Premessa
Tra i cambiamenti introdotti di recente nelle funzioni papali su iniziativa
di Benedetto XVI, due sono quelli che hanno suscitato maggior interesse: la
collocazione della croce[*] al centro dell’altare e la distribuzione della
Comunione ai fedeli inginocchiati [1]. È innegabile che queste scelte, pur
riallacciandosi all’antica tradizione liturgica della Chiesa latina,
costituiscono una novità, non solo rispetto allo stile celebrativo dei
precedenti Pontefici, ma anche rispetto alla prassi comune di quasi tutte le
Chiese di rito romano.
Il dibattito che ne è seguito basterebbe da solo a testimoniare l’importanza
della questione.
In effetti, la posizione della croce e il modo di amministrare la S.
Comunione riguardano direttamente, benché in modo diverso, la duplice
dimensione, sacrificale e sacramentale, dell’Eucaristia. La croce con
l’immagine del Crocifisso, infatti, è l’elemento che rappresenta visivamente
tanto il sacrificio di cui la Messa è rinnovazione incruenta [2], quando lo
stretto legame che unisce Cristo, offerente e vittima, al sacerdote che
agisce in sua persona [3]. La Comunione, poi, è il momento culminante
dell’azione liturgica per quei fedeli che, accostandosi alla sacra mensa,
ricevono non solo la grazia sacramentale, ma anche la fonte e l’autore della
grazia, Gesù Cristo, realmente presente in corpo, sangue, anima e divinità
sotto le specie del pane e del vino [4].
Poiché questi due misteri – la morte redentrice del Cristo e la sua
riattualizzazione sacramentale – costituiscono il centro della religione
cristiana [5], la loro traduzione sul piano rituale non può essere in alcun
modo lasciata al caso o trattata con approssimazione. La necessità dei riti
liturgici, come mezzo sensibile per elevare la mente dei fedeli alla
contemplazione delle realtà spirituali da essi significate, è stata messa
bene in luce dai Padri tridentini [6]. Si tratta di una verità che la Chiesa
ha sempre creduto e messo in pratica [7]. Chi la ridimensiona o ne sminuisce
la portata dimostra di misconoscere la natura umana, la quale, essendo al
tempo stesso sensibile e razionale, «non può elevarsi facilmente senza
sussidi esteriori alla meditazione delle cose divine» [8]. E, del resto,
l’esperienza insegna che, laddove il culto è oggetto di scarse attenzioni,
anche la dottrina non gode sorte migliore.
Ho ritenuto necessario mettere in chiaro questi presupposti perché appaia
con tutta evidenza che la discussione sull’opportunità di certe scelte
liturgiche non è affatto oziosa, vana o inutile. Dall’efficacia del simbolo
dipende la possibilità di elevarsi alla verità che esso rappresenta.
Perfettamente consapevole di questo principio, sintetizzato dagli antichi
nel celebre adagio «lex orandi, lex credendi», la Chiesa ha sempre prestato
la massima attenzione, non solo alla dimensione soprannaturale, ma anche
all’aspetto esteriore e sensibile del culto. E l’attuale Pontefice, nei suoi
scritti e nella pratica, ha più volte ribadito tale concetto.
La prassi attuale
Tornando ai due elementi rituali che sono oggetto del nostro scritto, è
possibile osservare che la prassi oggi prevalente nelle chiese di rito
romano prevede che la croce sia collocata a fianco dell’altare o dietro di
esso, e che i fedeli ricevano la Comunione stando in piedi. Si tratta, com’è
noto, di due significativi cambiamenti rispetto alla normativa vigente nel
diritto liturgico antico, che voleva la croce al centro dell’altare e la
Comunione distribuita ai fedeli inginocchiati.
Introdotte contestualmente alla promulgazione dei Messale riformato (con
qualche ritardo o anticipazione a seconda dei luoghi), le due modifiche in
questione furono motivate in vario modo. La croce, in seguito alla nuova
dislocazione degli altari prevista (anche se non imposta) dalla riforma
liturgica, veniva evidentemente considerata un ostacolo che impediva al
celebrante e al popolo di guardarsi. Quanto alla Comunione, la possibilità
di riceverla in piedi fu giustificata col ripristino di un uso arcaico,
ancora osservato in molti riti orientali, che avrebbe avuto, secondo i
riformatori, il vantaggio di incentivare la partecipazione attiva e
cosciente dei fedeli al sacro rito [9]. Una diffusa tendenza a considerare
vincolanti certe indicazioni puramente facoltative ha fatto sì che tali
riforme entrassero nella pratica generale.
È noto che da qualche tempo il maestro delle cerimonie pontificie ha
ripristinato, per questi due elementi, l’uso antico [10]. Tale decisione ha
suscitato reazioni di segno opposto. Alcuni l’hanno giudicata positivamente
e hanno auspicato una sua più larga diffusione nelle chiese locali. Per
altri, invece, si tratta di una «moda» passeggera, frutto di idee personali
del Papa e destinata a non durare a lungo.
Nonostante la divergenza di opinioni, sembra che tanto i primi quanto i
secondi si accordino su un punto: la mancanza di idee chiare circa la
compatibilità dell’uso antico con le norme liturgiche universali attualmente
in vigore. La domanda che molti si pongono può essere così sintetizzata: la
prassi introdotta di recente nella cappella papale va considerata una deroga
alle leggi generali – consentita al Papa in quanto supremo legislatore, ma
non agli altri – oppure una legittima possibilità contemplata dai libri
liturgici?
Stante questa situazione di incertezza, ci proponiamo, col presente
articolo, di dare uno sguardo al diritto liturgico in vigore per quanto
riguarda la posizione della croce e il modo di amministrare la Comunione, di
spiegare le ragioni in favore dell’uso antico e, infine, di fornire alcune
indicazioni pratiche. Inutile dire che la nostra trattazione si riferisce
soltanto alla forma ordinaria del rito romano: nella forma straordinaria la
croce dev’essere sempre situata al centro dell’altare [11] e la Comunione
ricevuta in ginocchio [12].
Il diritto liturgico
Per quanto riguarda la posizione della croce, l’Ordinamento generale del
Messale romano ci fornisce tutte le indicazioni necessarie. Sarà, quindi,
sufficiente elencarle, spiegarle e trarne le logiche conseguenze.
Innanzi tutto, la croce è annoverata tra le suppellettili indispensabili per
la celebrazione della Messa, non solo all’interno di un luogo sacro, ma
anche fuori di esso: «La celebrazione dell’Eucaristia, nel luogo sacro, si
deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, si può
compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e
il corporale, la croce e i candelabri» [13].
Alla sua importanza sul piano simbolico si allude nella rubrica precedente,
affermando che sull’altare «si rende presente nei segni sacramentali il
sacrificio della croce» [14]. Più oltre si legge che la funzione della croce
consiste nel «ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del
Signore» [15]: essa, pertanto, dovrebbe restare «vicino all’altare anche al
di fuori delle celebrazioni liturgiche» [16]. Del resto, se pensiamo che
nella tradizione ecclesiastica, tanto occidentale quanto orientale, l’altare
rappresenta simbolicamente Gesù Cristo [17], non sarà difficile comprendere
che la croce posta sopra di esso assolve l’indispensabile compito di rendere
esplicita tale corrispondenza.
Quanto alle caratteristiche e alla posizione della croce, l’Ordinamento
generale prescrive: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce,
con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo
radunato» [18]. Collocare la croce sopra l’altare è, dunque, perfettamente
legittimo. Ma si può dire di più. Poiché, nella formulazione delle leggi
liturgiche, le possibilità alternative vengono di solito disposte in ordine
di preferenza, sembra che la dislocazione della croce sopra l’altare sia non
soltanto permessa, ma, a parità di condizioni, raccomandata.
Le rubriche non forniscono nessuna indicazione, neppure indiretta, circa il
punto preciso dell’altare sul quale dovrebbe trovarsi la croce. La scelta,
quindi, spetta ai rettori delle singole chiese. E nulla impedisce loro di
conformarsi all’uso antico che prevede la collocazione della croce al
centro, davanti al sacerdote celebrante, a condizione che le altre
disposizioni stabilite dalle rubriche siano rispettate.
Chiarita la questione della croce, resta da trattare quella della Comunione.
Sull’argomento, il testo italiano dell’Ordinamento generale non brilla per
perspicuità. In esso si afferma che «i fedeli si comunicano in ginocchio o
in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale» [19]. Viene spontanea
una domanda: la congiunzione «o» ha valore esclusivo o inclusivo? Nel primo
caso i fedeli dovrebbero adeguarsi all’unica modalità prescritta dalla
Conferenza Episcopale, mentre nel secondo entrambe le modalità sarebbero
possibili, a patto che la Conferenza Episcopale abbia autorizzato la
Comunione in piedi.
Per avere una risposta sicura è necessario ricorrere al testo latino, nel
quale il termine corrispondente ad «o» è «vel» (inclusivo) [20]. Ne consegue
che, secondo il diritto liturgico oggi vigente, ricevere la Comunione in
ginocchio non è affatto proibito, neppure nei luoghi in cui la Conferenza
Episcopale ha autorizzato la Comunione in piedi, ma si configura, per lo
meno, come legittima possibilità.
Bisogna ammettere, tuttavia, che, per come è esposta nelle rubriche del
Messale italiano, la norma che abbiamo appena analizzato si presta a
numerosi fraintendimenti, dal momento che la sua corretta interpretazione è
legata a una sottigliezza linguistica. Molti, in effetti, ritengono in buona
fede che la Comunione in piedi, nei paesi in cui è stata autorizzata, sia un
obbligo a cui tutti i fedeli devono attenersi. Queste incertezze hanno dato
luogo a diverse situazioni incresciose. Appare dunque indispensabile
ricorrere ad altre fonti del diritto liturgico nelle quali il problema in
esame sia affrontato ex professo e, quel che più conta, con maggior
chiarezza.
Per nostra fortuna, esistono due documenti della S. Congregazione per il
Culto Divino che consentono di risolvere la questione in modo definitivo.
Si tratta di due lettere del 1° luglio 2002, invitate, rispettivamente, a un
Vescovo e a un laico [21]. Costoro, di fronte al fenomeno di alcuni
sacerdoti che erano soliti negare la Comunione a chi si presentava a
riceverla in ginocchio, si domandavano se tale atteggiamento fosse lecito.
In entrambe le risposte, la Congregazione, dopo aver dichiarato che
«qualsiasi rifiuto della Santa Comunione ad un fedele sulla base del suo
modo di presentarsi sia una grave violazione di uno dei più fondamentali
diritti del fedele cristiano, precisamente quello di essere assistito dai
suoi Pastori per mezzo dei Sacramenti (CIC 213)», coglie l’occasione per
precisare il senso della rubrica sopra esaminata: «Anche ove la
Congregazione abbia approvato norme sulla posizione del fedele durante la
Santa Comunione, in accordo con gli adeguamenti ammessi alla Conferenza
Episcopale dall’Institutio Generalis Missalis Romani, 160, comma 2,
ciò è stato fatto colla clausola per cui su tale base non si potrà negare la
Santa Comunione ai comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi».
Confrontando queste disposizioni con l’Ordinamento generale del Messale, si
possono trarre due conclusioni che riassumono in sé tutta la normativa
attuale in materia. Primo, la distribuzione della santa Eucaristia ai fedeli
inginocchiati è una prassi del tutto legittima. Secondo, spetta al singolo
fedele, senza bisogno di previo accordo col celebrante (salvo ragioni
particolari), scegliere la posizione che preferisce: la Congregazione parla
infatti di «comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi» [22].
Da tutto ciò emerge che ricevere la Comunione in ginocchio non è
semplicemente una legittima possibilità, ma un vero e proprio diritto di
ciascun fedele, che nessun sacerdote può negare, limitare o ignorare [23].
Ragioni a favore dell’uso antico
Abbiamo fin qui cercato di rispondere alla domanda che dà il titolo al
presente articolo. Prima di concludere con alcune indicazioni pratiche,
resta da vedere se questo uso antico, di cui abbiamo dimostrato la
legittimità giuridica, offra anche dei vantaggi a livello liturgico e
pastorale rispetto alla prassi comune.
A proposito della posizione della croce, il card. Ratzinger osserva: «Anche
nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere
collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino
insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme lui,
il trafitto (Zc 12, 10; Ap 1, 7)» [24]. E motiva la sua proposta con
argomenti che a me paiono molto convincenti:
«Nella preghiera non è necessario, non è anzi nemmeno conveniente, guardarsi
l’uno con l’altro, e tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un uso
esagerato e malinteso della “celebrazione rivolta al popolo” si è continuato
a rimuovere la croce dal mezzo dell’altare perfino nella basilica di San
Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il celebrante e il popolo.
La croce sull’altare non è però un impedimento alla visuale, ma un punto
comune di riferimento. Essa è l’iconostasi, che è scoperta, non ostacola
l’andare l’uno verso l’altro, ma media e significa pure per tutti l’immagine
che concentra e unisce i nostri sguardi. Ardirei addirittura la tesi che la
croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione
“versus populum”. Diverrebbe così nuovamente ricca di significato la
distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta
dell’annuncio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di
un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la
invocazione “conversi ad Dominum”: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al
Signore» [25].
Mi limito ad aggiungere che, per costituire veramente un «punto comune di
riferimento», la croce ha bisogno di essere collocata non solo sull’altare,
ma anche in posizione centrale. Al centro della mensa eucaristica,
l’immagine di Cristo crocifisso attira necessariamente su di sé lo sguardo,
assolvendo bene la sua funzione simbolica; a lato dell’altare, per grande
che sia, finisce per essere praticamente ignorata.
Per quanto riguarda la Comunione, riceverla in ginocchio, a mio avviso,
favorisce nei fedeli un atteggiamento di maggior devozione, esprime in
maniera visibile l’adorazione nei confronti di nostro Signore e costituisce
una pubblica manifestazione di fede nella presenza reale [26]. A chi obietta
che la disposizione interiore del comunicando non dipende dallo stare in
ginocchio piuttosto che in piedi, rispondo che una delle funzioni del rito è
appunto quella stimolare la pietà dei fedeli mediante un saggio uso dei
segni esteriori che ci vengono offerti dalla nostra tradizione liturgica. E
se è vero che, presa in se stessa, la posizione in piedi non esprime meno
devozione di quella in ginocchio, è anche vero che, in una prospettiva
storica, questo si verifica. La ragione è assai semplice. I riti non si
limitano ad essere rivestimenti esteriori dell’immutabile Sacrificio
dell’altare, ma plasmano la mentalità dei fedeli e, con essa, il loro
sensus fidei [27].
Così, se per un orientale ricevere la Comunione in piedi è un atto di
massima riverenza, perché così gli ha tramandato la sua tradizione, per un
occidentale, abituato da secoli a riceverla in ginocchio, passare
improvvisamente da un atto di riverenza maggiore a uno minore non è
indifferente. Nel migliore dei casi un simile cambiamento si limita a
produrre un’impressione di disagio o di confusione. Nel peggiore indebolisce
la fede nella Presenza Reale.
Non è un caso, dunque, che il card. Ratzinger si sia espresso a favore di
questa pratica, scrivendo che essa «ha in suo favore una tradizione
secolare, ed è un segno particolarmente eloquente di adorazione,
completamente adeguato alla luce della presenza vera, reale e sostanziale di
Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» [28].
Per concludere, mi sembra opportuno rilevare come, nei due casi presi in
esame, il ripristino dell’uso antico non si configura affatto come una
sterile operazione di archeologia liturgica o di antichizzazione del rito.
Si tratta, piuttosto, di un’iniziativa che prende le mosse da un principio
tanto evidente quanto trascurato: quando le rubriche ammettono diverse
possibilità, la prassi più comune non è necessariamente la migliore. I
singoli pastori di anime dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia
pastorale delle scelte liturgiche da essi operate, senza avere timore, se le
norme lo consentono, di adottare una soluzione diversa. Il popolo, dopo
un’opportuna catechesi, capirà e apprezzerà.
Indicazioni pratiche
Concludiamo il presente contributo con una serie di indicazioni utili per
tradurre in pratica i princìpi teorici finora esposti.
1) Per la croce è preferibile servirsi del modello generalmente in uso prima
della riforma liturgica, composto da una base, da un’alzata e dalla croce
propriamente detta con l’immagine del Crocifisso. Esso consente di
collocarla sull’altare senza bisogno di piedistalli inutili e poco decorosi,
e di rimuoverla facilmente quando sia necessario. Quanto alle dimensioni, si
ricordi che la rubrica prescrive una croce «ben visibile allo sguardo del
popolo radunato» [29] ed anche, naturalmente, del sacerdote celebrante.
Sarebbe bene, a mio avviso, che arrivasse più o meno all’altezza del volto
del celebrante. In questo modo fungerebbe davvero da fulcro visivo della
funzione, verso cui convergono gli sguardi di tutti, e, al tempo stesso, non
impedirebbe al popolo la vista dell’altare e in particolare delle sacre
Specie durante l’elevazione. Quando l’altare è versus populum, da che
parte dev’essere rivolta l’immagine del Crocifisso? Le rubriche non lo
specificano, poiché l’indicazione sulla visibilità appena citata si
riferisce genericamente alla croce, non specificamente all’immagine del
Cristo morente. Varie ragioni consigliano che il Crocifisso sia rivolto al
celebrante. Così, infatti, voleva la tradizione antica [30] e così appare
meglio, a mio avviso, lo speciale legame che esiste tra il Cristo
raffigurato sulla croce d’altare e il sacerdote che agisce in sua persona.
Tale soluzione, del resto, è quella adottata dal Santo Padre nelle funzioni
da lui presiedute [31].
2) Avendo parlato del Crocifisso, è impossibile non dire nulla a proposito
dei candelieri. Com’è evidente, essi non hanno più da molto tempo la
funzione pratica di dar luce all’altare, ma conservano intatto il loro
valore simbolico, che allude, con la fiamma, a Cristo luce del mondo, e, con
la consumazione della cera, al sacrificio [32]. Si capisce, dunque, che
relegarli in un angolo dell’altare (o addirittura fuori da esso), appaiati,
piccoli, quasi invisibili, ha poco senso. Molto meglio sarebbe collocarli
simmetricamente da una parte e dall’altra della croce [33], cui il loro
simbolismo è strettamente connesso: non necessariamente accanto ad essa, ma
anche, e preferibilmente, alle estremità laterali dell’altare, quasi a fare
da cornice luminosa alla mensa divina. Quanti devono essere? La rubrica ne
prescrive almeno due, ma nulla impedisce che siano quattro o sei [34]
(sempre in numero pari, per ragioni di simmetria rispetto alla croce); non
di più [35], quando l’altare è versus populum, e non troppo alti, per
evitare, come ammoniscono le norme, che ostacolino eccessivamente la vista
[36].
3) La Comunione può essere distribuita alla balaustra nelle chiese che
ancora la conservano? Non credo vi sia nessun ostacolo a questa soluzione.
La rubrica, infatti, ordina che i fedeli si rechino all’altare
processionalmente [37]; ma non vieta che, una volta giunti davanti ad esso,
si dispongano lungo la balaustra. Tuttavia, per chi non potesse o non
volesse adottare questo sistema, è consigliabile disporre, all’entrata del
presbiterio, un inginocchiatoio piuttosto grande, ricoperto di cuscini, che
consenta ai fedeli che intendono comunicarsi in ginocchio di poterlo fare
agevolmente. Conviene che la balaustra o la parte superiore
dell’inginocchiatoio siano ricoperti, come avveniva anticamente, da una
tovaglietta bianca [38], che alluda al loro uso come «tavola della
Comunione» dei fedeli, simbolico prolungamento dell’altare [39]. Questa
tovaglia non esime dall’uso, obbligatorio, del piattello [40]. Si ricordi
che la scelta sul modo di fare la Comunione spetta al singolo fedele;
pertanto, la distribuzione dell’Eucaristia alla balaustra o
all’inginocchiatoio non deve costituire un impedimento per coloro che
vorranno continuare a riceverla in piedi. È compito del celebrante ricordare
nei momenti opportuni, sia durante la liturgia che negli incontri di
catechesi, la possibilità di comunicarsi in ginocchio e le ragioni a favore
di tale scelta, senza tuttavia trasformarla, esplicitamente o
implicitamente, in un obbligo.
4) È necessario ricordare, infine, che l’ordinamento delle norme liturgiche
universali, come quelle che riguardano la posizione della croce o il modo di
ricevere la Comunione, compete unicamente alla Santa Sede [41]. Le
Conferenze Episcopali e i singoli Ordinari non hanno la facoltà di
abrogarle, modificarle o restringerne il senso, a meno che ciò non sia loro
espressamente consentito dal diritto [42] (nel caso da noi preso in esame,
alle autorità locali è concessa soltanto la possibilità di autorizzare la
Comunione in piedi). Di conseguenza, laddove le rubriche ammettono diverse
possibilità, la scelta spetta al sacerdote celebrante o, quando previsto, al
fedele.
Note
[1] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008. Il Papa,
quando era ancora Cardinale, ha affrontato più volte l’argomento nei suoi
scritti, esprimendosi a favore della collocazione centrale della croce e
della possibilità di ricevere la Comunione in ginocchio.
[2] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 1-2: Denz. 938-940; can. 1-4:
Denz. 948-951.
[3] Cfr. PIO XI, Enciclica Ad catholici sacerdotii (20 dic. 1935): Denz.
2275; PIO XII, Enciclica Mediator Dei (20 nov. 1947): Denz. 2300; Catechismo
della Chiesa cattolica, 1566.
[4] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XIII, cap. 1 e 3: Denz. 874 e 876; can. 1
e 4: Denz. 883 e 886; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, q. 65, a. 3.
[5] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 11;
GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 apr. 2003), 1.
[6] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943.
[7] Cfr. Rom. 1, 20; TERTULLIANO, De corona, c. 2, 3, 4: PL 2, 98-99; S.
BASILIO MAGNO, De Spiritu Sancto, 27, 66: PG 32, 188; S. GIROLAMO, Ad
Vigilantium, nn. 8-9: PL 23, 362-363; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol.,
II-II, q. 81, a. 7. La definizione dogmatica risale al CONCILIO DI TRENTO,
sess. XXII, can. 7: Denz. 954: «Si quis dixerit, caeremonias, vestes sacras
et externa signa, quibus in Missarum celebratione Ecclesia catholica utitur,
irritabula impietatis esse magis quam officia pietatis: anathema sit».
[8] CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943 («non facile queat
[natura hominum] sine adminiculis exterioribus ad rerum divinarum
meditationem sustolli»). Cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., II-II, q.
81, a. 7: «Mens autem humana indiget, ad hoc quod coniungatur Deo,
sensibilium manuducatione, quia “invisibilia Dei per ea, quae facta sunt,
intellecta conspiciuntur”, ut Apostolus dicit (Rom. 1, 20). Et ideo in
divino cultu necesse est aliquibus corporalibus uti, ut eis quasi signis
quibusdam mens hominis excitetur ad spirituales actus, quibus Deo
coniungitur. Et ideo religio habet quidem interiores actus quasi principales,
et per se ad religionem pertinentes; exteriores vero actus, quasi
secundarios, et ad interiores actus ordinatos».
[9] Cfr. A. M. ROGUET, La cena del Signore: la Messa oggi, trad. it.,
Milano, 1970, p. 170.
[10] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008: «Il
cambiamento è diversificato. Uno è stata la collocazione del crocifisso al
centro dell’altare per indicare che il celebrante e l’assemblea dei fedeli
non si guardano, ma insieme guardano verso il Signore che è il centro della
loro preghiera. L’altro aspetto è la comunione data in ginocchio dal Santo
Padre e distribuita in bocca. Ciò per mettere in evidenza la dimensione del
mistero, la presenza viva di Gesù nella Santissima Eucarestia. Anche
l’atteggiamento, la postura sono importanti perché aiutano l’adorazione e la
devozione dei fedeli».
[11] Missale Romanum, editio typica 1962, Rubricae generales
Missalis romani, 527.
[12] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit.
V, cap. II, n. 4. Sebbene la rubrica che prescrive la genuflessione riguardi
direttamente solo i chierici, essa si applica, per evidente analogia, anche
ai laici.
[13] Ordinamento generale del Messale romano, terza edizione tipica, 297. Si
noti che la terza edizione tipica italiana del Messale romano, il cui testo
latino è stato pubblicato nel 2000, è ancora in fase di allestimento. Esiste
però una versione ufficiale, approvata il 25 gennaio 2004, della
Institutio generalis (= Ordinamento generale), che è quella attualmente
vigente, nonostante i messali attualmente in commercio nel nostro Paese
seguano ancora la seconda edizione tipica.
[14] Ibid., 296.
[15] Ibid., 308.
[16] Ibid.
[17] Cfr. P. RADÓ, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi Brisg.-Barcinone,
1961, vol. II, pp. 1408-1409.
[18] Ordinamento generale del Messale romano, 308.
[19] Ibid., 160.
[20] Missale Romanum, ed. typica tertia (2000), Institutio
generalis, 160: «Fideles communicant genuflexi vel stantes, prout
Conferentia Episcoporum statuerit».
[21] Pubblicate in Notitiae, nov.-dic. 2002.
[22] Ibid. A proposito della Comunione in piedi, è opportuno ricordare qui
una norma spesso disattesa: «Quando [i fedeli] si comunicano stando in
piedi, si raccomanda che, prima di ricevere il Sacramento, facciano la
debita riverenza, da stabilire dalle stesse norme [emanate dalla Conferenza
Episcopale]» (Ordinamento generale del Messale romano, 160).
[23] È la stessa Congregazione per il Culto divino, in una delle due lettere
menzionate, a mettere bene in luce questo punto: «Datasi l’importanza di
tale questione, la Congregazione vorrebbe richiedere alla vostra Eccellenza
che s’indaghi specificamente se questo prete abbia effettivamente
l’abitudine di rifiutare la Santa Comunione a qualsiasi fedele nelle
suddescritte circostanze; e, se la lamentela è comprovata, sia fermamente
istruito a lui e ad altri preti che possano aver avuto una tale abitudine di
evitare simili comportamenti per il futuro».
[24] J. RATZINGER, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Milano,
1984, pp. 129-136.
[25] Ibid.
[26] Per sottolineare meglio l’importanza degli atti esteriori come
manifestazione efficace della fede, non sarà inutile ricordare un
significativo episodio della vita di S. Elisabetta Anna Bayley Seton.
Assistendo per caso a una Messa solenne nel santuario di Montenero (presso
Livorno), la Santa, pur essendo ancora protestante, fu molto colpita
dall’atteggiamento di devozione manifestato dai fedeli, tanto che ella
stessa, intuendo il mistero della Presenza Reale (come avrebbe poi ammesso
nei suoi scritti), si inginocchiò dinanzi all’altare. Si trattò della prima
tappa di un percorso che l’avrebbe condotta ad avvicinarsi e poi a
convertirsi al cattolicesimo.
[27] È questo, del resto, il senso autentico dell’adagio «lex orandi, lex
credendi», messo bene in luce da PIO XI nella Costituzione Apostolica
Divini cultus (20 dic. 1925): Denz. 2200: «Hinc intima quaedam
necessitudo inter dogma et Liturgiam sacram, itemque inter cultum
christianum et populi sanctificationem».
[28] Cit. nella Lettera della Congregazione per il Culto Divino sul diritto
di ricevere la Comunione in ginocchio: Notitiae, nov.-dic. 2002.
[29] Ordinamento generale del Messale romano, 308.
[30] Cfr. Dizionario pratico di Liturgia romana, a cura di R. LESAGE, trad.
it., Roma, 1956, p. 138.
[31] Non sarebbe meglio, osserveranno alcuni, che il Crocifisso della croce
d’altare fosse rivolto non solo verso il celebrante (e i ministri
dell’altare), ma anche verso i fedeli? Certamente sì. Tale condizione, però,
è realizzabile solo in quelle rare chiese dove si è mantenuta la prassi
(perfettamente legittima: cfr. Risposta della Congregazione per il Culto
Divino, prot. n° 2036/00/L, 25 settembre 2000) di celebrare verso l’abside.
Nelle altre, a meno che non si voglia dotare la croce d’altare di un
Crocifisso su entrambi i lati (soluzione che a me pare poco conveniente) si
impone una scelta. La migliore, a mio avviso, consiste nel tenere l’immagine
del Cristo morente rivolta verso il celebrante, per le ragioni che ho
esposto. Nulla impedisce, tuttavia, di collocare nell’abside – come pala
d’altare o a completamento della pala già esistente – un’altra croce con
Crocifisso rivolta verso i fedeli, in posizione centrale ed elevata. Questa
soluzione trova un parziale riscontro nell’architettura tradizionale delle
chiese valdostane, dove, sebbene la croce d’altare fosse visibile ai fedeli
(poiché la celebrazione avveniva versus Deum), si era soliti
collocare un Crocifisso di grandi dimensioni in alto, tra la navata e
l’abside.
[32] Cfr. P. RADÓ, op. cit., vol. I, pp. 73-74.
[33] Così prevedevano (e prevedono ancora, per le celebrazioni nella forma
straordinaria del rito romano) le norme in vigore prima della riforma
liturgica postconciliare: cfr. Missale Romanum, editio typica 1962,
Rubricae generales Missalis romani, 527.
[34] Ordinamento generale del Messale romano, 117: «almeno due candelabri
con i ceri accesi, o anche quattro o sei, specialmente se si tratta della
Messa domenicale o festiva di precetto». Per la Messa «stazionale» del
Vescovo diocesano il Caeremoniale Episcoporum (125 c) raccomanda di
usare sette candelieri.
[35] Salvo nel caso della Messa «stazionale» del Vescovo diocesano: cfr. la
nota precedente.
[36] Secondo l’Ordinamento generale del Messale romano, 117, i candelieri
non devono impedire «ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o
viene collocato sull’altare».
[37] Ordinamento generale del Messale romano, 160: «Poi il sacerdote prende
la patena o la pisside e si reca dai comunicandi, che normalmente si
avvicinano processionalmente».
[38] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit.
V, cap. II, n. 1.
[39] Cfr. Enciclopedia liturgica, a cura di R. AIGRAIN, trad. it., Alba,
1959, p. 204
[40] S. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Istruzione Redemptionis
Sacramentum (25 marzo 2004), 93.
[41] Codex Iuris canonici, can. 838, § 2.
[42] Ibid., §§ 3-4.
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[*] Dall'amico
Daniele autore
dell'articolo di
apertura:
A proposito della
presenza della croce
sull'altare, è
interessante
riportare ciò che
scrisse Benedetto
XIV nell'enciclica
Accepimus
praestantium (16
luglio 1746):
"Noi stessi abbiamo
parlato di questa
vecchia usanza di
collocare la croce
sull'altare, quando
si compie il rito
sacro, nei Nostri
scritti Sul
sacrificio della
Messa, che da Noi
sono stati composti
in italiano; molti
poi ne abbiamo
aggiunti, quando gli
stessi, tradotti in
latino, sono stati
pubblicati una
seconda volta.
A questi aggiungiamo
anche che,
soprattutto a motivo
dell’antichità di
questa usanza, una
grandissima
devozione è stata
sempre dedicata alla
croce, la quale è
collocata al centro
dell'altare quando
si celebra la Messa;
gli stessi
rinnovatori più
ostili hanno avuto
grande paura ad
allontanarla dal
centro, quando
consacrano
l'Eucaristia; di ciò
è testimone il
Gretser nel suo
Trattato sulla
Croce, al cap. 13,
tomo I di
quell'edizione, che
alla fine è stata
stampata.
In verità, se
osserviamo l'usanza
degli orientali, i
Greci hanno
stabilito di porre
presso la porta
principale del
santuario, da
entrambi i lati, le
immagini di Cristo
Signore e della
Beata Vergine, e
sopra l'altare la
croce assieme al
libro dei santi
Vangeli.
Nella liturgia
copto-araba, che,
desunta dai
manoscritti Codici
Vaticani, è stata
stampata nell'anno
1736 nel Collegio
Urbano della
Propaganda Fide, a
p. 33 si prescrive
al sacerdote
celebrante di
impartire al popolo
la benedizione con
la croce, che poi la
baci e che la porga
ad un diacono,
perché la collochi
sopra l’altare.
Infine il rito
siriano dei Maroniti
stabilisce
precisamente le
stesse disposizioni
che abbiamo indicato
più sopra e che sono
prescritte nelle
Rubriche del Messale
Romano. Infatti il
Patriarca Stefano
così scrive:
"Codesta usanza si
sviluppò in tutte le
Chiese, così che il
simbolo della
salutifera croce è
posto sopra
l'altare" (libro 2,
trattato 2, 4).
Anche il Sinodo
nazionale, che è
stato convocato
nell’anno 1736 sul
monte Libano e che
Noi stessi abbiamo
convalidato con la
Lettera apostolica
Sulla sacrosanta
Messa, così
stabilisce:
"Sull'altare sia
collocata, nel
mezzo, la croce; ai
suoi lati, almeno
due candelabri con
le candele accese,
da una parte e
dall'altra" (§ 2,
cap. 13)".