“Alle radici dell'Altare cristiano”
Pubblichiamo di seguito l'articolo a firma di don Enrico Finotti, parroco di
S. Maria del Carmine in Rovereto (TN), che apparirà sulla rivista Liturgia 'culmen
et fons' di dicembre-gennaio 2011.
Per comprendere in
profondità la natura e la funzione dell’altare nella liturgia cattolica è
indispensabile una adeguata indagine storica sulla sua origine e sul suo
coerente sviluppo. Essa tuttavia non basterà. Infatti, si potranno capire le
successive scelte storiche in ordine all’altare approfondendo la teologia
sottesa, in base alla quale l’altare assunse forme e arredi consoni alla
visione teologica che si voleva trasmettere.
Mensa, Ara e Croce
È
normale che venga individuata l’origine dell’altare cristiano nella mensa
del cenacolo, sulla quale nostro Signore istituì il Sacrificio eucaristico e
il Convivio sacro del suo Corpo e del suo Sangue. Veramente la mensa
dell’ultima cena è il referente originario e originante dell’unico e
definitivo Sacrificio del Nuovo Testamento.
Da qui parte
quell’oblazione pura che dall’oriente all’occidente è offerta fra le genti e
in ogni luogo (Ml 1, 11). Occorre tuttavia approfondire e non fermarsi ad
una facile visione superficiale, che potrebbe svuotare quel Sacrificio della
sua profonda sostanza per fissarsi nella debole espressione di un ordinario
convito umanitario ed usuale. In realtà, quando la famiglia ebraica si
riuniva per la cena pasquale si relazionava in modo intimo e indissolubile
con l’altare del tempio di Gerusalemme, sul quale in antecedenza veniva
immolato l’agnello, che portato sulla mensa domestica consentiva la
celebrazione della Pasqua.
Senza quella vittima
sacrificata sull’ara del tempio e trasferita poi sulla mensa delle case, la
cena pasquale perdeva la sua identità. La relazione all’immolazione
dell’agnello nel tempio era tanto necessaria che, per celebrare la Pasqua,
si doveva alloggiare a Gerusalemme o nelle vicinanze. Non era, infatti,
possibile stare fuori Gerusalemme, ossia lontani dal tempio, perché dal
tempio veniva l’agnello immolato e ad esso rimandava. La cena pasquale
ebraica era dunque una cena sacrificale, un banchetto mediante il quale si
partecipava della vittima sacrificale. Ed ecco che mensa ed ara si trovano
intimamente unite, geneticamente e indissolubilmente interiori l’una
all’altra.
Tolta l’ara è compromessa
totalmente la natura di quella specifica mensa imbandita per la cena
pasquale. Nel cenacolo però il Signore opera la novità e crea la realtà di
quello che fino ad ora era figurato nelle antiche profezie e nel sacrificio
dell’agnello. Egli immola incruentamente se stesso nel contesto ancora
visibile del segno profetico dell’agnello, che come ombra sta ormai per
scomparire e cedere il posto alla realtà, Cristo Gesù, col suo Corpo e il
suo Sangue immolati nelle specie sacramentali del pane e del vino.
È
evidente che, nel mentre lo sguardo del Signore si ritrae ormai dalla figura
dell’agnello che passa e dall’ara del tempio su cui fu immolato, si fissa
con divina preveggenza e immedesimazione mistica sull’ara della Croce, che
lo attende sul Calvario. Egli, infatti, anticipa sacramentalmente sulla
mensa della cena e nella forma del convito il sacrificio cruento che avrebbe
offerto di li a poco sull’altare della Croce. La Croce, quindi entra nel
cenacolo si pianta sulla sua mensa e, mentre l’antica ara del tempio si
ritira, avendo assolto la sua funzione profetica, si erge ormai sovrana
quale sostanza interiore di ciò che si compie nell’ultima cena e che si
ripeterà per tutti i secoli fino alla fine del mondo per comando del Signore
Fate questo in memoria di me. Mensa, Ara e Croce, ecco i tre simboli
interiori e indissolubili del mistero grande che si compie nell’istante consacratorio quando il Signore, pronunziando le parole divine -
Questo è il
mio Corpo… Questo è il mio Sangue…-, istituisce il Sacrificio perenne, senza
più tramonto. Le tre figure di riferimento – mensa, ara e croce – prima
ancora di trovare espressione fisica nell’altare cristiano sono presenti
nella sostanza stessa dell’atto sacrificale di Cristo e costituiscono, ancor
prima di trovare la loro traduzione materiale nella liturgia, la forma
interiore dell’atto sacrificale del Signore. Nel Cenacolo è visibile solo la
Mensa, l’Ara del tempio è richiamata dall’agnello immolato, la Croce ancora
non si vede, ma tutto è presente e unitario nella mente divina e nel cuore
amante del Salvatore.
A questo punto si comprende
bene perché la Chiesa, avuta la libertà religiosa (IV sec.) poté procedere
alla costruzione dell’altare cristiano nel modo che la storia e l’arte ci
attestano. Appena possibile la semplice mensa lignea, usata nelle case nei
secoli della persecuzione, divenne l’altare marmoreo in tutto simile all’ara
sia ebraica che pagana, ma eloquente per esprimere ciò che l’Eucarestia era
in realtà, il Sacrificio di Cristo.
Al contempo tale ara
monumentale e preziosa non abbandonò la mensa, ma la assunse in sé
adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e rivestendosi con una
candida tovaglia. Infine, quando la Croce gloriosa del Signore poté essere
rappresentata come un vessillo di vittoria e annunziare al contempo la sua
Morte, la sua Risurrezione, la sua Ascensione e la sua mirabile Venuta
nella gloria, non tardò a trovare il suo posto più logico e conveniente
proprio sulla mensa di quell’ara sulla quale il sacrificio della Croce si
attualizzava sacramentalmente.
Ed ecco che Mensa, Ara e
Croce, possono costituire anche in modo visibile, nello splendore delle
basiliche monumentali e nella solennità dei riti pontificali, il segno
materiale e prezioso del mistero che si compie sotto la coltre del
sacramento. Non si trattò certamente di una corruzione della semplicità
delle origini, ma di uno sviluppo necessario e legittimo, coerente con la
struttura interiore del mistero e che si esprimerà nel pensiero cristiano
nella successiva sistemazione teologica relativa al dogma eucaristico. In
tal senso, la Mensa, l’Ara e la Croce, sono talmente collegate alle
dimensioni costitutive del mistero fin dalla sua istituzione da essere ormai
ingredienti liturgici insopprimibili nell’edificazione dell’altare
cristiano. Esso, infatti, per esprimere in modo completo ed equilibrato
l’intero mistero del Sacrificio conviviale dell’eucaristia, dovrà avere la
monumentalità dell’Ara, la dignità della Mensa e la gloria del vessillo
della santa Croce.
L’altare sta in alto
L’altare sta in alto e se
non eleva perde la sua natura più vera. Si può in tal modo affermare una
semplice regola: all’altare si ascende come al battistero si discende. Se
l’etimologia alta-ara potrebbe essere ancora discussa e non da tutti è
accettata, la storia dell’ altare cristiano e ancor prima di quello ebraico
e pagano, afferma la sua posizione elevata. In particolare, non potendo
accedere all’altare mediante i gradini per questioni di purità cultuale, nel
tempio di Gerusalemme si saliva mediante una rampa (Es 20, 24-26). Ma è
soprattutto nell’approfondire l’atto liturgico che si celebra sull’altare,
il sacrificio, che emerge in tutta chiarezza la necessità della posizione
alquanto elevata dell’altare. Nell’offerta del sacrificio si cerca il
rapporto con Dio, ci si eleva a lui e tutta la ritualità porta a proiettarsi
verso il cielo, lì dove l’intuito religioso universale contempla il trono di
Dio: il corpo sale i gradini dell’altare, le mani si elevano verso l’alto,
lo sguardo fissa le profondità sideree dei cieli. Ecco le movenze più
spontanee che il sacerdote assume nell’azione sacrificale, ed è logico che
tale spinta interiore sia tradotta visibilmente nei gesti del corpo e
fissata materialmente nella posizione alta e maestosa dell’altare.
Possiamo allora individuare
nella struttura interiore (metafisica) dell’altare due movimenti
profondamente correlati e concordi nell’esprimere la direzione ascendente.
L’altare sale verso la Maestà divina e segue le volute dell’incenso che
ascendono in sacrificio di soave odore. Esso guarda certamente il popolo, ma
non per muoversi verso di esso, quanto per attrarlo nella sua ascesa
cultuale. Per questo l’altare assumerà una posizione otticamente centrale,
ben visibile da tutta l’assemblea liturgica, per poter trainare dolcemente
il popolo di Dio nel movimento ascendente dell’oblazione sacrificale, che
sulla sua mensa si compie nel mistero sacramentale. E’ quindi consono alla
natura più intima dell’altare salire e far salire tutti coloro che
all’altare volgono lo sguardo adorante verso la contemplazione della Gloria
divina.
Il moto esattamente
inverso, invece, si produce per la mensa. Essa deve discendere e rivolgersi
fisicamente il più possibile verso i fedeli. Essa, infatti, porge la vittima
immolata quale cibo e bevanda di salvezza. Questo moto del discendere e del
rendersi prossima all’assemblea liturgica le è quindi necessario e
connaturale ed è pienamente conforme al suo stesso essere mensa che nutre.
Questo duplice ruolo di altare che ascende e attrae e di mensa che discende
e si avvicina ai fedeli si esplica nella liturgia eucaristica che distingue
la prece consacratoria in cui si compie il sacrificio, dai riti di comunione
in cui la vittima immolata è data in cibo ai commensali. Possiamo allora
rilevare che gli altari storici esprimevano la loro natura
ascendente-sacrificale e, senza mai rinunciare alla mensa in essi
incorporata, la integravano ulteriormente con la balaustra, che nella sua
posizione bassa e prossima ai fedeli consentiva la distribuzione del Corpo
del Signore.
Gli altari postconciliari,
invece sembrano aver abbandonato il loro moto saliente in favore di una
totale riduzione al loro ruolo di mensa. In tal modo essi non sono più in
alto, ma in piano e fisicamente il più possibile prossimi all’assemblea. Il
moto discendente e rivolto al popolo proprio della mensa è diventato
esclusivo e totalizzante. Tale realtà si nota anche negli altari resi
definitivi e anche dedicati, certamente solidi nella loro struttura
marmorea, ma sempre e solo mensa. In altri termini si potrebbe dire che
l’intera celebrazione del Sacrificio eucaristico è ridotta prevalentemente
al rito di comunione. Certamente il Sacrificio si compie, ma la nuova
configurazione dell’altare non lo esprime più come prima avendo rinunciato a
modellare in se stesso le caratteristiche classiche che sono proprie
dell’ara sacrificale. Per questo fu facile anche la rimozione così vasta
della balaustra, avendo l’altare stesso assunta la sua funzione.
Ebbene, oggi si ode
l’allarme del Magistero sulla crisi della dimensione sacrificale
dell’Eucaristia. Non potrebbe essere opportuna allora una nuova e più
profonda riflessione sulle modalità liturgiche dell’altare? E’ da ritenere
ormai acquisita ed insuperabile la conformazione dell’altare alla forma
della sola mensa, senza più ricuperare anche quella dell’ara elevata e
maestosa? Non potrebbe nel tempo questa riduzione dell’altare condizionare
l’equilibrio del dogma eucaristico, che si trasmette nel cuore dei fedeli
primariamente nella correttezza del rito e dei luoghi liturgici che ad esso
sono connessi? Gli altari storici sono da congedare definitivamente e il
loro ruolo è ormai del tutto museale? La storia della Chiesa e della sua
liturgia non è forse ancora aperta ad uno sviluppo coerente ed organico, che
potrebbe trovare per l’altare nuove sintesi in perfetto accordo con la
tradizione dei secoli? Credo che il Santo Padre Benedetto XVI stia
richiamando alla Chiesa proprio queste problematiche e in tal senso il suo
Magistero ha la forza della profezia.
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[Fonte: Zenit 22 gennaio 2011]
Di fronte a un documento come questo e alla
distanza di anni luce che separa questi insegnamenti da quelli del cammino NC
non possiamo che dirlo e ripeterlo: abbiamo a che fare con 'unicum' anomalo
con caratteristiche settarie (iniziazione di tipo gnostico, segreto
iniziatico, forte connotazione identitaria separata) che si è infiltrato
nella Chiesa,
niente di più e niente di meno.
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E' un altare, questa 'mensa' neocat?
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Quello che ci meraviglia non è questa loro natura - ognuno è libero di
pensarla come crede - ma il fatto che ciò sia consentito all'interno della
comunità cattolica. In evidenza di fatti innegabili e di violazioni al diritto
canonico nonché al codice penale (dal capovolgimento radicale della dottrina
della Chiesa, allo stravolgimento dei sacri simboli, alla riprogettazione
fantasiosa dei templi e chiese, all'utilizzo di tecniche di manipolazione
delle coscienze, alla provocazione di rotture drammatiche nelle relazioni
familiari e sociali, ecc.) in Vaticano sembra ormai si pensi che non ci sia
più nulla da soppesare, valutare,
discernere, distinguere.
C'è un incendio devastante in atto e qualcuno lo sta trattando come una
innocua fiammella di candela! Nonostante i fatti evidenti e conclamati, possiamo immaginare il duro confronto che si
è svolto all'interno delle Congregazioni per l'analisi dei testi
neocatecumenali, tra chi simpatizza per loro, sedotto dalle parvenze di bene,
architettate ad arte dai responsabili del Cammino e offerte su un piatto
d'argento come le vocazioni, le missioni, il "servizio" alla Chiesa, e chi
invece, ad ogni parola delle loro catechesi, ad ogni aspetto di prassi -
organizzazione - funzione - simboli "altri", ad ogni notizia di
aberrazioni di cui viene a conoscenza, è costretto a segnarsi con la croce,
esterrefatto di tanta impudenza eversiva ed anticristiana...