale atto
comunitario legato all’ascolto e alla rievocazione di un avvenimento storico
e non più evento precipuamente soprannaturale, il sacrificio,
intrinsecamente efficace (non necessitando della presenza dei fedeli), cui
assistere, comunque, da silenziosi e adoranti spettatori, come ai piedi del
Golgota.
“Atto comunitario”, si è detto, opposto ad un rito che può essere “privato”,
ma che non vuole esserlo in senso assoluto: è il significato del termine
“comunità” a mutare, ad assumere connotazioni diverse. Nel concetto
protestante esso implica una presenza fisica, concreta, l’incontrarsi reale,
attuale, che permette la con-celebrazione e l’ascolto. “L’idea basilare del
Protestantesimo - così sintetizza Laura Ferrari - è la convinzione che Dio
si manifesta nella comunità, in ciascuno dei suoi membri, convocati attorno
alla Santa Mensa per celebrare la Cena e ascoltare la Parola...” .
Il rito cattolico, invece, sacrificale e solo secondariamente conviviale,
comporta la supposizione dell’esistenza, sempre, della comunione fra Chiesa
militante, purgante, negata dai protestanti, e trionfante, che si realizza,
anche in assenza del popolo, per i meriti di Colui “che è il capo del corpo,
che è la Chiesa”, attraverso la ricaduta benefica che ha la celebrazione,
come la morte del Venerdì santo, sull’universo intero. La messa cattolica,
scrive John Bossy, era intessuta di “preghiere di intercessione in vernacolo
per le autorità... i frutti della terra, per gli amici” e “non faceva altro
che unire i vivi coi morti nell’atto del sacrificio”: E papa Gregorio Magno
(Dial. IV 58.2), scriveva: “nell’ora del Sacrificio, alla voce del sacerdote
i Cieli si aprono... a questo Mistero partecipano anche i cori angelici...
l’Alto e il basso si congiungono, il Cielo e la terra si uniscono, il
visibile e l’Invisibile divengono una sola cosa”.
Celebrazione versus populum; tavola al posto dell'altare.
Un’altra riforma “esteriore”, che è però conseguenza di premesse teologiche,
è l’abolizione dell’altare “ad Deum”, inteso come ara sacrificale su cui un
pontefice, nel senso etimologico, realizzi la consacrazione; così Lutero
condanna l’usanza di porre le reliquie dei martiri, immagine del sacrificio
degli uomini che si unisce a quello di Cristo, all’interno dell’altare, in
quanto esso va ora inteso non più come luogo di immolazione, del “martirio”
rinnovato di Gesù, ma come semplice tavola su cui si realizza la “Cena del
Signore”. “...nella vera messa - scrive nel 1526 - fra puri cristiani,
l’altare non dovrebbe rimanere così e il sacerdote dovrebbe sempre
rivolgersi verso il popolo, come ha fatto senza dubbio Cristo nell’Ultima
Cena.
Ma attendiamo che il tempo sia maturato per ciò” . Quasi chiosando il suo
pensiero (che non fu però realizzato in tutti i gruppi protestanti) il
riformatore anglicano Thomas Cranmer, 25 anni dopo, spiegherà che “la forma
di tavola è prescritta per portare la gente semplice dalla idea
superstiziosa della Messa papista al buon uso della Cena del Signore.
Infatti, per offrire un sacrificio occorre un altare; al contrario, per
servire da mangiare agli uomini occorre una tavola” .
Ciò a maggior ragione nell’ottica luterana per cui “il sacerdozio non è
niente altro che servizio” di predicazione della S. Scrittura e quindi un
servizio rivolto al popolo (versus populum): la centralità
dell’azione sacrificale del sacerdote, altro Cristo che si rivolge a Dio
Padre, propria del rito cattolico, viene sostituita con la centralità della
Parola, la “sola scriptura”. “Tutta la terra - sostiene polemicamente nel
trattato intitolato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa” - è piena di
sacerdoti, di vescovi, di cardinali, di ecclesiastici, ma nessuno di loro ha
il compito di predicare, a meno che non riceva una nuova chiamata speciale”
. Questo stesso concetto, la preminenza della Parola e dell’ascolto
scritturale, porta ad esclamare, nel medesimo scritto: “Perché deve essere
lecito celebrare la Messa in greco, latino o ebraico e non anche in tedesco
o in qualsiasi altra lingua?”
L'introduzione del volgare
L’introduzione del volgare al posto del latino è invero un’altra capitale
innovazione, che risulterà funzionale anche alla formazione delle Chiese
nazionali e ad accelerare la separazione del mondo protestante da Roma,
della Germania dal suo passato latino, nella religione, nelle lettere e
nella cultura in genere. Come l’evangelizzatore S. Bonifacio del Wessex,
“Grammaticus Germanicus” e il vescovo Rabano Mauro, autore dell’inno
liturgico “Veni Creator Spiritus” e soprannominato “praeceptor Germaniae”,
avevano portato ai tedeschi, tramite il latino, la Fede cattolica e la
cultura romana antica, “conquistando quella terra alla romanità”, è ancora
in buona parte attraverso la lingua adottata nella liturgia e nei testi
sacri che Lutero e Melantone, giustamente ribattezzati anch’essi “precettori
della Germania”, attuano una rottura con il passato e danno vita ad una
diversa stagione non solo religiosa, ma anche culturale e politica .
In ultima analisi l’adozione del volgare appare funzionale, in genere, a
tutta la concezione della messa luterana, che potremmo definire orizzontale,
contrapposta a quella verticale - dall’uomo a Dio, attraverso il sacerdote
mediatore - del culto sacrificale cattolico, esteriorizzata, quest’ultima, A
negli altari notevolmente rialzati di molte chiese romaniche, nello slancio
di quelle gotiche, con le loro vetrate vertiginose e i trittici dorati, B
nell’uso dell’incenso, C nell’abbondanza delle luci, D nella lussuosa
ricchezza dei paramenti che distinguono notevolmente i ministri di Dio dai
fedeli...
L’“orizzontalità” del culto luterano, invece, nasce da precise convinzioni
teologiche: la messa come cena; il sacerdozio universale comunitario, che si
manifesta soprattutto nell’abolizione della messa privata : il rito non ha
più valore intrinseco - come nel caso in cui, come sul Golgota, il vero
attore sia Cristo, tramite il sacerdote, e non i fedeli - ma necessita, per
la sua stessa validità, della presenza umana, ne è protagonista l’uomo di
fede. Come a dire che la morte di Gesù non sarebbe servita a nulla, se non
vi avesse assistito qualcuno.
È quindi il carattere soprannaturale e divino della cerimonia, completamente
predominante nella concezione cattolica, che viene, per così dire, ridotto,
a favore della dimensione umana, ancor più con riformatori come Zwingli e
Carlostadio che ne assolutizzano il carattere memorialistico, negando ogni
reale presenza divina nella particola.
Questa orizzontalità, forse non completamente slegata dal pensiero
antropocentrico degli umanisti, porta con sé, un po’ come l’architettura
classicheggiante di un Brunelleschi, la ricerca di semplicità esteriore, che
diviene freddezza, nell’addobbo dell’altare, nelle luci e nelle immagini.
Una grande consequenzialità, ancora una volta, guida Lutero nell’istituire
un legame fra Cena e semplicità, concezione sacrificale e solennità.
Lutero scrive infatti: “Così quanto più la Messa è vicina e somigliante a
quella prima messa che Cristo compì nella cena, tanto più è cristiana.
Orbene, la messa di Cristo fu semplicissima, senza nessuna pomposità di
paramenti, di gesti, di canti, di cerimonie: se fosse da offrire come un
sacrificio, parrebbe che Cristo non l’avesse istituita in forma completa” .
I tedeschi della Controriforma, ben più delle altre popolazioni cattoliche,
risponderanno con la ricchezza e la pomposità dello stile barocco, con gli
immensi altari centrali “ad Deum” e l’adozione, più che in passato e più che
altrove, di altari laterali con sfondo dorato, del colore, cioè, che meglio
di ogni altro poteva trasmettere l’idea della Divinità realmente presente;
altri elementi architettonici, come il baldacchino e le balaustre, verranno
usati abbondantemente per enfatizzare la centralità e la sacralità
dell’altare, non tavola, ma Golgota. Una qualche opposizione ci fu,
comunque, anche fra gli stessi seguaci della riforma.
Nel trattato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa”, del 1520, infatti,
Lutero propone di “eliminare... le vesti, gli ornamenti, i canti, le
preghiere, la musica, le luci e tutto quell’apparato abbagliante”; sei anni
dopo invece, nel volumetto citato, “Messa Tedesca...” scrive: “Conserviamo
dunque i paramenti della Messa, l’altare, le luci finché si perdono da
sé...”. Evidentemente il popolo rimaneva in parte legato alle tradizioni, ai
suoi aspetti più visibili, e si ritenne più efficace e indolore una
applicazione graduale delle innovazioni. Che comunque non furono sempre
percepite, se è vero che ancora oggi, viaggiando nella Germania protestante,
si incontrano chiese estremamente semplici e spoglie ed altre dove, per
quanto possa sembrare incongruente con lo spirito protestante, rimangono
ancora numerose immagini e statue di santi e Madonne. Il confronto fra i due
passi sopra citati dimostra anche che il progetto di eliminare i “canti” e
“la musica”, presente nel testo del 1520, era già stato abbandonato almeno a
partire dal 1526. In un primo tempo infatti il monaco riformatore ritiene
che “canti” e “musica” nuocciano alla semplicità e alla sobrietà del rito,
come inutili orpelli, finché, scrive Ernesto Buonaiuti, non “sente
istintivamente di dover fare qualcos’altro per ravvivare il culto e renderlo
atto a riscaldare il cuore della massa credente. Ed ecco che egli scopre
improvvisamente in sé delle inattese qualità poetiche e si dà a scrivere,
dal 1523, canti sacri..." . La sua primitiva convinzione, che sopravvive
solo nella personale avversione per l’organo, è però accolta da alcuni
collaboratori e successori, come Zwingli, Calvino, Zwick: si va dalla
riduzione delle parti cantate e della musica, al canto esclusivo di melopee
salmodiche più o meno elaborate, dalla condanna della polifonia alla
soppressione e distruzione degli organi .
La riforma liturgica non è dunque qualcosa di isolato e limitato, ma
diventa, è bene ribadirlo, anche linguistica, culturale, musicale e
soprattutto architettonica.
La rivoluzione artistica
Non che Lutero abbia contrapposto “una sua nuova concezione architettonica a
quella già esistente, ma automaticamente con la sua predicazione vennero
posti in particolare rilievo determinati spazi architettonici (pulpito,
altare), mentre altri diventavano inutili (cappelle laterali) o venivano
utilizzati non più in ordine alla finalità per cui erano stati
originariamente previsti, ad esempio il coro come luogo privilegiato
riservato al clero” . Le differenze liturgiche si cristallizzano in
differenze fisiche, materiali.
L’edificio cattolico è concepito come Domus Dei: tutto deve parlare
di Lui, la grandiosità, la luminosità, la stessa posizione dell’edificio,
spesso rivolto ad Oriente verso il “Sol Iustitiae” della parusia, e la sua
pianta a croce; è Cristo stesso ad abitarla, nel Tabernacolo, rendendola
Casa di Dio proprio per una presenza stabile e continua. In essa si rinnova,
tramite il sacerdozio gerarchico, il sacrificio della Croce: “l’abside, con
la cattedra episcopale e i seggi per il clero, è l’affermazione
architettonica della gerarchicità della Chiesa; la centralità dell’altare
sotto l’arco trionfale e sotto la solennità del ciborio è la dottrina
plasticamente resa del primato del culto e perciò del sacrificio augusto su
tutti gli altri interessi della comunità” .
La chiesa protestante è invece essenzialmente la casa dell’uomo-credente,
del popolo, dell’assemblea egualitaria che si riunisce per la Cena del
Signore. Scompare il tabernacolo, segno della Presenza divina; scompaiono
spesso reliquie, santi e Madonne, abitatori della simbolica città di Dio, la
Gerusalemme Celeste; non servono più, a rigore, la pianta a croce, la
posizione ad Oriente, l’abside, il coro, il ciborio... Paradigmatiche a
questo proposito la chiesa del Paradiso, il tempio di Rouen (1601), di
Amsterdam (1630) e i settecenteschi templi di Wadenswill, Horgen e Kloten:
sono infatti le prime costruzioni veramente aderenti allo spirito liturgico
dei riformatori, che per lo più si erano dovuti servire di edifici cattolici
preesistenti, limitandosi a singole modifiche e alla reinterpretazione degli
spazi, come, ad es., l’esclusione dell’abside. “Un’ordinanza della chiesa di
Hesse del 1526 esorta «tutti i fedeli a partecipare alla preghiera e alla
lettura... e alla Cena del Signore. Questi atti non saranno più compiuti nel
coro, ma in mezzo alla chiesa...»” .
Anche l’altare perde il vecchio significato e la vecchia forma: diviene
mensa, solitamente semplice tavola, non più sopraelevata, distaccata da
scalinate e balaustre, bensì posizionata in modo da creare un rapporto più
diretto, partecipativo, comunitario, fra celebrante e popolo (a questo fine
si abbandona anche la divisione in navate, che potrebbe impedire una visuale
completa). Evidentemente a questi mutamenti materiali viene dietro
l’attenuazione, la scomparsa o il mutamento dei valori simbolici da essi
espressi; valori che tentano di esprimere l’ineffabile grandezza del Mistero
e del sacro della creazione e del rito. L’edificio propriamente protestante,
senza abside, senza tabernacolo, a pianta rettangolare circolare o
ellittica, deve ricordare una casa umana, il salone dell’Ultima Cena e non
assume quindi più il triplice significato di immagine dell’universo,
dell’uomo, tempio vivente della divinità, e di Dio stesso, come sostenevano
ad es. S. Massimo Confessore e Onorio d’Autun. Costui, nel suo “Specchio del
mondo” - richiamandosi anche alla frase evangelica “Distruggete questo
tempio e in tre giorni lo riedificherò” (Gv. 2,19) - sostiene che, come la
Chiesa-comunità dei fedeli è il Corpo mistico di Cristo, così la
chiesa-edificio ne rappresenta la fisicità: il coro è la testa, il transetto
le braccia, la navata il busto e l’altare, centro di irradiazione e di
convergenza di tutte le linee architettoniche, rappresenta il cuore.
Ancor più, esso è anche immagine di tutto il Corpo di Cristo, definito nella
Bibbia “pietra di scandalo”, “la pietra che i costruttori hanno scartato”,
“pietra” da cui sgorgarono il cibo e la bevanda “spirituale” per gli ebrei
nel deserto (I Cor, 10,4). Per questo viene riverito, baciato, incensato.
È il centro del mondo, come stanno a significare la semisfera perpendicolare
del ciborio e quella del catino absidale, simboli dell’immensità della volta
celeste sopra la terra: non così può essere per l’altare-tavola luterano, e
soprattutto zwingliano, la cui centralità non è autonoma, ma dipende
dall’essere il supporto dell’assemblea, vero centro e cuore del rito . Sono
i riformatori stessi, come Carlostadio e Zwingli, a comprendere il profondo
legame fra credenze ed esteriorizzazione, didascalismo visivo, e quindi a
promuovere la distruzione di cori, altari, chiese intere, e la costruzione
di nuove, di cui le più antiche e tipiche sono “Fleur-de-lys”, “Paradis” e “Terraux”,
a Lione .
In questo quadro si inseriscono anche le tendenze iconoclaste variamente
diffusesi nel mondo protestante, dalle posizioni moderate di Erasmo, alla
forte avversione per le immagini di Zwingli, Calvino e Carlostadio. Quest’ultimo,
proprio a Wüttenberg, la città delle 95 tesi, “inaugurò la “messa
evangelica” abbattendo e bruciando le immagini” e dando così inizio ad un
movimento iconoclasta “serpeggiante in tutta l’Europa del nord” . Benché
l’atteggiamento di Lutero fosse alquanto più prudente, “quasi ovunque il
primo sintomo visibile dell’incipiente grande trasformazione del
cristianesimo fu il ripudio dei santi, espresso in forma di sistematica
distruzione delle loro immagini su tela, su tavola o scolpite in pietra,
intraprese per iniziativa della pubblica autorità, o di una folla inferocita
reduce dai sermoni del cristianesimo riformatore” .
Ripudio dei santi, è bene ricordarlo, che nasce dal terribile pessimismo
antropologico luterano, secondo il quale l'uomo non è capace di compiere
alcunché di buono, ma è solo e soltanto un peccatore, senza libertà, conteso
tra Satana e Dio.
LA COSIDDETTA MESSA DI S. PIO V (o messa latina)
La questione liturgica fu posta all’attenzione dei padri conciliari riuniti
a Trento in diverse occasioni e sotto varie angolature. Ma l’aspetto
essenziale del “carattere sacrificale della messa” fu definito solo nella
XXII sessione, il 17 settembre 1562. In sostanza non si faceva che
riproporre la dottrina che Lutero aveva rifiutato, secondo cui nel “divino
sacrificio, che si compie nella messa, è contenuto e immolato in modo
incruento lo stesso Cristo che si offrì una volta in modo cruento
sull’altare della croce”, trattandosi “di una sola e identica vittima” che
“lo stesso Gesù offre ora per ministero dei sacerdoti, egli che un giorno
offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. Si
ribadiva la liceità del canone a bassa voce, della messa privata, offerta
per i vivi e per i morti, e la non convenienza (“non expedire”) dell’uso
esclusivo del volgare.
Quasi ripercorrendo fedelmente le critiche luterane, al capitolo V si passa
agli aspetti esteriori, si afferma l’importanza di “luci, incensi, vesti...
per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande”, inducendo
attraverso “segni visibili... alla contemplazione delle sublimi realtà
nascoste in questo sacrificio”.
Al capitolo VIII pur escludendo l’uso del volgare nel rito, si chiede però
ai pastori di “spiegare e far spiegare durante la celebrazione delle messe
qualche cosa di quello che ivi si legge”, condannando implicitamente, ma
chiaramente, la consuetudine dei sacerdoti, di tralasciare l’esegesi
biblica; altrove si proscrivono la frivolezza di alcune “musiche in cui, o
con l’organo, o col canto, si mescola qualcosa di lascivo e di impuro”, e
“quelle richieste di elemosina che sembrano piuttosto esazioni insistenti e
indecorose”.
Soprattutto, in conformità con lo spirito generale del Concilio, anche in
questa sessione si danno indicazioni in generale sul comportamento del
clero, sottolineando l’importanza per il popolo dell’ “esempio di coloro che
si sono dedicati al divino maestro” . Non può sfuggire infatti che il
protestantesimo aveva aderito in buona parte per la trascuratezza e
l’indegnità degli stessi sacerdoti e che “l’anticlericalismo e l’odio verso
i preti divenne un movente molto forte dei movimenti evangelici e della
guerra contadina del 1525” . Il compito specifico dell’attuazione pratica
delle prescrizioni conciliari finì così per essere delegato al papa Pio V.
Al suo nome è infatti legato il messale rimasto “in uso sostanzialmente fino
al nostro secolo” . In realtà il messale detto di S. Pio V non fu che la
ripresa, con rare correzioni, del messale in uso nella Curia romana”: “non
si trattava di un nuovo rito, ma del ripristino di antiche tradizioni” .
Il Messale Romano fu promulgato nel 1570, con lo stesso spirito e le stesse
preghiere che Lutero aveva considerato inaccettabili. L’unica, grande novità
era contenuta nella Bolla “Quo Primum Tempore” dello stesso anno, nella
quale si concedeva “l’indulto perpetuo di poter seguire in qualunque chiesa,
senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena”
il nuovo messale. La novità consisteva nell’estendere il rito romano a tutte
le diocesi e agli ordini religiosi che non possedessero un proprio messale
da oltre duecento anni: “poiché nella Chiesa di Dio uno solo è il modo di
salmodiare, così sommamente conviene che uno solo sia il rito di celebrare
la Messa”.
Come nel campo giuridico il Concilio aveva provveduto a ristabilire e
precisare i rapporti gerarchici, restituendo ai vescovi prerogative e potere
sugli inferiori, così sul piano del rito Pio V diede vita ad una unità
liturgica, espressione di uno spirito antitetico rispetto a quello
protestante.
L’esistenza, infatti, di una Chiesa docente, di una fede dogmatica, uguale
per tutti, in cui la lex credendi determina la lex orandi,
tende di per sé, più o meno, a unificare il rito, laddove la credenza nel
libero esame e il soggettivismo protestante comportavano, già a detta di
Lutero, una sostanziale libertà, che diviene subito confusione e anarchia,
nella realizzazione delle cerimonie.
Il Messale Romano imposto all’orbe cattolico da Pio V consacrava dunque la
Liturgia di Roma, “rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua
sobria e piuttosto austera forma”, e alla cui configurazione avevano
contribuito in particolar modo papa Damaso (366 - 384) e S. Gregorio Magno
(590 - 604). Sarebbe rimasta pressoché invariata fino a Pio XII, con
l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa . Come già Lutero,
anche per i protagonisti della Controriforma esiste un rapporto profondo fra
arte e liturgia: solo che questi ultimi, diversamente da Lutero, ma
soprattutto dall’iconoclastico Calvino, si rivolsero all’arte per farne
l’alleata e il mezzo espressivo più evidente di convinzioni teologiche.
“L’immagine sacra poteva contemporaneamente arrivare alla mente attraverso i
suoi contenuti catechistici, al sentimento mediante la bellezza della forma,
alla devozione per il suo inserimento nel contesto liturgico” (biblia
pauperum). È soprattutto nella rappresentazione dell’Ultima Cena,
dell’Istituzione dell’Eucarestia, fonte ed origine della Messa, che possiamo
scorgere i frutti di questa alleanza, la volontà di ribadire attraverso il
linguaggio delle immagini la teologia sacrificale affermata dal Concilio di
Trento. A partire dalla Controriforma infatti la rappresentazione
dell’Ultima Cena si sforza di acquisire una maggiore sacralità e a risaltare
con più evidenza la sua connessione, spirituale, col sacrificio della croce.
Grande appare così la distanza fra la celeberrima, ma anteriore, opera di
Leonardo da Vinci o del Veronese, e l’Istituzione dell’eucarestia
commissionata a Federico Barocci e posizionata, non a caso, dietro l’altare.
In essa infatti “l’artista sostituisce all’evento storico descritto nei
vangeli - la cena intorno al tavolo - la raffigurazione di un rito: gli
apostoli inginocchiati e Cristo che, con gesto sacerdotale, solleva l’ostia
dalla patena e sembra pronunciare le parole consacratorie. L’intenzione è
chiaramente quella di suggerire una continuità tra questa prima comunione
eucaristica e la S. messa celebrata nella stessa cappella Aldobrandini” .
Una tale interpretazione era già stata, è vero, del Beato Angelico, ma a
quest’epoca il significato si fa nuovo, assume quasi una sfumatura polemica
nei confronti della concezione protestante della messa come semplice cena.
Un altra rappresentazione esemplare, ancor più evidente nel suo significato
è la “Messa Miracolosa di S. Gregorio Magno” di Cesare Aretusi e Gabriele
Fiorini: sull’altare vi è il messale aperto su un disegno della
crocifissione e dietro, in posizione frontale rispetto agli astanti, è
rappresentato Gesù che tiene in mano la Croce. Si crea così un collegamento
spontaneo e ineludibile fra Eucarestia e Crocifissione, legame negato da
Lutero, e tra Eucarestia e presenza reale del Corpo e sangue di Cristo,
estraneo alla visione esclusivamente memorialistica e simbolica di Zwingli e
Calvino.
Stesso significato assumono l’immagine usuale del Cristo raffigurato in
piedi sull’altare, il cui sangue sgorgante dalle piaghe confluisce nel
calice, e la nuova consuetudine di posizionare direttamente sull’altare la
scultura del corpo di Cristo, deposto dalla croce e affiancato di solito da
un grande calice eucaristico. Quasi che la messa dovesse essere celebrata
sull’orlo del sepolcro aperto, davanti al cadavere. Ne è un esempio notevole
il “Cristo morto” di Baccio Bandinelli, collocato sull’altare di S. Croce, a
Firenze, nove mesi dopo la pubblicazione del Decreto tridentino sull’Eucarestia.
Alla polemica conciliare contro l’iconoclastia protestante seguono
l’interessamento di diversi pastori alla questione artistica in genere. Nel
1594 viene pubblicato il “Trattato sulle sante Immagini” del Molano; nello
stesso anno l’arcivescovo di Bologna, Gabriele Paleotti, compone un
“Discorso intorno alle Immagini sacre e profane” cui segue, nel 1624, il “De
Pictura sacra” di Federico Borromeo. L’opera forse più importante, e di più
ampi orizzonti, rimane però le “Istructiones Fabricae et Suppellectilis
Ecclesiasticae” di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, del 1572.
A costui, infatti, si deve la diffusione di una norma che sarà gravida di
conseguenze e sul piano della fede e su quello puramente artistico e
architettonico: quella di conservare obbligatoriamente l’eucarestia in un
tabernacolo posto sull’altar maggiore. “L’uso di conservare una parte dell’eucarestia
dopo la messa è antico quanto il cristianesimo”, ma il luogo apposito
“poteva essere nella sacrestia o nella chiesa stessa; oppure,
indifferentemente, la riserva era posata sull’altare, oppure sospesa
(colombe) o infine, conservata nelle cosiddette torri eucaristiche, o anche
in nicchie o edicole murali” . Il riformismo protestante più estremo, che
attribuisce all’ostia un valore puramente simbolico, non può che criticare
radicalmente la riserva eucaristica. D’altra parte Lutero, che credeva nella
presenza reale, negava però il perdurare di questa al di fuori della
comunione e della messa.
L’adorazione del SS. Sacramento in chiesa e nelle processioni, svincolata
dal rito e affermatasi sempre di più dopo l’istituzione della festa del
Corpus Domini, nel 1264, gli appariva assurda ed idolatrica. Si capisce
allora come da parte cattolica imporre la conservazione, peraltro non nuova,
dell’ostia nel tabernacolo dell’altare centrale, equivalesse a sottolineare
la fede in una Presenza Reale costante, capace di favorire anche
l’adorazione extra-liturgica. “Fu subito chiaro - scrive Carlo degli Esposti
- che posto in quel punto centrale e visibilissimo della chiesa e con la
possibilità di aumentare a piacimento le dimensioni, il tabernacolo
rappresentava certamente la presenza reale di Gesù Cristo nel luogo sacro” .
Diveniva anche, da un punto di vista artistico e consequenzialmente al suo
ruolo, il luogo privilegiato per esplicare l’estro e la capacità creativa;
specie nei casi in cui si presentasse sotto forma di edificio
miniaturizzato, di splendida “Domus Dei” con colonne, cupole, fregi e
decorazioni. Altrimenti, l’altra tipologia del tabernacolo prevedeva “un
luogo della riposizione più basso e meno ornato”, paragonato al Sepolcro, e
“sormontato da un luogo dell’esposizione, quasi sempre un aereo padiglione,
sorretto da colonne, chiamato anche a dare evidenza all’intero complesso” .
Da qui, dunque, alla controversia sulla presenza reale e sulla liceità
dell’adorazione, nasce la caratteristica essenziale dell’architettura e
dell’arte sacra di età barocca; a questa centralità corrisponde, sul piano
della religiosità popolare, un incremento della devozione Eucaristica al di
fuori della Messa, nelle processioni del Corpus Domini, nell’adorazione
delle cosiddette “Quarantore”, il tempo trascorso da Gesù nella tomba, nella
pia pratica dei sette Sepolcri, la sera del Giovedì santo. Queste devozioni
assumono un ruolo fondamentale nella vita del popolo, dopo la Controriforma.
Lo coinvolgono nella lunga preparazione degli addobbi; nella disposizione
dei damaschi sulle colonne, di veli e drappi colorati a mo’ di padiglione
nelle volte della navata centrale; di composizioni floreali che in questi
particolari momenti dell’anno cambiano il volto stesso dell’altare e della
chiesa. Anche la città, in occasione delle processioni eucaristiche, specie
del Corpus Domini, si rinnova, si veste a festa. Tappeti fioriti, luminarie,
drappi svolazzanti dalle finestre delle case salutano il corteo, aperto da
un grande carro con raffigurazioni allegoriche, dalle confraternite con i
propri gonfaloni, dagli ordini religiosi, da trombettieri e tamburini; dal
baldacchino solenne sotto il quale viene portato il SS. Sacramento, seguito
dal popolo e dalle autorità politiche in una dimensione sociale di armonia e
compenetrazione fra vita religiosa e vita civile.
DOPO LA RIFORMA DEL 1970 (Novus ordo missae)
Il Messale di san Pio V, con il suo corollario di devozioni e di
manifestazioni artistiche e popolari, rimarrà pressoché invariato fino a Pio
XII, con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa, e, come
si ricordava, alle riforme realizzate dalla Commissione di Annibale Bugnini.
Di fronte a quest'ultime, come si è detto, vi fu lo sconcerto di parecchi
cattolici, ma l'approvazione, al contrario, di molte comunità protestanti,
che vedevano rimosse, senza veri motivi teologici, alcune sostanziali
differenze tra il loro culto e quello cattolico, consacrate dal Concilio di
Trento.
Il Novus Ordo Missae, infatti, come dichiarato anche da Jean Guitton,
si avvicina in diversi punti alla cena protestante, in quanto pone l'accento
più sul carattere memorialistico del rito, che su quello sacrificale;
abolisce di conseguenza la celebrazione ad Deum, sostituita con
quella versus populum, e la comunione in ginocchio; elimina l'uso del
latino, il canone a bassa voce, la messa anche in assenza dei fedeli, il
canto gregoriano, “luci, incensi, vesti... per rendere più evidente la
maestà di un sacrificio così grande”… Infine, privilegiando la liturgia
della Parola rispetto all'Eucarestia, il tabernacolo viene accantonato, e
nel contempo muta completamente l'aspetto fisico ed artistico dell'edificio
chiesastico.
Proprio come le prime chiese veramente protestanti, disadorne, tristi e
spoglie, quelle di Rouen, Wadenswill, Horgen e Kloten, anche le chiese
cattoliche costruite dopo la riforma del 1970, e improntate ad essa,
diverranno più simili ad un "teatro totale" che ad un tempio, ad una casa di
uomini che alla Domus Dei.
È inevitabile, in quest'ottica, che l'altare perda la sua centralità,
legata all'idea della Messa come sacrificio: non è più di pietra, "la pietra
che i costruttori hanno scartato", e non è più il "centro del mondo",
delimitato dalle balaustre, sormontato dalla cupola, simbolo del cielo, e
dal baldacchino.
È il "centro di gravità", insomma, che perde importanza, e con esso,
spesso, ciò che vi gira intorno: il senso del sacro, del mistero e del
bello.
Alla luce di quanto si è detto, dunque, si comprende la necessità di ridare
cittadinanza da un rito, quello latino, o di San Pio V, capace di esprimere
con forza e fascino, le verità di fede cattoliche, secondo un patrimonio di
secoli di storia. A questo patrimonio liturgico appartiene anche il canto
gregoriano, ingiustamente abbandonato da troppi anni.
Eppure il canto è una preghiera fondamentale, tanto che i grandi santi ne
hanno spesso composto qualcuno: si pensi al "Jesu, dulcis memoria" di san
Bernardo, o al "Pange Lingua" di Tommaso, o a canti popolari di immensa
dolcezza, come "Tu scendi dalle stelle" e "Quanno nascette ninno", del
moralista Alfonso de Liguori. Sant'Agostino, nelle sue "Confessioni",
scrive: "Quante lacrime sparsi sentendomi abbracciare il cuore dalla soave
melodia degli inni e dei cantici risonanti nella tua casa!". E aggiunge:
"Chi canta prega due volte". Col canto, infatti, lo spirito si acquieta e si
eleva, chiede e ringrazia, contempla ed esulta, con la totalità della
persona, quasi trascinando con sé il corpo, costretto a seguire, ad ergersi
in elegante postura e a protendersi, in una tensione analoga a quella
dell'anima. L'esperienza religiosa è infatti esperienza d'amore, che nasce
interiormente, per poi sfociare all'esterno: "dentro non po' celare, tanto
grande è il dolzore", poetava Iacopone da Todi, descrivendo l'amore mistico
per Dio. Ma per assorbire l'animo, per raccoglierlo, ed innalzarlo al cielo,
proprio come una vertiginosa vetrata gotica o un altare barocco, il canto
deve essere sacro: gioioso e giubilante, senza scompostezza, poetico e
nobile, senza artificio, dolce e soave, senza affettazione né
sentimentalismo.
Per generare vera gioia, che si imprima nell'animo, e non solo emozioni
passeggere, deve armonizzarsi con la natura dell'uomo, parlare non solo ai
sensi, ma a tutte le facoltà, secondo la loro gerarchia. Deve saper
esprimere la forza e la soavità della fede, ma anche la sua semplicità e
chiarezza; la storicità degli avvenimenti divini, ed il loro carattere
misterioso; la coralità dell'esperienza comunitaria, ma anche
l'individualità dell'anima personale. Troppe volte, invece, nelle cerimonie
odierne, “moderne,nuove”si cantano facili motivetti - forse con l'illusione
di attirare i giovani-, in cui prevalgono il ritmo, la sdolcinatezza delle
parole, quando non, addirittura, l'utopia e l'orizzontalità mondana. Sono,
spesso, canzoni che si potrebbero cantare in un prato, con la chitarra e gli
amici, o sotto il balcone di una ragazza, per una serenata: non preghiere,
ma composizioni di cantautori di musica leggera. Parlano di "pace", di un
"mondo nuovo", di "onde del mare", di pane, non più "angelicus", e di
"strade del mondo". Non vi è più il cielo, né il senso religioso, ma un vago
umanesimo, insipido, degno di futuri Templi dell'Uomo. Non canti che
affidino il quotidiano all'eterno, il divenire all'Essere, la miseria, degna
di misericordia, dell'uomo, alla grandezza e bontà di Dio, ma espressioni di
un cristianesimo decadente e perbenista, fatto di boy-scuots e "buone
azioni".
Sino al punto di cantare il Padre nostro, preghiera insegnata da Gesù
stesso, sull'aria di “Sound of silence”, o di rispolverare, per un congresso
eucaristico, la canzone di John Lennon, "Imagine", in cui si augura un mondo
senza cielo nè religione. Di essa, forse, piacevano la musichetta, l'idea di
pace, senza fondamento né sostanza, e l'atmosfera sognante: come se per
contrastare l'illuminismo, il cinismo, il materialismo e la miscredenza
odierni, occorresse rifugiarsi in una retorica romantica dei "buoni
sentimenti", in un languido infiacchimento dei sensi e della mente, che in
realtà nulla ha che vedere con la dolce fortezza delle virtù evangeliche.
L'esito? Un popolo che non canta più, se non motivetti orecchiabili ma
insulsi, e che nello stesso tempo, protestantizzato, ha spesso perso l'idea
stessa di cosa sia l'Eucarestia, l'incontro carnale, fisico e spirituale,
con Cristo, convinto che la Messa si riduca all'ascolto della Parola e ad un
fare memoria di un fatto antico e ormai passato per sempre…
E così si è realizzato l’antico desiderio di Lutero di distruggere la
“messa papista”.
Ma il 95 % di credenti e sacerdoti e vescovi questo non lo sa, si illudono
di seguire una messa “moderna” “al passo coi tempi” ed altri persino non
vogliono sapere perché ormai impregnati delle moderne eresie, oppure altri
perché impegnati in movimenti comunitari che poggiano i loro “dogmi”
proprio su queste variazioni liturgico-dottrinali che crollerebbero senza il
“sostegno” di queste!
A tutto questo siamo arrivati per la mancanza di fede e di preghiera da
decenni.
Le eresie hanno sempre perseguitato la Chiesa, ma infine, sono sempre state
vinte !
Tratto da ("La liturgia tradizionale. Le ragioni del
motu proprio",
Fede & Cultura, I parte)
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