BENEDETTO XVI
IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO
DEL "DIES NATALIS" DI GIOVANNI MARIA VIANNEY
Cari fratelli nel Sacerdozio,
nella prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno
2009 – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la
santificazione del clero –, ho pensato di indire ufficialmente un “Anno
Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di
Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo.[1]
Tale anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore
rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva
testimonianza evangelica nel mondo di oggi, si concluderà nella stessa
solennità del 2010. “Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù”, soleva dire
il Santo Curato d’Ars.[2] Questa toccante espressione ci permette anzitutto
di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti
costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso
a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero
l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando
di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di
tutta la propria esistenza. Come non sottolineare le loro fatiche
apostoliche, il loro servizio infaticabile e nascosto, la loro carità
tendenzialmente universale? E che dire della fedeltà coraggiosa di tanti
sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro
vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati,
prescelti e inviati?
Io stesso porto ancora nel cuore il ricordo del primo parroco accanto al
quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio
di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare
la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave.
Tornano poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato
e che continuo ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle
diverse nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro
ministero sacerdotale. Ma l’espressione usata dal Santo Curato evoca anche
la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di spine che lo avvolge. Il
pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni di sofferenza in
cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza
umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché
incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i
tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a
volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue?
Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la
Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. È il mondo
a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può
giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione
delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza
della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di
generosi Pastori, di Religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di
Direttori spirituali illuminati e pazienti. A questo proposito, gli
insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a
tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo,
ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente:
“Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro
che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più
preziosi della misericordia divina”.[3] Parlava del sacerdozio come se non
riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad
una creatura umana: “Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse,
morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore
scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”.[4] E
spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il
sacramento dell'Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in
quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo
entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di
compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire
innanzi a Dio, lavandola per l'ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il
sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest'anima viene a morire [per il
peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il
sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà
bene che in cielo”.[5] Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del
santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela
l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio.
Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se
comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di
spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro
Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della
Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci
fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei
tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio;
l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni,
senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è
per voi”.[6]
Era giunto ad Ars, un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito dal
Vescovo che avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria: “Non c'è
molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete”. Era, di
conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi ad incarnare la
presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: “[Mio Dio],
accordatemi la conversione della mia parrocchia; accetto di soffrire tutto
quello che vorrete per tutto il tempo della mia vita!”, fu con questa
preghiera che iniziò la sua missione.[7] Alla conversione della sua
parrocchia il Santo Curato si dedicò con tutte le sue energie, ponendo in
cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana del popolo a lui affidato.
Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter
apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò
che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col
proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta
la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da
tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa
sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il
sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di
dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente
dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la
straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva
del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò
subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di
ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare”
perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli
scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non
ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si
aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia.[8]
L’esagerazione devota del pio agiografo non deve farci trascurare il fatto
che il Santo Curato seppe anche “abitare” attivamente in tutto il territorio
della sua parrocchia: visitava sistematicamente gli ammalati e le famiglie;
organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva ed amministrava
denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua chiesa e
la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence”
(un istituto da lui fondato) e delle loro educatrici; si interessava
dell’istruzione dei bambini; fondava confraternite e chiamava i laici a
collaborare con lui.
Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è
doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri
formano l’unico popolo sacerdotale [9] e in mezzo ai quali, in virtù del
sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all’unità della
carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a
vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10)”.[10] È da ricordare, in questo
contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia
i presbiteri a “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici,
nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa…
Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse
fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza
nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro
riconoscere i segni dei tempi”.[11]
Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava soprattutto con la
testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare,
sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù
Eucaristia.[12] “Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare” – spiegava
loro il Curato - “Si sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il
nostro cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore
preghiera”.[13] Ed esortava: “Venite alla comunione, fratelli miei, venite
da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui...[14] “È vero che
non ne siete degni, ma ne avete bisogno!”.[15] Tale educazione dei fedeli
alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia
particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio
della Messa. Chi vi assisteva diceva che “non era possibile trovare una
figura che meglio esprimesse l’adorazione... Contemplava l’Ostia
amorosamente”.[16] “Tutte le buone opere riunite non equivalgono al
sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa
Messa è opera di Dio»,[17] diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse
tutto il fervore della vita di un prete: «La causa della rilassatezza del
sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere
un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”.[18] Ed aveva
preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della
propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte
le mattine!”.[19]
Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva –
con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti
non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né
limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo
sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né
più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta
rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò
in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far
riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza
sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza
eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe
permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli
cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al
tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e
al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da
tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno.
Si diceva allora che Ars era diventata “il grande ospedale delle anime”.[20]
“La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte
che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!”, dice
il primo biografo.[21] Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando
diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è
Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”.[22] “Questo
buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”.[23]
Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle
parole che egli metteva in bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di
annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia
misericordia è infinita”.[24] Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo
imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che
ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma
anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in esso si deve svolgere. Il
Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti.
Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del
perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente
della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se
qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza,
timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con
un’espressione di toccante bellezza: “Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che
voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come
è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare
volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!”.[25] A chi, invece, si
accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue
stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento
fosse “abominevole”: “Piango perché voi non piangete”,[26] diceva. “Se
almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere
barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!”.[27] Faceva
nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i
propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto
del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e
capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità
dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e
alla sua presenza: “Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per
piacere a Dio... Com’è bello!”.[28] E insegnava loro a pregare: “Mio Dio,
fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami”.[29]
Il Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di
tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso
del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e una simile
testimonianza della verità dell’Amore: Deus caritas est (1 Gv 4,8). Con la
Parola e con i Sacramenti del suo Gesù, Giovanni Maria Vianney sapeva
edificare il suo popolo, anche se spesso fremeva convinto della sua
personale inadeguatezza, al punto da desiderare più volte di sottrarsi alle
responsabilità del ministero parrocchiale di cui si sentiva indegno.
Tuttavia con esemplare obbedienza restò sempre al suo posto, perché lo
divorava la passione apostolica per la salvezza delle anime. Cercava di
aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi
severa: “La grande sventura per noi parroci - deplorava il Santo - è che
l’anima si intorpidisce” [30]; ed intendeva con questo un pericoloso
assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono
tante sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per
evitare che opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva
dal mortificare se stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per
contribuire all’espiazione dei tanti peccati ascoltati in confessione.
Spiegava ad un confratello sacerdote: “Vi dirò qual è la mia ricetta: dò ai
peccatori una penitenza piccola e il resto lo faccio io al loro posto”.[31]
Al di là delle concrete penitenze a cui il Curato d’Ars si sottoponeva,
resta comunque valido per tutti il nucleo del suo insegnamento: le anime
costano il sangue di Gesù e il sacerdote non può dedicarsi alla loro
salvezza se rifiuta di partecipare personalmente al “caro prezzo” della
redenzione.
Nel mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i
presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte
testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo
contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta
i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.[32] Perché non nasca un vuoto
esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero,
occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla
Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto
lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La
amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa Parola al punto che essa
realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi il nostro pensiero?”.[33]
Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14) e solo dopo
li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati
ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore
Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli.[34]
Fu proprio l’adesione senza riserve a questo “nuovo stile di vita” che
caratterizzò l’impegno ministeriale del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII
nella Lettera enciclica Sacerdotii nostri primordia, pubblicata nel 1959,
primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, ne presentava la
fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema dei “tre consigli
evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: “Se, per
raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è
imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta
nondimeno a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare
della santificazione cristiana”.[35] Il Curato d’Ars seppe vivere i
“consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua condizione di
presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o di un
monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato
che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere
di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi
poveri, ai suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”,[36] alle sue
famiglie più disagiate. Perciò egli “era ricco per dare agli altri ed era
molto povero per se stesso”.[37] Spiegava: “Il mio segreto è semplice: dare
tutto e non conservare niente”.[38] Quando si trovava con le mani vuote, ai
poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: “Oggi sono povero come voi,
sono uno dei vostri”.[39] Così, alla fine della vita, poté affermare con
assoluta serenità: “Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando
vuole!”.[40] Anche la sua castità era quella richiesta a un prete per il suo
ministero. Si può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare
abitualmente l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto
del cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui
che “la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano
quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un
innamorato.[41] Anche l’obbedienza di san Giovanni Maria Vianney fu tutta
incarnata nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo
ministero. È noto quanto egli fosse tormentato dal pensiero della propria
inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal desiderio di fuggire “a
piangere la sua povera vita, in solitudine”.[42] Solo l’obbedienza e la
passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se
stesso e ai suoi fedeli spiegava: “Non ci sono due maniere buone di servire
Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere servito”.[43] La regola
d’oro per una vita obbediente gli sembrava questa: “Fare solo ciò che può
essere offerto al buon Dio”.[44]
Nel contesto della spiritualità alimentata dalla pratica dei consigli
evangelici, mi è caro rivolgere ai sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato,
un particolare invito a saper cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta
suscitando ai giorni nostri nella Chiesa, non per ultimo attraverso i
Movimenti ecclesiali e le nuove Comunità. “Lo Spirito nei suoi doni è
multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi
inaspettati e in forme prima non immaginate… ma ci dimostra anche che Egli
opera in vista dell’unico Corpo e nell’unità dell’unico Corpo”.[45] A questo
proposito, vale l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis: “Sapendo
discernere quali spiriti abbiano origine da Dio, (i presbiteri) devono
scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto
molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli con gioia e
fomentarli con diligenza”.[46] Tali doni che spingono non pochi a una vita
spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici ma per
gli stessi ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi,
infatti, può scaturire “un valido impulso per un rinnovato impegno della
Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo della speranza e
della carità in ogni angolo del mondo”.[47] Vorrei inoltre aggiungere, sulla
scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni
Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e
può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro
Vescovo.[48] Occorre che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio
Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella
concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme concrete di una
fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva.[49] Solo così i sacerdoti
sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far
fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima
predicazione del Vangelo.
L’Anno Paolino che volge al termine orienta il nostro pensiero anche verso
l’Apostolo delle genti, nel quale rifulge davanti ai nostri occhi uno
splendido modello di sacerdote, totalmente “donato” al suo ministero.
“L’amore del Cristo ci possiede – egli scriveva – e noi sappiamo bene che
uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti” (2 Cor 5,14). Ed aggiungeva:
“Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se
stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor. 5,15). Quale
programma migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato ad
avanzare sulla strada delle perfezione cristiana?
Cari sacerdoti, la celebrazione del 150.mo anniversario della morte di san
Giovanni Maria Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni appena
concluse del 150.mo anniversario delle apparizioni di Lourdes (1858). Già
nel 1959 il beato Papa Giovanni XXIII aveva osservato: “Poco prima che il
Curato d'Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine
Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla
umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di
cui è ben nota, da un secolo, l'immensa risonanza spirituale. In realtà la
vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo
un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla
veggente di Massabielle. Egli stesso aveva per l'Immacolata Concezione della
Santissima Vergine una vivissima devozione, lui che nel 1836 aveva
consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza peccato, e doveva
accogliere con tanta fede e gioia la definizione dogmatica del 1854”.[50] Il
Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci
dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto
egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre”.[51]
Alla Vergine Santissima affido questo Anno Sacerdotale, chiedendole di
suscitare nell’animo di ogni presbitero un generoso rilancio di quegli
ideali di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa che ispirarono il
pensiero e l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente vita di
preghiera e il suo appassionato amore a Gesù crocifisso Giovanni Maria
Vianney alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla
Chiesa. Possa il suo esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di
unità con il Vescovo, tra loro e con i laici che è, oggi come sempre, tanto
necessaria. Nonostante il male che vi è nel mondo, risuona sempre attuale la
parola di Cristo ai suoi Apostoli nel Cenacolo: “Nel mondo avrete
tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). La fede
nel Maestro divino ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari
sacerdoti, Cristo conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars,
lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi,
messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace!
Con la mia benedizione.
Dal Vaticano, 16 giugno 2009
BENEDICTUS PP. XVI
[1] Tale lo ha proclamato il Sommo Pontefice Pio XI nel 1929.
[2] “Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus” (in Le curé d’Ars. Sa
pensée - Son cœur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus,
Foi Vivante, 1966, p. 98). In seguito: Nodet. L’espressione è citata anche
nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1589.
[3] Nodet, p. 101
[4] Ibid., p. 97.
[5] Ibid., pp. 98-99.
[6] Ibid., pp. 98-100.
[7] Ibid., 183.
[8] Monnin A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I,
ed. Marietti, Torino 1870, p. 122.
[9] Cfr Lumen gentium, 10.
[10] Presbyterorum ordinis, 9.
[11] Ibid.
[12] «La contemplazione è sguardo di fede fissato su Gesù. “Io lo guardo ed
egli mi guarda”, diceva, al suo santo Curato, il contadino d'Ars in
preghiera davanti al Tabernacolo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
2715)
[13] Nodet, p. 85.
[14] Ibid., p. 114.
[15] Ibid., p. 119.
[16] Monnin A., o.c., II, pp. 430ss.
[17] Nodet, p. 105.
[18] Ibid., p. 105.
[19] Ibid., p. 104.
[20] Monnin A., o. c., II, p. 293.
[21] Ibid., II, p. 10.
[22] Nodet, p. 128.
[23] Ibid., p. 50.
[24] Ibid., p. 131.
[25] Ibid., p. 130.
[26] Ibid., p. 27.
[27] Ibid., p. 139.
[28] Ibid., p. 28.
[29] Ibid., p. 77.
[30] Ibid., p. 102.
[31] Ibid., p. 189.
[32] Evangelii nuntiandi, 41.
[33] Benedetto XVI, Omelia nella Messa del S. Crisma, 9.4.2009.
[34] Cfr Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea plenaria della Congregazione
del Clero, 16.3.2009.
[35] P. I.
[36] Nome che diede alla casa dove fece accogliere e educare più di 60
ragazze abbandonate. Per mantenerla era disposto a tutto: “J’ai fait tous
les commerces imaginables”, diceva sorridendo (Nodet, p. 214)
[37] Nodet, p. 216.
[38] Ibid., p. 215.
[39] Ibid., p. 216.
[40] Ibid., p. 214.
[41] Cfr Ibid., p. 112.
[42] Cfr Ibid., pp. 82-84; 102-103.
[43] Ibid., p. 75.
[44] Ibid., p. 76.
[45] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia di Pentecoste, 3.6.2006.
[46] N. 9.
[47] Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi amici del Movimento dei Focolari e
della Comunità di Sant’Egidio, 8.2.2007.
[48] Cfr n. 17.
[49] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Pastores dabo vobis, 74.
[50] Lettera enc. Sacerdotii nostri primordia, P. III.
[51] Nodet, p. 244.
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