|
|
|
|
|
da: "Rapporto sulla Fede"
Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger (1985/86)
CAPITOLO NONO
LITURGIA TRA ANTICO E NUOVO
Ricchezze da salvare
Cardinal Ratzinger, vogliamo parlare un poco di liturgia, di riforma
liturgica? È un problema tra i più dibattuti e spinosi, è uno dei cavalli di
battaglia della anacronistica reazione anti-conciliare, dell'integrismo
patetico alla Lefebvre, il vescovo in rivolta proprio a causa di certi
aggiornamenti liturgici in cui crede di sentire odore di zolfo, di eresia...
Mi ferma subito per precisare: "Davanti a certi modi concreti di riforma
liturgica e, soprattutto, davanti alle posizioni di certi liturgisti, l'arca
del disagio è più ampia di quella dell'integrismo anticonciliare. Detto in
altre parole: non tutti coloro che esprimono un tale disagio devono per
questo essere necessariamente degli integristi".
Vuol forse dire che il sospetto, magari la protesta per certo liturgismo
post-conciliare sarebbero legittimi anche in un cattolico lontano dal
tradizionalismo estremo? In un cattolico, cioè, non malato di nostalgia ma
disposto ad accettare interamente il Vaticano II?
"Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia - risponde - ci sono,
come di consueto, modi diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i
rapporti dell'uomo con Lui. Il discorso liturgico non è marginale: è stato
proprio il Concilio a ricordarci che qui siamo nel cuore della fede
cristiana".
I gravosi compiti romani impediscono a Joseph Ratzinger (per motivi di tempo
ma anche di opportunità) di continuare come vorrebbe la pubblicazione di
articoli scientifici e di libri. Ma, a conferma dell'importanza che dà
all'argomento liturgico, una delle poche opere che ha pubblicato in questi
anni è Das Fest des Glaubens, la festa della fede. Si tratta appunto di una
raccolta di brevi saggi sulla liturgia e su un certo "aggiornamento" di
fronte al quale si dichiarava perplesso già dieci anni dopo la conclusione
del Vaticano II.
Tiro fuori dalla borsa quel ritaglio del 1975 e leggo: "L'apertura della
liturgia alle lingue popolari era fondata e giustificata: anche il Concilio
di Trento l'aveva avuta presente, almeno a livello di possibilità. Sarebbe
poi falso dire, con certi integristi, che la creazione di nuovi canoni per
la Messa contraddice la Tradizione della Chiesa. Tuttavia, resta da vedere
sino a che punto le singole tappe della riforma liturgica dopo il Vaticano
II siano state veri miglioramenti o non, piuttosto, banalizzazioni; sino a
che punto siano state pastoralmente sagge o non, al contrario, sconsiderate".
Continuo a leggere da quell'intervento di Joseph Ratzinger, allora
professore di teologia ma già prestigioso membro della Pontificia
Commissione Teologica Internazionale: "Anche con la semplificazione e la
formulazione meglio comprensibile della liturgia, è chiaro che deve essere
salvaguardato il mistero dell'azione di Dio nella Chiesa; e, perciò, la
fissazione della sostanza liturgica intangibile per i sacerdoti e le
comunità, come pure il suo carattere pienamente ecclesiale". "Pertanto -
esortava il professor Ratzinger - ci si deve opporre, più decisamente di
quanto sia stato fatto finora, all'appiattimento razionalistico, ai discorsi
approssimativi, all'infantilismo pastorale che degradano la liturgia
cattolica al rango di circolo di villaggio e la vogliono abbassare a un
livello fumettistico. Anche le riforme già eseguite, specialmente riguardo
al rituale, devono essere riesaminate sotto questi punti di vista".
Mi ascolta, con l'attenzione e la pazienza consuete, mentre gli rileggo
queste sue parole. Sono passati dieci anni da allora, l'autore di una simile
messa in guardia non è più un semplice studioso, è il custode
dell'ortodossia stessa della Chiesa. Il Ratzinger di oggi, Prefetto della
fede, si riconosce ancora in questo brano?
"Interamente - non esita a rispondermi -. Anzi, da quando scrivevo queste
righe altri aspetti che sarebbero stati da salvaguardare sono stati
accantonati, molte ricchezze superstiti sono state dilapidate. Allora, nel
1975, molti colleghi teologi si dissero scandalizzati, o almeno sorpresi,
dalla mia denuncia. Adesso, anche tra loro, sono numerosi quelli che mi
hanno dato ragione, almeno parzialmente". Si sarebbero cioè verificati
ulteriori equivoci e fraintendimenti che giustificherebbero ancor più le
parole severe di sei anni dopo, nel libro recente che citavamo: "Certa
liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del banale
e del mediocre, tale da dare i brividi...".
La lingua, per esempio ...
Per lui, proprio nel campo liturgico - sia negli studi degli specialisti che
in certe applicazioni concrete - si constaterebbe "uno degli esempi più
vistosi di contrasto tra ciò che dice il testo autentico del Vaticano II e
il modo con cui è stato poi recepito e applicato".
Esempio sin troppo famoso, si sa (ed esposto al rischio di
strumentalizzazioni), è quello dell'impiego del latino, sul quale il testo
conciliare è esplicito: "L'uso della lingua latina, salvo diritti
particolari, sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, n.
36). Più avanti, i Padri raccomandano: "Si abbia ( ... ) cura che i fedeli
sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti
dell'Ordinario della Messa che spettano ad essi" (n. 54). Più avanti ancora,
nello stesso documento: "Secondo la secolare tradizione del rito latino, per
i chierici sia conservata nell'Ufficio divino la lingua latina " (n.
101).
Scopo del colloquio col card. Ratzinger, dicevamo all'inizio, non era certo
mettere in rilievo il nostro punto di vista, bensì riferire quello
dell'intervistato.
Tuttavia, personalmente - per quanto poco importi - troviamo un po'
grottesco l'atteggiamento da "vedovi" e "orfani" di chi rimpiange un passato
tramontato per sempre e non siamo affatto nostalgici di una liturgia in
latino che abbiamo conosciuto solo nel suo ultimo, estenuato periodo di
vita. Tuttavia, leggendo i documenti conciliari si può capire ciò che vuol
dire il card. Ratzinger: è un fatto oggettivo che, anche solo limitandosi
all'uso della lingua liturgica, balza agli occhi il contrasto tra i testi
del Vaticano II e le successive applicazioni concrete.
Non si tratta di recriminare ma di sapere, da una voce autorevole, come mai
questo gap si sia verificato.
Lo vedo scuotere il capo: "Che vuole, anche questo è tra i casi di
una sfasatura - purtroppo frequente in questi anni - tra il dettato del
Concilio, la struttura autentica della Chiesa e del suo culto, le vere
esigenze pastorali del momento e le risposte concrete di certi settori
clericali. Eppure la lingua liturgica non era affatto un aspetto secondario.
All'origine della frattura tra Occidente latino e Oriente greco c'è anche
una questione di incomprensione linguistica. È probabile che la scomparsa
della lingua liturgica comune possa rafforzare le spinte centrifughe tra le
varie aree cattoliche". Aggiunge però subito: "Per spiegare il rapido e
quasi totale abbandono dell'antica lingua liturgica comune bisogna in verità
anche rifarsi a un mutamento culturale dell'istruzione pubblica in
Occidente. Come professore, ancora all'inizio degli anni Sessanta potevo
permettermi di leggere un testo latino a giovani provenienti dalle scuole
secondarie tedesche. Oggi questo non è più possibile".
"Pluralismo, ma per tutti"
A proposito di latino: nei giorni del nostro colloquio non era ancora
conosciuta la decisione del Papa che (con lettera in data 3 ottobre 1984, a
firma del Pro-Prefetto della Congregazione per il culto divino) concedeva il
discusso " indulto " a quei preti che volessero celebrare la messa usando il
messale romano, in latino appunto, del 1962. e, cioè, la possibilità di un
ritorno (seppure ben delimitato) alla liturgia pre-conciliare; purché, si
dice nella lettera, "consti con chiarezza, anche pubblicamente, che questi
sacerdoti e i rispettivi fedeli in nessun modo condividano le posizioni di
coloro che mettono in dubbio la legittimità e l'esattezza dottrinale del
Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970"; e purché la
celebrazione secondo il vecchio rito "avvenga nelle chiese e negli oratori
indicati dal vescovo, non però nelle chiese parrocchiali, a meno che
l'ordinario del luogo lo abbia concesso, in casi straordinari". Malgrado
questi limiti e le severe avvertenze ("in nessun modo la concessione
dell'indulto dovrà essere usata in modo da recare pregiudizio all'osservanza
fedele della riforma liturgica"), la decisione del Papa ha suscitato
polemiche.
La perplessità è stata anche nostra, ma dobbiamo riferire quanto il card.
Ratzinger ci aveva detto a Bressanone: pur senza parlarci della misura - che
era evidentemente già stata decisa e della quale di certo era al corrente -
ci aveva accennato a una possibilità del genere. Questo " indulto per lui,
non sarebbe stato da vedere in una linea di " restaurazione " ma, al
contrario, nel clima di quel " legittimo pluralismo" sul quale il Vaticano
II e i suoi esegeti hanno tanto insistito.
Infatti, precisando di parlare " a titolo personale ", il cardinale ci aveva
detto: "Prima di Trento, la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità
di riti e di liturgie. I Padri tridentini imposero a tutta la Chiesa la
liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali,
solo quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio,
del rito ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la
religiosità di qualche credente, a rispettare la pietas di certi settori
cattolici, sarei personalmente favorevole al ritorno alla situazione antica,
cioè a un certo pluralismo liturgico. Purché, naturalmente, venisse
riconfermato il carattere ordinario dei riti riformati e venisse indicato
chiaramente l'ambito e il modo di qualche caso straordinario di concessione
della liturgia preconciliare". Più che un auspicio il suo, visto che
poco più di un mese dopo doveva realizzarsi.
Lui stesso, del resto, nel suo Das Fest des Glaubens aveva ricordato
che "anche in campo liturgico, dire cattolicità non significa dire
uniformità", denunciando che, "invece, il pluralismo postconciliare
si è dimostrato stranamente uniformante, quasi coercitivo, non consentendo
più livelli diversi di espressione di fede pur all'interno dello stesso
quadro rituale".
Uno spazio per il Sacro
Per tornare al discorso generale: che rimprovera il Prefetto a certa
liturgia d'oggi? (o, forse, non proprio di oggi visto che, come osserva, "sembra
stiano attenuandosi certi abusi degli anni postconciliari: mi pare che ci
sia in giro una nuova presa di coscienza, che alcuni stiano accorgendosi di
avere corso troppo e troppo in fretta". "Ma - aggiunge - questo nuovo
equilibrio è per ora di élite, riguarda alcune cerchie di specialisti mentre
l'ondata messa in moto proprio da costoro arriva adesso alla base. Così, può
succedere che qualche prete, qualche laico si entusiasmino in ritardo e
giudichino d'avanguardia ciò che gli esperti sostenevano ieri, mentre oggi
questi specialisti si attestano su posizioni diverse, magari più
tradizionali").
Comunque sia, ciò che per Ratzinger va ritrovato in pieno è "il carattere
predeterminato, non arbitrario, " imperturbabile -, " impassibile " del
culto liturgico". "Ci sono stati anni - ricorda - in cui i fedeli,
preparandosi ad assistere a un rito, alla messa stessa, si chiedevano in che
modo, in quel giorno, si sarebbe scatenata la " creatività " del
celebrante...". Il che, ricorda, contrastava oltretutto con il monito
insolitamente severo, solenne del Concilio: "Che nessun altro, assolutamente
(al di fuori della Santa Sede e della gerarchia episcopale, n.d.r.); che
nessuno, anche se sacerdote, osi di sua iniziativa aggiungere, togliere o
mutare alcunché in materia liturgica" (Sacrosanctum Concilium n. 22).
Aggiunge: "La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di
registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese "
simpatiche ", di trovate " accattivanti ", ma di ripetizioni solenni. Non
deve esprimere l'attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti
hanno pensato e detto che la liturgia debba essere "fatta" da tutta la
comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne
il " successo " in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In
questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da
ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti
insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere
che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è
lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque
padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi".
Continua: "Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte
stessa della sua identità: anche per questo deve essere " predeterminata ",
" imperturbabile ", perché attraverso il rito si manifesta la Santità di
Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata " la vecchia
rigidità rubricistica ", accusata di togliere " creatività ", ha coinvolto
anche la liturgia nel vortice del " fai-da-te ", banalizzandola perché l'ha
resa conforme alla nostra mediocre misura".
C'è poi un altro ordine di problemi sul quale Ratzinger vuole richiamare
l'attenzione: "Il Concilio ci ha giustamente ricordato che liturgia
significa anche actio, azione, e ha chiesto che ai fedeli sia assicurata una
actuosa participatio, una partecipazione attiva".
Mi sembra ottima cosa, dico.
"Certo - conferma -. è un concetto sacrosanto che però, nelle
interpretazioni postconciliari, ha subìto una restrizione fatale. Sorse cioè
l'impressione che si avesse una " partecipazione attiva " solo dove ci fosse
un'attività esteriore, verificabile: discorsi, parole, canti, omelie,
letture, stringer di mani... Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella
actuosa participatio anche il silenzio, che permette una partecipazione
davvero profonda, personale, concedendoci l'ascolto interiore della Parola
del Signore. Ora, di questo silenzio non è restata traccia in certi riti".
Suoni e arte per l'Eterno
E qui si aggancia un suo discorso sulla musica sacra, quella musica
tradizionale dell'Occidente cattolico alla quale il Vaticano Il non ha certo
misurato le lodi, esortando non solo a salvare ma a incrementare "con la
massima diligenza" questo che chiama "il tesoro della Chiesa"; e,
dunque, dell'umanità intera. Invece?
"Invece, molti liturgisti hanno messo da parte quel tesoro, dichiarandolo
" accessibile a pochi ", l'hanno accantonato in nome della " comprensibilità
per tutti e in ogni momento " della liturgia postconciliare. Dunque, non più
" musica sacra " - relegata, semmai, per occasioni speciali, nelle
cattedrali - ma solo " musica d'uso", canzonette, facili melodie, cose
correnti".
Anche qui il Cardinale ha facile gioco nel mostrare l'allontanamento teorico
e pratico dal Concilio "secondo il quale, oltretutto, la musica sacra è
essa stessa liturgia, non ne è un semplice abbellimento accessorio". E,
secondo lui, sarebbe anche facile mostrare come "l'abbandono della
bellezza" si sia dimostrata, alla prova dei fatti, un motivo di "sconfitta
pastorale".
Dice: "è divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si
manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all'utile.
L'esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull'unica categoria del
"comprensibile a tutti" non ha reso le liturgie davvero più comprensibili,
più aperte, ma solo più povere. Liturgia " semplice " non significa misera o
a buon mercato: c'è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva
dalla ricchezza spirituale, culturale, storica". "Anche qui continua - si è
messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della" partecipazione
attiva ": ma questa " partecipazione " non può forse significare anche il
percepire con lo spirito, con i sensi? Non c'è proprio nulla di " attivo "
nell'ascoltare, nell'intuire, nel commuoversi? Non c'è qui un rimpicciolire
l'uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che
ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è
soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità?
Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare
tutto il popolo, opporsi alla " musica d'uso ": significa opporsi a un
esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né
dalle necessità pastorali".
Questo discorso sulla musica sacra - intesa anche come simbolo di presenza
della bellezza " gratuita " nella Chiesa - sta particolarmente a cuore a
Joseph Ratzinger che vi ha dedicato pagine vibranti: "Una Chiesa che si
riduca solo a fare della musica " corrente " cade nell'inetto e diviene essa
stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche " città della
gloria ", luogo dove sono raccolte e portate all'orecchio di Dio le voci più
profonde dell'umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del
solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e
svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile,
umano".
Anche qui, però, come già per il latino, mi parla di una "mutazione
culturale", anzi, quasi di una "mutazione antropologica" soprattutto nei
giovani, "il cui senso acustico è stato corrotto, degenerato, a partire
dagli anni Sessanta, dalla musica rock e da altri prodotti simili". Tanto
che (accenna qui anche a sue esperienze pastorali, in Germania) sarebbe oggi
"difficile far ascoltare o, peggio, far cantare a molti giovani anche gli
antichi corali della tradizione tedesca".
Il riconoscimento delle difficoltà obiettive non gli impedisce una
appassionata difesa non solo della musica, ma dell'arte cristiana in
generale e della sua funzione di rivelatrice della verità: "L'unica, vera
apologia del cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che la
Chiesa ha espresso e l'arte che è germinata nel suo grembo. Il Signore è
reso credibile dalla magnificenza della santità e da quella dell'arte
esplose dentro la comunità credente, più che dalle astute scappatoie che
l'apologetica ha elaborato per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo
abbondano le vicende umane della Chiesa. Se la Chiesa deve continuare a
convertire, dunque a umanizzare il mondo, come può rinunciare nella sua
liturgia alla bellezza, che è unita in modo inestricabile all'amore e
insieme allo splendore della Resurrezione? No, i cristiani non devono
accontentarsi facilmente, devono continuare a fare della loro Chiesa un
focolare del bello - dunque del vero - senza il quale il mondo diventa il
primo girone dell'inferno".
Mi parla di un teologo famoso, uno dei leaders del pensiero post-conciliare
che gli confessava senza problemi di sentirsi un "barbaro". Commenta: "Un
teologo che non ami l'arte, la poesia, la musica, la natura, può essere
pericoloso. Questa cecità e sordità al bello non è secondaria, si riflette
necessariamente anche nella sua teologia".
Solennità, non trionfalismo
Ancora in questa linea, Ratzinger non è affatto persuaso della validità di
certe accuse di " trionfalismo -, nel nome delle quali si sarebbe gettato
via con eccessiva facilità molto dell'antica solennità liturgica: "Non è
affatto trionfalismo la solennità del culto con cui la Chiesa esprime la
bellezza di Dio, la gioia della fede, la vittoria della verità e della luce
sull'errore e sulle tenebre. La ricchezza liturgica non è ricchezza di una
qualche casta sacerdotale; è ricchezza di tutti, anche dei poveri, che
infatti la desiderano e non se ne scandalizzano affatto. Tutta la storia
della pietà popolare mostra che anche i più miseri sono sempre stati
disposti istintivamente e spontaneamente a privarsi persino del necessario
pur di rendere onore con la bellezza, senza alcuna tirchieria, al loro
Signore e Dio".
Si rifà, come esempio, a ciò che ha appreso in uno degli ultimi suoi viaggi
in Nord America: "Le autorità della Chiesa anglicana di New York avevano
deciso di sospendere i lavori della nuova cattedrale. La giudicavano troppo
fastosa, quasi un insulto al popolo, tra il quale avevano deciso di
distribuire la somma già stanziata. Ebbene, sono stati i poveri stessi a
rifiutare quel denaro e a imporre la ripresa dei lavori, non capendo questa
strana idea di misurare il culto a Dio, di rinunciare alla solennità e alla
bellezza quando si è al suo cospetto".
Sotto l'accusa del cardinale sarebbero dunque certi intellettuali cristiani,
certo loro schematismo aristocratico, elitario, staccato da ciò che il
"popolo di Dio" davvero crede e desidera: "Per un certo modernismo
neo-clericale il problema della gente sarebbe il sentirsi oppressa dai "
tabù sacrali ". Ma questo, semmai, è il problema loro, di clericali in
crisi. Il dramma dei nostri contemporanei è, al contrario, il vivere in un
mondo sempre più di una profanità senza speranza. L'esigenza vera oggi
diffusa non è quella di una liturgia secolarizzata, ma, al contrario, di un
nuovo incontro con il Sacro, attraverso un culto che faccia riconoscere la
presenza dell'Eterno".
Ma è sotto accusa per lui, anche quello che definisce "l'archeologismo
romantico di certi professori di liturgia, Secondo i quali tutto ciò che si
è fatto dopo Gregorio I Magno sarebbe da eliminare come un'incrostazione, un
segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico non hanno posto la
domanda: "Come deve essere oggi?", ma l'altra: "Come era allora?". Si
dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può essere
pietrificata in ciò che si faceva nella città di Roma prima del Medio Evo.
In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca)
hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con
attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge
cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che
ci è stato affidato. Il puro arcaismo non serve, così come non serve la pura
modernizzazione".
Per Ratzinger, poi, la vita cultuale del cattolico non può essere ridotta
al solo aspetto " comunitario ": deve continuare ad esserci un posto anche
per la devozione privata, seppure ordinata al "pregare insieme", cioè alla
liturgia.
Eucaristia: nel cuore della fede
Aggiunge poi: "La liturgia, per alcuni sembra ridursi alla sola
eucaristia, vista quasi sotto l'unico aspetto del "banchetto fraterno". Ma
la messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare
l'ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il
sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi
e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di
Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli uomini,
presenti e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere coscienza che
l'eucaristia non è priva di valore se non si riceve la Comunione: in questa
consapevolezza, problemi drammaticamente urgenti come l'ammissione al
sacramento dei divorziati risposati possono perdere molto del loro peso
opprimente".
Vorrei capire meglio, dico.
"Se l'eucaristia - spiega - è vissuta solo come il banchetto di una
comunità di amici, chi è escluso dalla ricezione dei Sacri Doni è davvero
tagliato fuori dalla fraternità. Ma se si torna alla visione completa della
messa (pasto fraterno e insieme sacrificio del Signore, che ha forza ed
efficacia in sé, per chi vi si unisce nella fede), allora anche chi non
mangia quel pane partecipa egualmente, nella sua misura, dei doni offerti a
tutti gli altri".
All'eucaristia e al problema del suo "ministro" (che può essere solo chi sia
stato ordinato in quel "sacerdozio ministeriale o gerarchico" il quale,
riconferma il Concilio, "differisce essenzialmente e non solo di grado" dal
"sacerdozio comune dei fedeli", Lumen Gentium, n. 10) il card. Ratzinger ha
dedicato uno dei primi documenti ufficiali a sua firma della Congregazione
per la fede. Nel "tentativo di staccare l'eucaristia dal legame
necessario con il sacerdozio gerarchico", vede un altro aspetto di certa "
banalizzazione " del mistero del Sacramento.
È lo stesso pericolo che individua nella caduta dell'adorazione davanti al
tabernacolo: "Si è dimenticato - dice - che l'adorazione è un
approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione
"individualistica" ma della prosecuzione o della preparazione, del momento
comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo
(a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia
di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli "
archeologi " della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella
processione non c'era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui
quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere
riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare alla luce, secolo
dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato".
"Non c'è solo la messa"
Aggiunge: "L'eucaristia è il nucleo centrale della nostra vita cultuale,
ma perché possa esserne il centro abbisogna di un insieme completo in cui
vivere. Tutte le inchieste sugli effetti della riforma liturgica mostrano
che certa insistenza pastorale solo sulla messa finisce per svalutarla,
perché è come situata nel vuoto, non preparata e non seguita com'è da altri
atti liturgici. L'eucaristia presuppone gli altri sacramenti e ad essi
rinvia. Ma l'eucaristia presuppone anche la preghiera in famiglia e la
preghiera comunitaria extra-liturgica".
A cosa pensa in particolare?
"Penso a due delle più ricche e feconde preghiere della cristianità, che
portano sempre e di nuovo nella grande corrente eucaristica: la Via Crucis e
il Rosario. Dipende anche dal fatto che abbiamo disimparato queste preghiere
se noi oggi ci troviamo esposti in modo così insidioso alle lusinghe di
pratiche religiose asiatiche". Infatti, osserva, "se recitato come
tradizione vuole, il Rosario porta a cullarci nel ritmo della tranquillità
che ci rende docili e sereni e che dà un nome alla pace: Gesù, il frutto
benedetto di Maria; Maria, che ha nascosto nella pace raccolta del suo cuore
la Parola vivente e poté così diventare madre della Parola incarnata. Maria
è dunque l'ideale dell'autentica vita liturgica. È la Madre della Chiesa
anche perché ci addita il compito e la meta più alta del nostro culto: la
gloria di Dio, da cui viene la salvezza degli uomini".
|
|
| |
| |