Tutte le chiese orientali - come insegna la storia - sono state sempre amate di tenerissimo affetto dai romani pontefici, e perciò essi, mal tollerando il loro allontanamento dall'unico ovile e «spinti non già da umani interessi, ma soltanto da divina carità e dal desiderio della comune salvezza»,(2) le invitarono con ripetute istanze a far ritorno il più presto possibile a quell'unità dalla quale miseramente si allontanarono. Poiché i medesimi sommi pontefici ben sanno per esperienza l'abbondanza dei frutti che deriveranno da questa unione felicemente reintegrata a tutta la cristiana società, e in particolare modo agli stessi orientali. Infatti dalla piena e perfetta unità di tutti i cristiani non può non derivare un grande incremento al corpo mistico di Gesù Cristo e alle sue singole membra. A questo proposito è da notare che gli orientali non hanno per nulla a temere d'essere costretti, per il ritorno all'unità di fede e di governo, ad abbandonare i loro legittimi riti e usi: la qual cosa i Nostri predecessori più di una volta apertamente dichiararono. «Non c'è ragione di dubitare che perciò o Noi o i Nostri successori detrarremo alcunché dal vostro diritto, dai privilegi patriarcali e dai rituali usi di ciascuna chiesa».(3) E sebbene non sia ancor giunto quel fausto giorno nel quale Ci sarà dato di abbracciare con paterno affetto tutti i popoli d'oriente, tornati all'unico ovile, tuttavia vediamo con gioia che non pochi figli di queste regioni, i quali, avendo riconosciuto la cattedra del beato Pietro come la rocca della cattolica unità, perseverano con somma tenacia nel difendere e stabilire questa stessa unità. A tal riguardo Ci compiacciamo di ricordare oggi i singolari meriti della chiesa rutena non solo perché si distingue per il numero dei seguaci e per lo zelo di conservare la fede, ma anche perché ora si compiono 350 anni da quando essa ritornò felicemente alla comunione della sede apostolica. Il qual fausto evento, se conviene sia celebrato con grato animo particolarmente da coloro cui appartiene, pure stimiamo opportuno richiamarlo alla memoria di tutti i cattolici, sia perché rendano a Dio perenni grazie di questo singolare beneficio, sia perché lo supplichino con Noi di sollevare benignamente e mitigare le presenti angustie e ansietà di questo dilettissimo popolo, di difenderne la santa religione, di sostenerne la costanza e di conservarne intatta la fede.
I Crediamo quindi, venerabili fratelli, che non sia inutile ricordare succintamente tali eventi con questa Nostra enciclica, secondo le testimonianze della storia. E al principio bisogna rilevare come prima ancora che si fosse con lieti auspici stretta a Roma l'unione dei ruteni con la sede apostolica negli anni 1595 e 1596, e fosse stata ratificata nella città di Brest, più volte questi popoli guardarono alla chiesa romana come all'unica madre di tutta la società cristiana, prestandole la debita obbedienza e venerazione conforme alla coscienza del proprio dovere. Così, per esempio, san Vladimiro - quell'esimio principe che da quasi innumerevoli popoli della Russia è venerato come autore e fautore della loro conversione alla fede cristiana - quantunque avesse preso dalla chiesa orientale i riti liturgici e le sacre cerimonie, non solamente, memore del proprio dovere, perseverò nella unità della chiesa cattolica, ma ebbe anche diligente cura che fra la sede apostolica e la sua nazione passassero relazioni amichevoli. Non pochi dei suoi nobili discendenti, anche dopo che la chiesa di Costantinopoli si era funestamente separata, ricevettero coi debiti onori i legati dei romani pontefici, restando uniti con vincoli di fraterno amore con le altre comunità cattoliche. Pertanto non agì in modo difforme dalle antichissime tradizioni storiche della chiesa rutena Isidoro, metropolita di Kyew e della Russia, quando nell'anno 1439, nel concilio ecumenico di Firenze sottoscrisse col proprio nome il decreto col quale la chiesa Greca fu solennemente riunita alla Latina. Nondimeno, di ritorno dal concilio, quantunque fosse stato ricevuto con grande gaudio nella sede della sua dignità a Kyew, pure di lì a poco, incarcerato a Mosca, fu costretto a fuggire dal suo territorio. Non si estinse però del tutto nel corso degli anni il ricordo di questa felice unione dei ruteni con la sede apostolica, benché, attese le tristi condizioni dei tempi, occorressero varie cause per farlo del tutto cancellare. Così sappiamo che nell'anno 1458 Gregorio Mammas, patriarca di Costantinopoli, consacrò in quest'alma città un certo Gregorio, metropolita dei ruteni, allora sudditi del granduca di Lituania; e sappiamo anche che l'uno o l'altro dei successori di detto metropolita si sforzò di ristabilire il vincolo d'unità con la chiesa romana, quantunque le avverse congiunture non permettessero che si facesse la solenne promulgazione di questa unità. Sul finire del secolo XVI, apparve ogni dì più manifesto che non si poteva sperare la desiderata riforma della chiesa rutena, oppressa da gravi mali, se non ripristinando l'unione con la sede apostolica. Persino gli stessi storici dissidenti narrano e confessano apertamente lo stato infelicissimo di questa chiesa. E la nobiltà rutena, riunita a Varsavia nell'anno 1585, nell'esporre al metropolita le sue lagnanze con parole acerbe e violente, affermò che la chiesa era vessata da mali così grandi come non ce n'erano mai stati per il passato né sarebbero stati possibili in avvenire. Ed essa non dubitava di chiamare in colpa lo stesso metropolita, i vescovi e i superiori dei monasteri; al qual proposito, essendo insorti contro la gerarchia alcuni laici, sembrava che i vincoli della disciplina ecclesiastica si rilassassero non poco. Non fa quindi meraviglia se finalmente gli stessi vescovi, dopo aver usato inutilmente vari rimedi, ritenessero che l'unica speranza della chiesa rutena stesse nel procurare il suo ritorno all'unità cattolica. In quel tempo il principe Costantino di Ostroh - di cui nessuno era più potente fra i ruteni - favoriva l'attuazione di questo ritorno, a condizione però che tutta la chiesa orientale si congiungesse con l'occidentale; ma in seguito, vedendo che un tale disegno non si sarebbe compiuto com'egli desiderava, si oppose strenuamente a questa unione. Nondimeno il 2 dicembre 1594, il metropolita e sei vescovi, dopo aver deliberato, fecero una pubblica dichiarazione con la quale si dissero pronti a promuovere la desiderata concordia e unità, scrivendo: «Venimmo a questa decisione considerando con nostro immenso dolore quanti impedimenti abbiano gli uomini per la salvezza senza questa unione delle chiese di Dio, nella quale i Nostri predecessori, cominciando da Cristo nostro salvatore e dai suoi santi apostoli, perseverarono, professando che uno solo è il sommo pastore e primo vescovo nella chiesa di Dio qui in terra - come ne abbiamo aperta testimonianza nei concili e nei canoni - e questi non altri è che il santissimo papa romano, e gli obbedivano in tutto, e finché ciò durò unanimemente in vigore, vi fu sempre nella chiesa di Dio ordine e incremento del culto divino».(4) Prima però che potessero felicemente attuare così lodevole consiglio, dovettero frapporsi lunghi e difficilissimi negoziati. Finalmente, dopo una nuova dichiarazione dello stesso genere, fatta in nome di tutti i vescovi ruteni il 22 maggio 1595, sul finire di settembre la cosa era progredita a tal punto, che Cirillo Terletskyi, vescovo di Luck ed esarca del patriarcato di Costantinopoli, e similmente Ipazio Potij, vescovo di Vladimir, come procuratori di tutti gli altri vescovi, poterono intraprendere il loro viaggio a Roma, portando con sé un documento, in cui si proponevano le condizioni, con le quali tutti i vescovi ruteni erano pronti ad abbracciare l'unità della chiesa. Ricevuti con grande benevolenza i legati, il Nostro predecessore di felice memoria Clemente VIII affidò il documento da essi recato a una commissione di cardinali perché fosse diligentemente esaminato e approvato. Le trattative subito iniziate ebbero finalmente il felice e desiderato successo: il 23 dicembre 1595 i medesimi legati ammessi alla presenza del sommo pontefice, dopo avergli presentato in solenne adunanza la dichiarazione di tutti i vescovi, fecero in nome loro e in nome proprio una solenne professione della fede cattolica, promettendo la debita obbedienza e il debito ossequio. Lo stesso giorno il Nostro predecessore Clemente VIII, con la costituzione apostolica Magnus Dominus et laudabilis nimis,(5) comunicò, congratulandosene, a tutto il mondo la notizia di questo lieto evento. Con quanto gaudio inoltre e con quanta benevolenza la chiesa romana abbracciasse i ruteni ritornati all'unità dell'ovile, appare altresì dalla lettera apostolica Benedictus sit Pater del 7 febbraio 1596, con la quale il sommo pontefice informa il metropolita e gli altri vescovi ruteni dell'unione felicemente compiuta di tutta la loro chiesa con l'apostolica sede. Con tale lettera il romano pontefice, dopo aver brevemente narrato quanto in Roma si era fatto e trattato intorno a questa causa, e dopo averne esaltato con grato animo il successo ottenuto finalmente per divina misericordia, dichiarò che si potevano conservare inviolati gli usi e i legittimi riti della chiesa rutena. «Poiché i riti e le vostre cerimonie, che non impediscono l'integrità della fede cattolica e la mutua Nostra unione per lo stesso motivo e nello stesso modo che fu permesso dal concilio Fiorentino, anche Noi permettiamo che siano da voi conservati».(6) Assicura inoltre di aver domandato all'augusto re di Polonia che voglia prendere sotto il suo patrocinio non solo i vescovi con tutto ciò che ad essi appartiene, ma di onorarli anche ampiamente e di ammetterli nel senato del regno secondo i loro desideri. Infine esorta fraternamente quei vescovi che si radunino quanto prima da tutto il paese in un concilio generale per ratificare e confermare l'ottenuta riunione dei ruteni con la chiesa cattolica. A questo concilio, celebratosi a Brest, parteciparono non soltanto tutti i vescovi ruteni e molti altri ecclesiastici insieme coi regi legati, ma anche i vescovi latini delle diocesi di Leopoli, Luck e Cholm, che rappresentavano la persona del romano pontefice; e sebbene i vescovi di Leopoli e Peremislia venissero miseramente meno al consenso dato, tuttavia l'8 ottobre 1596 l'unione della chiesa rutena con la cattolica fu felicemente confermata e proclamata. Dalla quale conciliazione e consociazione, che rispondeva sì grandemente alle necessità del popolo ruteno, erano in verità da aspettarsi, per unanime consenso, abbondanti frutti. Ma venne il «nemico» e «seminò zizzania in mezzo al frumento» (Mt 13,25). Sia per cupidigia di alcuni uomini potenti, sia per inimicizie politiche, sia infine per negligenza usata nell'istruire e preparare precedentemente il clero e il popolo intorno a siffatta materia, seguirono veementissime contese e continue sventure per cui talvolta sembrava doversi temere che quest'opera dell'unione iniziatasi con ottimi auspici andasse miseramente sommersa. Che ciò non sia accaduto fin dall'inizio a causa delle persecuzioni e insidie tese non solo dai fratelli dissidenti, ma anche da alcuni cattolici, fu opera soprattutto dei due metropoliti Ipazio Potiej e Giuseppe Velamin Rutskyj, i quali con instancabile diligenza lavorarono per difendere e far progredire questa causa; e in modo speciale si adoperarono perché i sacerdoti e i monaci venissero formati secondo la sacra disciplina e i buoni costumi e che tutti i fedeli fossero educati secondo i retti dettami della vera fede. Non molti anni dopo, questa iniziata opera di conciliazione fu consacrata dal sangue di un martire; il 12 novembre dell'anno 1623, Giosafat Kuncevyc, arcivescovo di Polotsk e di Vitebsk, chiarissimo per santità di vita e ardore apostolico come pure invitto assertore dell'unità cattolica, cercato a morte dagli scismatici con acerbissima persecuzione, fu colpito da frecce e con una grossa scure fu ucciso. Ma il sacro sangue di questo martire divenne in un certo senso il seme di cristiani, poiché gli stessi parricidi, tutti ad eccezione di uno solo, pentiti del delitto commesso, e abiurato lo scisma, prima di essere colpiti dalla pena capitale, detestarono il proprio misfatto. Parimenti Melezio Smotrytskyj, acerrimo competitore di Giosafat nell'ambire la sede di Polotsk, l'anno 1627 ritornò alla fede cattolica e, quantunque avesse per un certo tempo tentennato fra le due parti, presto con animo deciso difese fino alla morte il pattuito ritorno dei ruteni al grembo della chiesa cattolica; cosa che sembra doversi attribuire anch'essa al patrocinio di questo santissimo martire. Tuttavia con l'andar degli anni aumentavano le difficoltà di ogni genere, che ostacolavano questa conciliazione felicemente cominciata. Tra le più gravi era il fatto che i re di Polonia, i quali da principio pareva volessero promuovere la cosa con la loro protezione, in seguito, costretti sia dalla forza dei nemici esterni, sia dai dissidi delle fazioni interne, avevano sempre più ceduto agli avversari dell'unità cattolica, che certo non mancavano. Così, in breve tempo, questa santissima causa giunse a tal punto, come confessarono gli stessi vescovi ruteni, da non aver altro sostegno che l'aiuto dei romani pontefici, i quali mediante la spedizione di lettere piene di affetto e la concessione degli aiuti a loro possibili, specialmente per mezzo del nunzio apostolico in Polonia, difesero la chiesa rutena con cuore forte e paterno. Quanto più tristi erano i tempi, tanto più risplendente lo zelo dei sacri prelati ruteni, i quali si sforzarono non solo di istruire la popolazione rude nella dottrina cristiana, ma di promuovere i sacerdoti non abbastanza colti a un grado più alto di scienza sacra e infine di riempire di rinnovato ardore per la regola e di desiderio di perfezione i monaci, là dove la loro condotta fosse per fragilità decaduta. Né si perdettero d'animo quando nell'anno 1632 i beni ecclesiastici furono in gran parte assegnati alla gerarchia dei fratelli dissidenti poco prima costituita, e nei patti stipulati tra i cosacchi e il re di Polonia fu decretata la dissoluzione dell'instaurata unione fra ruteni e sede apostolica; anzi continuarono a difendere con costanza e tenacia i greggi loro affidati. Dio però, il quale non permette che il suo popolo venga oltre misura tormentato da avversità, dopo che fu stabilita finalmente la pace di Andrussiw nel 1667, fece rifulgere nuovamente, dopo tante amarezze e sciagure, tempi più favorevoli per la chiesa rutena, dalla cui tranquillità la santa religione prese di giorno in giorno nuovi incrementi. Infatti i costumi e la fede cristiana fiorirono così eccellentemente che anche in quelle due eparchie, che nell'anno 1596 erano rimaste miseramente staccate dall'unità, si trattò del loro ritorno ogni giorno più copioso all'ovile cattolico, col consenso di tutti. E così felicemente avvenne che nell'anno 1691 l'eparchia di Peremislia e nel 1700 quella di Leopoli venissero ricongiunte con la sede apostolica, e in tal modo quasi tutto il popolo ruteno, che dimorava in quei tempi entro i confini della Polonia, godesse finalmente dell'unità cattolica. Fiorendo pertanto ogni giorno più le cose, con grande vantaggio degli interessi cristiani, nell'anno 1720, il metropolita e gli altri vescovi della chiesa rutena si radunarono in concilio a Zamość per provvedere in modo più idoneo, di comune accordo per quanto era in loro potere, alle crescenti necessità dei fedeli di Cristo. Dai decreti di tale concilio, confermati dal Nostro predecessore di v.m. Benedetto XIII con la costituzione apostolica Apostolatus officium data il 19 luglio 1724, non mediocri utilità provennero alla comunità dei ruteni. Tuttavia per imperscrutabile consiglio di Dio accadde che verso il tramonto del secolo XVIII questa medesima comunità in quelle regioni, che, dopo lo smembramento della Polonia, erano state congiunte all'impero russo, venisse afflitta da non poche persecuzioni e vessazioni, che furono talora molto gravi e acerbe. Quando poi morì l'imperatore Alessandro I si venne di proposito con temerario ardimento nella deliberazione di distruggere l'unità dei ruteni con la chiesa romana. Già prima le eparchie di questa nazione erano state in gran parte completamente messe fuori da ogni comunicazione con la sede apostolica. Ma ora furono eletti vescovi che, imbevuti e sollecitati dalla volontà di scisma, potessero rivelarsi ciechi fautori dell'autorità civile; nel seminario di Vilna, eretto dall'imperatore Alessandro I, s'insegnavano ai chierici d'ambo i riti dottrine avverse ai romani pontefici; l'Ordine Basiliano, i cui membri erano sempre stati di massimo aiuto alla chiesa cattolica di rito orientale, fu privato del proprio governo e della propria amministrazione, e i suoi monaci furono completamente sottoposti ai concistori eparchiali; infine i sacerdoti di rito latino ebbero la proibizione sotto gravi pene di amministrare i sacramenti e gli altri aiuti religiosi ai ruteni. E infine purtroppo nell'anno 1839 fu dichiarata solennemente l'unione della chiesa rutena con la chiesa russa dissidente. Chi potrà narrare, venerabili fratelli, i dolori, i danni, le privazioni con cui venne allora colpita la nobilissima gente rutena, accusata di delitto e di colpa solo per aver reclamato contro l'ingiuria fattale nel trascinarla a forza e con frode allo scisma, e aver cercato quanto poteva di conservare la sua fede? A buon diritto dunque il Nostro predecessore di p.m. Gregorio XVI denunziò a tutto il mondo nella sua allocuzione del 22 novembre 1839, lamentandosene e deplorandola, l'indegnità di questo modo di procedere; ma neppure le sue solenni richieste e proteste furono ascoltate: e così la chiesa cattolica dovette piangere questi suoi figli strappati con iniqua violenza dal suo grembo materno. Anzi, non molti anni dopo anche l'eparchia di Cholm, appartenente al regno di Polonia unito all'impero russo, patì la stessa miseranda sorte; e quei fedeli, i quali, per dovere di coscienza, non vollero staccarsi dalla vera fede, e con invitta fortezza resistettero all'unione con la chiesa dissidente, imposta nell'anno 1875, furono indegnamente condannati a pene pecuniarie, a percosse, all'esilio. Non così avveniva in questo stesso tempo alle eparchie di Leopoli e di Peremislia che, dopo lo smembramento della Polonia, erano state annesse all'impero d'Austria. In esse infatti la causa dei ruteni veniva sistemata con ordine e tranquillità. Nell'anno 1807 vi fu restituito il titolo metropolitano di Halyc, congiunto in perpetuo con l'archidiocesi di Leopoli. Anzi in questa provincia le cose fiorirono al punto, che due dei suoi metropoliti, Michele Levyckyj (a.1816-1858) e Silvestro Sembratovyc (a.1882-1898), i quali avevano governato con egregia prudenza e intenso zelo la rispettiva parte del gregge loro affidato, venivano in seguito elevati, per le insigni doti del loro animo e i loro singolari meriti, alla porpora romana e accolti nel supremo senato della chiesa. Crescendo di giorno in giorno il numero dei cattolici, il Nostro predecessore di f.m. Leone XIII nell'anno 1885 costituì legittimamente una nuova eparchia, quella di Stanislaviv, e sei anni dopo il felice stato della chiesa Galiziana apparve confermato in modo speciale, quando tutti i vescovi, con il legato del sommo pontefice e molto altro clero, si adunarono per celebrare a Leopoli il concilio provinciale per dare opportune leggi nella liturgia e nella sacra disciplina. Quando poi, verso la fine del secolo XIX e all'inizio del XX, molti ruteni spinti dalle difficoltà economiche emigrarono dalla Galizia negli Stati Uniti d'America, nel Canada o nelle repubbliche dell'America meridionale, il Nostro predecessore di f.m. Pio X, temendo con sollecito animo che questi suoi figli dilettissimi, per inesperienza della lingua del luogo e dei riti latini, venissero irretiti negli inganni degli scismatici e degli eretici, o cadendo nei dubbi e negli errori perdessero miseramente ogni religione, costituì nel 1907 un vescovo munito di speciali facoltà per loro. E in seguito, crescendo il numero e le necessità dei suddetti cattolici, vennero nominati speciali vescovi ordinari, uno per i ruteni originari di Galizia e residenti negli Stati Uniti d'America, e un altro nella regione canadese, oltre il vescovo ordinario destinato ai fedeli di questo rito che fossero emigrati dalla Subcarpazia rutena, o dall'Ungheria, o dalla Iugoslavia. Anche in seguito, sia la Congregazione di «Propaganda fide» sia la Sacra Congregazione per la chiesa orientale continuarono con opportune norme e decreti a ordinare le cose ecclesiastiche in quelle regioni sopra ricordate come in quelle dell'America meridionale. Non farà dunque meraviglia, venerabili fratelli, se la comunità dei cattolici ruteni, non una volta sola, presentandosene l'occasione, grata di così grandi benefici ricevuti, abbia voluto manifestare apertamente il suo animo riconoscente e il suo profondo attaccamento verso i romani pontefici. Ciò avvenne in modo particolare nell'anno 1895 al compiersi del terzo secolo dacché si era raggiunta a Roma e si era confermata a Brest la riunione dei loro antenati con la sede apostolica. Allora oltre alle celebrazioni con le quali venne opportunamente commemorato il fausto avvenimento nelle singole località della provincia di Galizia, fu inviata a Roma una nobilissima legazione costituita dal metropolita e dai vescovi per testimoniare al supremo dei sacri pastori e successore di san Pietro l'amore della chiesa rutena, il suo ossequio, venerazione e obbedienza. Il Nostro predecessore di p.m. Leone XIII, dopo aver ammesso alla sua presenza con i debiti onori l'insigne legazione, le rivolse un'allocuzione, in cui con paterno gaudio e paterna benevolenza lodò al massimo l'unione dei ruteni con la sede apostolica, come quella che era fonte saluberrima di vera luce, di pace durevole e di frutti soprannaturali per tutti coloro che l'accoglievano sinceramente nell'animo. I benefici che i romani pontefici comunicarono a questo carissimo popolo nei nostri tempi non furono minori. Specialmente quando la prima guerra europea devastò quelle regioni, come pure negli anni seguenti, essi non trascurarono cosa alcuna che potesse essere di aiuto e di sollievo alla comunità rutena. E superate col divino aiuto le gravi difficoltà da cui veniva oppressa questa comunità di cattolici, la si poté veder rispondere con animo alacre e volenteroso all'infaticabile lavoro dei suoi vescovi e all'opera coadiutrice del rimanente clero. Ma purtroppo sopraggiunse la seconda guerra, e, come tutti sanno, più grave e molto più perniciosa alla gerarchia rutena e al suo fedele gregge. Ma prima di scrivere brevemente, venerabili fratelli, delle presenti asprezze e angustie, che patisce questa chiesa con sommo pericolo della sua stessa vita, Ci piace aggiungere alcune cose, dalle quali traspaia più completamente e più chiaramente quanto grandi, quanto eccelsi benefici abbia procurato al popolo ruteno e alla sua chiesa quella riunione iniziatasi trecentocinquant'anni fa.
II E in verità, dopo che abbiamo in maniera sommaria brevemente accennato alla storia di questa desideratissima unione e dopo aver vedute le vicende della medesima, ora liete, ora tristissime, Ci si presenta la questione: che cosa ha giovato questa unione al popolo ruteno e alla sua chiesa? Quali vantaggi sono venuti ai medesimi da parte di questa sede apostolica e dei romani pontefici? Alla quale questione mentre Noi, come è giusto, rispondiamo, crediamo di fare cosa quanto mai opportuna e utile, specialmente perché non mancano fierissimi oppositori e negatori di questa unione di Brest. In primo luogo si deve osservare che i Nostri predecessori si sono sempre mostrati desiderosi di custodire intatti i riti legittimi dei ruteni. Infatti, quando i loro prelati per il tramite dei vescovi di Vladimir e di Luck, inviati per questo scopo a Roma, chiesero al romano pontefice «che sua santità si degnasse di conservare integri, inviolati e con le forme da loro usate al momento dell'unione, l'amministrazione dei sacramenti, i riti e le cerimonie della chiesa orientale, senza che egli o uno dei suoi successori facessero mai alcuna innovazione in tali cose»,(7) Clemente VIII, benignamente annuendo alle loro preghiere, stabilì che assolutamente niente si dovesse in tali cose mutare. E neppure l'uso del nuovo calendario gregoriano - il quale dapprima sembrava doversi usare anche dai ruteni pur ritenendo il calendario liturgico del rito orientale - fu in seguito imposto ai medesimi: infatti presso di loro può usarsi, fino a questi nostri tempi, il calendario giuliano. Inoltre il medesimo Nostro predecessore, con lettera del 23 febbraio 1596, concesse che l'elezione di coloro che erano stati debitamente nominati vescovi suffraganei dei ruteni venisse confermata dal metropolita, com'era stato proposto nella conclusa riconciliazione e secondo l'antica disciplina della chiesa orientale. Altri Nostri predecessori consentirono che i metropoliti potessero erigere luoghi di istruzione elementare e altre scuole in qualsivoglia parte della Russia, affidandoli liberamente a quei direttori e maestri che loro piacessero; e decretarono che i ruteni per ciò che spetta alla concessione dei favori spirituali non fossero considerati da meno degli altri cattolici e oltre a ciò vollero che né più né meno degli altri fedeli essi fossero allora e in futuro partecipi delle sacre indulgenze purché soddisfacessero anche essi alle necessarie prescritte condizioni. Paolo V poi stabilì che tutti coloro che frequentavano le scuole e i collegi eretti dai metropoliti fossero partecipi di quei particolari favori che i romani pontefici avevano concessi ai membri delle congregazioni mariane erette nelle chiese dalla Compagnia di Gesù. A coloro poi che facessero gli esercizi spirituali presso i monaci di san Basilio, Urbano VIII concesse le medesime indulgenze che erano state concesse ai chierici regolari della Compagnia di Gesù. Da questi fatti risulta chiaramente che sempre i Nostri predecessori usarono con i ruteni di quella medesima paterna carità che avevano per gli altri cattolici di rito latino. Non solo, ma ebbero grandemente a cuore di difendere i diritti e i privilegi della loro gerarchia. Infatti quando non pochi tra i latini ebbero ad asserire che il rito dei ruteni era di grado e di dignità inferiore e quando tra gli stessi vescovi latini alcuni andavano dicendo che i prelati ruteni non fruivano di tutti i diritti e di tutti gli uffici episcopali, ma che erano loro soggetti, questa sede apostolica rigettando tali ingiusti modi di pensare emanò il decreto del 28 settembre 1643 in cui viene stabilito quanto segue: «Riferendo l'eminentissimo cardinale Pamphili diversi decreti della congregazione particolare dei ruteni uniti, il santo padre approvò il decreto della medesima congregazione particolare del 14 agosto precedente con cui si stabilisce che i vescovi ruteni uniti sono veri vescovi e che debbono essere chiamati e tenuti come tali. Approvò pure quel decreto della medesima congregazione per cui i vescovi ruteni possono nei loro vescovadi erigere scuole per l'istruzione della loro gioventù nelle lettere e nelle scienze e per cui gli ecclesiastici ruteni godono dei privilegi del canone, del foro, dell'immunità e libertà di cui godono i sacerdoti nella chiesa latina».(8) L'instancabile e sollecita cura poi dei pontefici per conservare e custodire i riti ruteni si ricava specialmente dal decorso di quella lunga questione che riguarda il cambiamento di rito. Infatti sebbene per ragioni particolari del tutto aliene dalla loro volontà non potessero per un tempo lunghissimo imporre ai laici un severo divieto di passare ad altro rito, tuttavia dai loro ripetuti tentativi di stabilire un tale divieto nonché dalle esortazioni rivolte ai vescovi e ai sacerdoti latini appare chiaro quanto questa cosa stesse a cuore ai Nostri predecessori. Nel decreto stesso con cui nell'anno 1595 fu felicemente stabilita l'unione dei ruteni con la sede apostolica non viene posta, è vero, una chiara proibizione di passare dal rito orientale a quello latino; tuttavia quale fosse già allora il pensiero della sede apostolica appare da una lettera del preposito generale della Compagnia di Gesù indirizzata nell'anno 1608 ai gesuiti che stavano in Polonia, nella quale si dice che coloro che non fecero mai uso del rito latino non potevano dopo la conciliazione assumere questo rito «poiché è comando della chiesa ed è peculiarmente stabilito nelle lettere dell'unione fatta sotto Clemente VIII che ciascuno rimanga nel rito della sua chiesa».(9) Ma poiché c'erano frequenti lamentele intorno a giovani nobili ruteni che prendevano il rito latino, la Sacra Congregazinne di «Propaganda fide» con decreto del 7 febbraio 1624 comandò «che per l'avvenire sénza speciale licenza della sede apostolica non sia permesso ai rúteni uniti, sia laici sia ecclesiastici, tanto secolari che regolari, e specialmente ai monaci di san Basilio Magno di passare per qualsivoglia ragione, anche urgentissima, al rito latino».(10) Tuttavia, avendo il re di Polonia Sigismondo III interceduto perché quel decreto non venisse attuato nella sua integrità - desiderava infatti che il divieto riguardasse solamente gli ecclesiastici - il Nostro predecessore di felice memoria Urbano VIII non poté non accontentare un così grande promotore dell'unità cattolica. Di qui ne venne che quello che per particolari ragioni non fu imposto per legge, questo stesso la sede apostolica cercò di ottenere per via di precetti e di esortazioni; il che si dimostra in più di una maniera. E di fatto già nel proemio del decreto del 7 luglio 1624 in cui si proibiva il passaggio al rito latino solamente agli ecclesiastici, si stabiliva che i sacerdoti della chiesa latina venissero ammoniti a non esortare in confessione i fedeli laici a quel passaggio. E tali ammonizioni vennero spesso ripetute e i nunzi apostolici di Polonia per comando dei sommi pontefici si sforzarono con ogni loro potere perché venissero ascoltate. Che poi il pensiero e la volontà della sede apostolica in tale argomento non abbiano cambiato neppure in tempi successivi, lo si ricava pure dalle lettere inviate dal Nostro predecessore Benedetto XIV nel 1751 ai vescovi di Leopoli e di Peremislia, nelle quali si dice tra l'altro: «Ci è stata recata la vostra lettera del 17 luglio nella quale giustamente vi lagnate del passaggio dei ruteni dal rito greco al rito latino, mentre ben sapete, venerabili fratelli, che i Nostri predecessori hanno sempre deplorato tali passaggi e Noi stessi li deploriamo, perché grandemente desideriamo non la distruzione ma la conservazione del rito greco».(11) Di più il medesimo pontefice promise che avrebbe rimosso ogni impedimento in questa materia e che finalmente con solenne decreto avrebbe proibito un tale passaggio. Ma condizioni avverse di cose e di tempi non permisero che i desideri e le promesse di quel pontefice conseguissero allora l'effetto desiderato. Finalmente dopo che i romani pontefici Clemente XIV e Pio VII decretarono che i cattolici di rito ruteno esistenti nelle regioni della Russia non potessero passare al rito latino, in quella convenzione che vien detta concordia fatta nell'anno 1863 tra i vescovi latini e ruteni col favore e la guida della Sacra Congregazione di «Propaganda fide», venne stabilito che tale proibizione valesse per tutti i ruteni. Dai fatti che fin qui, venerabili fratelli, secondo le testimonianze storiche abbiamo sommariamente esposti, si ricava facilmente con quanto impegno questa sede apostolica abbia vigilato alla piena conservazione del rito ruteno sia per quanto riguarda l'intera comunità, sia per ciò che si riferisce alle singole persone; nessuno tuttavia si meraviglierà se la medesima Santa Sede, salvi sempre quei riti precipui che appartengono all'essenza della cosa, abbia per le particolari circostanze di cose e di tempi permesse o approvate provvisoriamente alcune minori immutazioni. Così, per esempio, nei riti liturgici non permise che si facesse alcuna mutazione di quelle che pian piano s'erano introdotte, se si eccettuino quelle poche che nel sinodo di Zamość erano state decretate dagli stessi vescovi ruteni. Tuttavia, allorché alcuni astutissimi fautori dello scisma in apparenza per difendere la genuina integrità del loro rito, ma in realtà perché più facilmente la plebe non istruita si staccasse dalla fede cattolica - si sforzavano di introdurre di nuovo con privata autorità antiche usanze già in parte antiquate, i romani pontefici consapevoli del loro dovere, denunziando apertamente le occulte e astute arti di quelli, resistettero a simili tentativi e decretarono che «niente senza aver prima consultata la sede apostolica doveva innovarsi nei riti della sacra liturgia - neppure col pretesto di ripristinare quelle cerimonie che sembrassero più conformi alle liturgie approvate dalla medesima Santa Sede - se non per ragioni gravissime e con l'assenso dell'autorità della sede apostolica».(12) Del resto tanto è lontana la volontà della sede apostolica dal recar danno all'integrità di questo rito, che anzi essa incitò la chiesa rutena a trattare con la massima riverenza i monumenti tramandati dall'antichità in materia liturgica. Testimonianza illustre di questo benevolo interessamento per il rito ruteno si può vedere nelle nuova edizione romana dei Libri Sacri, cominciata sotto il Nostro pontificato e in parte già felicemente compiuta, per cui la sede apostolica, accondiscendendo molto volentieri ai desideri dei vescovi ruteni, si è sforzata di restituire i loro riti liturgici alle loro avite e venerande forme antiche. Un secondo beneficio, venerabili fratelli, si presenta ora alla nostra mente, il quale fuori d'ogni dubbio è provenuto alla comunità dei ruteni da questo congiungimento con la sede apostolica. Per esso infatti questa nobilissima nazione si è stretta alla chiesa cattolica e quindi vive della vita di questa, dalla verità di questa viene illuminata, ed è fatta partecipe della sua grazia. Da questa derivano i ruscelli della scaturigine superna, i quali in tal guisa si diramano e penetrano ogni cosa che possono sorgere fiori bellissimi di ogni virtù e prodursi abbondanti e saluberrimi frutti. Infatti, mentre prima del ritorno all'unità gli stessi fedeli dissidenti ebbero a lamentare che in quelle regioni la santa religione era stata devastata, che il vizio della simonia nelle elezioni dei vescovi e degli altri sacri ministri si introduceva dappertutto, che erano dilapidati i beni ecclesiastici, corrotti i costumi dei monaci, scaduta la disciplina nei cenobi e i vincoli dell'obbedienza anche con i loro vescovi ogni giorno più indeboliti e pericolanti presso i fedeli, dopo l'unione, invece, con l'aiuto del Signore, le cose pian piano si mutarono in meglio. Ma di quanta fortezza d'animo, di quanta costanza non ebbero bisogno i vescovi per ristabilire dappertutto la disciplina ecclesiastica, specialmente in quei primi tempi tanto agitati da perturbazioni e persecuzioni d'ogni genere! Quanto lunghe e quanto dure fatiche non dovettero sopportare per far sorgere un clero ottimamente formato, per consolare il gregge loro affidato, tribolato da tante pene, per sostenere e fortificare con ogni tipo di aiuti coloro che vacillavano nella fede! Tuttavia contro ogni umana previsione si ottenne felicemente che non solo questa tanto auspicata unità vincesse le avverse tempeste, ma dalla superata lotta uscisse più vegeta e più forte. E non con la spada e con le percosse, non con le promesse o le minacce, ma con l'esempio esimio di vita religiosa e come per una chiarissima manifestazione della grazia divina, i cattolici ruteni ottennero finalmente di condurre all'unico ovile le eparchie dissidenti di Leopoli e di Peremislia. Ristabilita finalmente la tranquillità e la pace, la floridezza della chiesa rutena, specialmente nel secolo XVIII, si mostrò in tutto il suo splendore. Ne sono manifestazioni evidenti non solo la cattedrale di Leopoli, dedicata a san Giorgio, ma altresì le chiese e i cenobi eretti a Pociaiw, a Torocany, a Zyrowici e altrove, monumenti veramente insigni di quell'età. E qui pare opportuno dire sommariamente qualche cosa dei monaci Basiliani, che con la loro intenta e diligente attività hanno tanto bene e tanto egregiamente meritato in tutta questà vicenda. Dopo che i loro cenobi, per opera di Velamin Rutskyj, furono reintegrati in forma migliore e più santa e costituiti in congregazione, moltissimi religiosi per pietà, dottrina e zelo apostolico vi fiorirono così esemplarmente, da riuscire guide e maestri di vita devota al popolo cristiano. Aperte scuole di lettere con esercizi scolastici, non solo impartirono ai giovani, spesso di chiaro ingegno, un eccellente insegnamento, ma comunicarono quella loro solida virtù, per cui non la cedettero a nessuno di coloro che vengono istruiti nelle scuole latine. La qual cosa era certamente manifesta e conosciuta anche ai fratelli dissidenti, perché non pochi di quei giovani, abbandonata la patria e la famiglia, si chiusero molto volentieri in questi cenacoli della dottrina, per partecipare anch'essi di così soavi frutti. Né vantaggi minori la comunità rutena trasse in questi ultimi tempi dalla sua unione con la sede apostolica. Ciò si rende facilmente manifesto a tutti, solo che si dia uno sguardo alla chiesa di Galizia, quale essa era prima delle spaventose rovine e devastazioni della presente guerra. Infatti in questa provincia i fedeli erano quasi tre milioni e seicentomila, i sacerdoti 2.275 con 2.226 parrocchie. Inoltre moltissimi cattolici ruteni, oriundi della Galizia, dimoravano fuori di essa in varie parti, specialmente nell'America, in numero di quattro o cinquecentomila. A questa cospicua moltitudine di fedeli, che forse nel corso dei secoli non fu mai raggiunta, corrispondeva nelle singole eparchie un particolare fervore di virtù, di pietà e di vita cristiana. Nei seminari eparchiali gli alunni venivano educati nel debito modo e con diligenza a raggiungere il sacerdozio; e i fedeli, prendendo parte con grande amore e riverenza al culto divino secondo il proprio rito, ne ricavavano lieti e abbondanti frutti di pietà. Nel ricordare brevemente questo felice stato della chiesa rutena, non possiamo non nominare l'illustre metropolita Andrea Szeptyckyj, il quale per circa nove lustri adoperandosi con infaticabile operosità, non per una sola regione, né soltanto per vantaggi spirituali, diede bella prova di sé al gregge a lui affidato. Durante il corso del suo ministero episcopale fu istituita la Società teologica per la valorizzazione di uno studio intenso della sacra dottrina da parte del clero; venne eretta a Leopoli un'accademia, in cui i giovani ruteni d'ingegno più sveglio potessero opportunamente attendere alla filosofia, alla teologia e alle altre più alte discipline, in modo simile a quello che usano le università degli studi; la stampa d'ogni genere, sia con libri, sia con giornali e riviste ebbe un grande sviluppo, e fu lodata anche presso le nazioni estere; altresì le arti sacre furono coltivate secondo le tradizioni degli avi e il genio proprio di questa gente; il museo e le altre sedi delle belle arti furono provveduti di insigni monumenti dell'antichità; e finalmente si iniziarono e si promossero non poche istituzioni atte a venire in soccorso alle necessità delle classi inferiori e all'indigenza dei poveri. Non possiamo passare sotto silenzio il merito singolare dei pii sodalizi di uomini e di donne, che in queste case recano non piccolo salutare vantaggio. E prima di tutti Ci piace ricordare i monasteri dei monaci Basiliani e delle vergini consacrate a Dio, i quali, sebbene al tempo di Giuseppe II imperatore soffrissero ingiustamente e con danno l'invasione del potere civile nei loro ordinamenti, tuttavia dopo, cioè nel 1882 e negli anni seguenti, ritornarono all'originale splendore, grazie alla cosiddetta riforma di Dobromil, e con l'amore alla vita nascosta e con quello spirito che si attinge alle norme e agli esempi del santo fondatore, congiungono un acceso amore di apostolato. A questi antichi focolari della vita monastica si aggiunsero con egual lode nuove congregazioni religiose maschili e femminili: così, l'Ordine degli Studiti, i cui monaci attendono soprattutto alla contemplazione delle cose celesti e alle opere della santa penitenza; così, la congregazione religiosa, di rito ruteno, del SS. Redentore, i cui associati lavorano con grande fervore nella Galizia e nel Canada; così, moltissimi istituti che hanno per fine di provvedere all'educazione delle fanciulle e alla cura degli infermi, e che si chiamano o Ancelle dell'immacolata vergine Maria o Mirofore o Suore di san Giuseppe, di san Giosafat, della santa Famiglia, di san Vincenzo de' Paoli. Ci piace inoltre rammentare qui il pontificio Seminario di san Giosafat, costruito dal Nostro predecessore Pio XI sul colle Gianicolense e corredato dalla sua munificenza. Dopo che per lunghi secoli giovani scelti si preparavano ai sacerdozio nel pontificio Collegio Greco, un altro Nostro antecessore, Leone XIII di immortale memoria, nell'anno 1897, eresse un collegio proprio per quei giovani ruteni, che si sentissero da divina ispirazione chiamati al sacerdozio. Resosi poi angusto questo edificio per il numero crescente degli alunni, l'immediato Nostro predecessore, per quell'affetto particolare che lo distingueva verso il popolo ruteno, edificò, come abbiamo detto, una nuova e più ampia sede, dove gli aspiranti al sacerdozio, istruiti e formati nelle scienze sacre e nei costumi propri del loro rito, crescessero felicemente nella venerazione, nel rispetto e nell'amore verso il vicario di Cristo e alla speranza della chiesa rutena. Un altro pregio di non minor conto e utilità ebbe il popolo ruteno dalla sua unione con la sede apostolica, quando ebbe l'onore di un inclito stuolo di confessori e di martiri, i quali per conservare intatta la fede cattolica e la devota fedeltà verso i romani pontefici, non esitarono a sostenere ogni sorta di calamità e a incontrare con allegrezza la morte stessa, secondo quella sentenza del divin Redentore: «Beati sarete allora, quando gli uomini vi odieranno e scomunicheranno e vi diranno improperi e rigetteranno come abominevole il vostro nome a causa del Figlio dell'uomo: rallegratevi allora e tripudiate, perché grande è la mercede vostra nel cielo» (Lc 6,22-23). Nel novero di questi per primo si affaccia alla Nostra mente quel santo vescovo Giosafat Kuncevyc, la cui invitta fortezza più sopra abbiamo commemorato, e che, cercato a morte dai perversi nemici del nome cattolico, spontaneamente si diede ai carnefici, e si offrì quale vittima per il sollecito ritorno dei fratelli dissidenti. Fu egli invero a quel tempo il principale martire della fede cattolica e dell'unità, ma non il solo; perché non pochi altri lo seguirono con la palma della vittoria, tanto ecclesiastici quanto laici che, o uccisi di spada o flagellati spietatamente fino a morire o affogati nelle acque del Dniepr, dal trionfo della morte passarono tra i santi del cielo. Ma non molti anni dopo, cioè a metà del secolo XVII, avendo i cosacchi preso apertamente le armi contro la Polonia, il loro odio contro l'unità religiosa di molto crebbe e si accese violentemente. Si erano messi in mente che tutti i mali e le calamità fossero derivate, come da prima origine, dall'essersi stabilita questa unione; perciò si erano proposti di combatterla con tutti i mezzi e in ogni maniera fino alla distruzione. Di qui provennero danni innumerevoli alla chiesa cattolica rutena: molte chiese profanate, dilapidate, distrutte e i loro patrimoni e suppellettili annientati; non pochi sacerdoti e molti fedeli sottoposti a gravi percosse, atrocemente tormentati, spenti con morte crudelissima; perfino gli stessi vescovi spogliati dei loro beni e scacciati dalle loro venerande sedi furono costretti a darsi alla fuga. Eppure essi, anche in mezzo a tanta tempesta, non si perdettero mai d'animo, né abbandonarono, per quanto fu loro possibile, senza custodia e senza difesa il proprio gregge. Anzi, fra tante angustie, si sforzarono con la preghiera, la lotta, la fatica di ricondurre all'unità tutta la chiesa russa e l'imperatore Alessio. Anche pochi anni prima che la Polonia venisse lacerata, vi fu una nuova e non meno acerba persecuzione contro i cattolici. Quando cioè i soldati dell'imperatrice delle Russie invasero la Polonia molte chiese di rito ruteno furono a viva forza, con le armi, tolte ai cattolici, e i sacerdoti, che ricusavano di rinnegare la fede, vennero messi in catene, conculcati, feriti e gettati in carcere e tormentati atrocemente con la fame, la sete, il freddo. A questi non furono inferiori per costanza e fortezza quei sacerdoti che, verso l'anno 1839, soffrirono piuttosto la perdita dei propri beni e della stessa libertà, che venir meno ai doveri religiosi. Del numero di costoro è quel Giuseppe Ancevskyj, che qui ci piace ricordare in modo speciale, il quale, per trentadue anni tenuto sotto dura prigionia nel monastero di Suzdal, ottenne il premio dell'esimia sua virtù nell'anno 1878 con una piissima morte. Come lui i centosessanta sacerdoti che, professando chiaramente la fede cattolica, vennero strappati alle loro famiglie che lasciavano nella miseria, e rinchiusi nei cenobi, non mai mutarono il santo proposito né per la fame né per le altre vessazioni. Né meno si distinsero per fortezza vari chierici e laici dell'eparchia di Cholm, che con mirabile coraggio resistettero ai persecutori della fede. Così, per esempio, gli abitanti del villaggio Pratulin, allorché i soldati vennero per occupare la chiesa e consegnarla agli scismatici, non si opposero alla forza con la forza, ma, strettisi insieme con i loro inermi corpi, opposero agli assalitori come un muro vivente. Perciò molti di essi vennero feriti, molti patirono orrende crudeltà, altri furono chiusi in carcere per lunghi anni o deportati nell'agghiacciata Siberia, altri finalmente passati a fil di spada sparsero il sangue per Cristo. Fra questi, di coloro che suggellarono col proprio sangue la fede cattolica, già si è iniziata la causa nella propria eparchia, per cui si spera di potere un giorno venerarli fra i beati del cielo. Tali delitti furono, per sventura, compiuti non in un luogo solo, ma in più città, nei paesi, nei villaggi; e dopo che tutte le chiese cattoliche furono consegnate agli scismatici, dopo che tutti i sacerdoti, scacciati dalle proprie sedi, furono costretti a lasciare abbandonato il proprio gregge, allora i fedeli vennero iscritti nei registri della chiesa dissidente, senza tenere nessun conto della loro volontà. Essi però, sebbene privi dei loro pastori e degli aiuti e soccorsi della loro religione, si studiarono di mantenere tenacemente la fede. Anzi, essendo in seguito andati da loro, travestiti e con grave rischio della vita, i padri della Compagnia di Gesù, per istruirli nei divini precetti, esortarli e recare loro conforto, essi li ricevettero con grande allegrezza e pietà. Nel 1905 essendo stata concessa una certa libertà di professare qualsiasi religione, si vide nei paesi ruteni un meraviglioso e lieto spettacolo. I cattolici quasi senza numero uscirono dai loro nascondigli in pubblico e in lunga processione, innalzato il vessillo della croce ed esposte le immagini dei santi all'aperto alla venerazione, non avendo sacerdoti di rito orientale, si recarono alle chiese latine - il cui ingresso era loro proibito sotto pene severissime - per rendere grazie al Signore. Ivi giunti, domandarono ai legittimi sacerdoti di aprire loro le porte, di ricevere sé e la loro professione di fede e di inscrivere i loro nomi nei registri dei cattolici. Così avvenne che in breve tempo duecentomila fedeli venissero ricevuti nella chiesa. Tuttavia neppure in questi ultimi anni mancò occasione ai vescovi, ai sacerdoti e al gregge fedele di mostrare fortezza d'animo e costanza nel conservare la fede cattolica, nel difendere la chiesa e la sua sacra libertà. Fra tutti Ci piace far menzione onorevole particolarmente di Andrea Szeptyckyj, il quale nella prima guerra europea, essendo stata occupata la Galizia dagli eserciti russi, scacciato dalla sua sede e deportato in un cenobio, ivi fu tenuto in prigione almeno per un certo tempo e ivi niente più desiderava che di attestare la sua grandissima devozione alla sede apostolica e, con la grazia divina, di subire anche il martirio, se fosse necessario, per il suo gregge, per la salute del quale già da lungo tempo aveva speso le sue forze e le sue cure.
III Dai fasti della storia brevemente accennati in questa lettera, abbiamo visto, venerabili fratelli, quanti e quali vantaggi e benefici siano derivati alla nazione rutena dalla sua unione con la chiesa cattolica. Non fa meraviglia, perché, se in Gesù Cristo «piacque al Padre che abitasse ogni pienezza» (Col 1,19), di questa stessa pienezza certamente non può usufruire chi è separato dalla chiesa «che è il corpo suo stesso» (Ef 1,23), perché, come afferma il Nostro predecessore di venerata memoria Pelagio II, «chiunque non è in pace e comunione con la chiesa, non può aver Dio dalla sua parte».(13) Abbiamo anche visto quali tribolazioni, danni e maltrattamenti abbia dovuto sopportare questo diletto popolo dei ruteni, per difendere secondo le sue forze l'unità cattolica; tuttavia, più di una volta la Provvidenza divina lo ha felicemente liberato col ritorno della pace. Nelle circostanze presenti poi, con profonda angoscia dell'animo paterno notiamo che una nuova e furiosa tempesta incombe su questa chiesa. Notizie pervenuteci, poche in verità, hanno tuttavia di che riempirci l'animo di preoccupazione e di ansia. Ricorre il giorno anniversario da quando, or sono 350 anni, quest'antichissima comunità cristiana si univa sotto lieti auspici al suo supremo pastore e successore del beato Pietro; ma questo stesso giorno Ci si è cambiato in «giorno di tribolazione e d'angustia, giorno di calamità e di miseria, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di bufera» (Sof 1,15). Con grande dolore abbiamo appreso che in quelle regioni, recentemente sottoposte alla giurisdizione russa, i fratelli e figli a Noi carissimi appartenenti alla nazione rutena soffrono gravi tribolazioni per la loro fedeltà verso la sede apostolica; e che non mancano coloro che con tutti i mezzi si adoperano per strapparli dal grembo della chiesa madre e spingerli contro la loro volontà e contro la coscienza di un santissimo dovere a entrare nella comunità dei dissidenti. Perciò il clero di rito ruteno, a quanto si dice, in una lettera inviata ai capi della repubblica, si è lamentato che la propria chiesa dell'Ucraina occidentale, come oggi vien chiamata, sia stata messa in una situazione assai difficile, perché tutti i vescovi e molti dei suoi sacerdoti sono stati incarcerati, con la contemporanea proibizione che nessuno osi assumere la direzione della stessa chiesa rutena. Sappiamo pure, venerabili fratelli, che simili aspri rigori vengono apparentemente coonestati col pretesto politico. Simile modo di agire non è nuovo, né adoperato oggi per la prima volta: spesso, nel corso dei secoli, i nemici della chiesa, per non confessare apertamente che avversavano la chiesa cattolica e manifestamente perseguitavano, subdolamente e con raggiri speciosi hanno incolpato i cattolici di congiurare contro lo stato; nello stesso modo con cui una volta i giudei accusarono lo stesso divin Redentore dinanzi al pretore romano dicendo: «Abbiamo trovato costui che seduce la nostra nazione e proibisce di pagare il tributo a Cesare» (Lc 23,2). Ma i fatti stessi e gli eventi provano e collocano nella loro luce quelli che furono e sono i moventi di simili persecuzioni. Chi ignora che Alessio, eletto recentemente patriarca dai vescovi dissidenti delle Russie, nella sua lettera alla chiesa rutena - con la quale non poco ha contribuito ad inaugurare tale persecuzione - ha apertamente esaltato e predicato la defezione dalla chiesa cattolica? Ora tali vessazioni tanto più acerbamente Ci colpiscono, in quanto, venerabili fratelli, quasi tutte le nazioni della terra essendosi riunite per mezzo dei loro rappresentanti, mentre ancora infuriava l'immane conflitto, avevano tra loro ufficialmente dichiarato che non si sarebbe più per l'avvenire iniziata persecuzione di sorta contro la religione. Ciò Ci aveva fatto nascere la speranza che anche alla chiesa cattolica sarebbe stata ovunque concessa la pace e la dovuta libertà, tanto più che la chiesa ha sempre insegnato e insegna che all'autorità civile legittimamente costituita bisogna sempre ubbidire per dovere di coscienza, quando essa comandi entro la sfera e i limiti della sua giurisdizione. Purtroppo i fatti ai quali abbiamo alluso scrivendo hanno profondamente intaccato e quasi distrutta questa Nostra fiduciosa speranza nei riguardi della nazione rutena. Pertanto, poiché in simili gravissime calamità i mezzi umani sembrano rivelarsi impotenti, non Ci resta, venerabili fratelli, se non pregare con perseveranza Dio misericordiosissimo che «farà giustizia ai bisognosi e vendicherà i poveri» (Sal 139,13), perché egli voglia benignamente sedare questa terribile tempesta e imporle finalmente termine. Esortiamo anche voi, e il gregge a voi affidato, perché a Noi uniti, per mezzo di preghiere supplichevoli e pie pratiche di penitenza, vi sforziate di ottenere da colui che illumina della sua celeste luce le menti degli uomini, e piega le loro volontà col suo supremo volere, perché abbia pietà del suo popolo e non esponga la sua eredità allo scherno (cf. Gl 2,17), e affinché al più presto la chiesa dei ruteni sia liberata da questo pericoloso momento critico. Ma in modo particolare, in queste circostanze tristi e critiche, il Nostro animo si volge a coloro che tanto duramente ne sono oppressi. A voi prima di tutto, venerabili fratelli, vescovi della nazione rutena che, benché siate travagliati da grandi tribolazioni, più che delle offese e dei torti inferti siete preoccupati e solleciti della salvezza del vostro gregge, secondo quel detto: «Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle» (Gv 10,11). Benché il presente sia oscuro e il futuro pieno di ansie e d'incertezza, tuttavia non perdetevi d'animo, ma «fatti spettacolo al mondo e agli angeli e agli uomini» (1Cor 4,9) sforzatevi, perché tutti i fedeli si specchino sull'esempio della vostra pazienza e della vostra virtù. Sopportando con fortezza e costanza questa persecuzione, infiammati da carità divina per la chiesa, siete diventati «il buon odore di Cristo... a Dio in coloro che si salvano e in coloro che periscono» (2Cor 2,15). Che se trovandovi in carcere e strappati dai vostri figli non vi è data la possibilità di insegnare ad essi i precetti della santa religione, tuttavia le vostre stesse catene annunziano e predicano Cristo in modo più pieno e più nobile. Ci rivolgiamo inoltre a voi, diletti figli, che insigniti del sacerdozio di Cristo «il quale patì per noi» (1Pt 2,21) dovete più da vicino seguire le sue orme, e quindi più che gli altri sopportare l'urto della lotta. Mentre da una parte le vostre tribolazioni Ci addolorano profondamente, dall'altra Ci rallegrano, perché facendo nostre le parole del divin Redentore, Ci è permesso di esprimerCi così con la maggior parte di voi: «So le opere tue e la fede e la carità e i servigi e la sapienza tua, e le ultime opere tue più numerose delle prime» (Ap 2,19). Vi esortiamo ad andare avanti in questi tempi luttuosi e a perseverare nella fede vostra con fermezza e costanza. Continuate a sostenere i deboli e a incoraggiare i vacillanti. Ammonite, se occorre, i fedeli a voi affidati che non è mai lecito, neppure apparentemente e con manifestazioni verbali, negare o disertare Cristo e la sua chiesa; smascherate gli astuti procedimenti di coloro che promettono agli uomini vantaggi terreni e una maggiore felicità in questa vita, mentre poi perdono le loro anime. Mostratevi voi stessi «come ministri di Dio, con molta pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie ... con la castità, con la scienza, con la mansuetudine, con la soavità, con lo spirito di santità, con la carità non simulata, con la parola di verità, con la potenza di Dio, con le armi della giustizia, a destra e a sinistra» (2Cor 6,4ss). A voi infine Ci rivolgiamo, cattolici tutti della chiesa rutena, ai cui dolori e tribolazioni partecipiamo con animo paterno. Non ignoriamo che alla vostra fede si tendono insidie gravissime. Sembra anzi ci sia da temere che nel prossimo avvenire la persecuzione si inasprisca contro coloro che non si piegheranno a tradire il sacrosanto dovere della religione. Perciò ancora una volta, figli dilettissimi, vi esortiamo insistentemente, perché non sgomenti da minacce e danni di nessun genere, neppure dell'esilio e dello stesso pericolo della vita, non vogliate tradire la vostra fedeltà verso la chiesa madre. Come ben sapete, si tratta del tesoro nascosto in un campo; il qual tesoro un uomo avendolo trovato «lo nasconde, e tutto allegro, va, vende quanto ha, e compra quel campo» (Mt 13,44). E ricordate pure ciò che lo stesso divin Redentore disse nel Vangelo: «Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me. E chi non prende la sua croce e mi segue non è degno di me. Chi tien conto della sua vita, la perderà, e chi avrà perduto la vita per amor mio, la troverà» (Mt 10,37ss). A questa divina sentenza, piace aggiungere quel detto dell'apostolo delle genti: «Parola fedele: se insieme siamo morti, insieme ancor vivremo, se saremo tolleranti, regneremo insieme; se lo rinnegheremo, egli pure rinnegherà noi; se non crediamo, egli rimane fedele, non può negare se stesso» (2Tm 2,11ss). Crediamo di non potere meglio confermare e terminare questa Nostra paterna esortazione, diletti figli, se non con questi ammonimenti dello stesso apostolo delle genti: «Vegliate, siate costanti nella fede, operate virilmente, e fortificatevi» (1Cor 16,13). «Siate ubbidienti ai vostri superiori» (Eb 13,17), vescovi e sacerdoti, quando vi comandano per la vostra salvezza e secondo i precetti della chiesa; a tutti coloro che in qualsiasi modo, tendono insidie alla vostra fede, resistete, «solleciti di conservare l'unità dello spirito mediante il vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come siete ancora stati chiamati ad una sola speranza della vostra vocazione» (Ef 4,3-4). In mezzo ai dolori e angosce di ogni sorta, ricordatevi «che i patimenti del tempo presente, non hanno a che fare con la futura gloria che in noi si scoprirà» (Rm 8,18). «Ma fedele è Dio il quale vi conforterà e vi difenderà dal maligno» (2Ts 3,3). Fiduciosi intanto che a questa nostra esortazione risponderete, coll'ispirazione e l'aiuto della grazia divina, con fortezza e volontà forte, vi auguriamo e supplici vi impetriamo dal Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione (cf. 2Cor 1,3) tempi per voi migliori e più tranquilli. Pegno delle celesti grazie e in attestato della Nostra benevolenza, impartiamo di tutto cuore, a voi singoli, venerabili fratelli, e al vostro gregge, in particolar modo ai vescovi della chiesa rutena, ai sacerdoti e a tutti i fedeli, l'apostolica benedizione. Roma, presso San Pietro, il giorno 23 dicembre 1945, VII del Nostro pontificato. PIO PP. XII NOTE Ricostruzione storica delle vicende che portarono la chiesa rutena all'unione con Roma. Il martirio di san Giosafat. Migrazioni verso l'America. Analisi dei vantaggi derivati dall'unione di Brest e difficoltà successive. Angoscia e dolore per la tristissima situazione creatasi dopo la II guerra mondiale: una chiesa perseguitata. Ma fiducia in tempi migliori. (2) LEO XIII, Epist. apost. Praeclara gratulationis (20.6.1894): Acta Leonis XIII, t. XIV p. 201. (4) BARONIUS, Annales, t. VII, Romae 1596, Appendix, p. 681. (5) A. THEINER, Vetera monumenta Poloniae et Lithuaniae, t. III, p. 240ss. (6) A. THEINER, Vetera monumenta Poloniae et Lithuaniae, t. III, p. 251. (7) A. THEINER, Vetera monumenta Poloniae et Lithuaniae, t. III, p. 237. (8) Acta et decr. SS. Conciliorum rec., col. 600, nota 2. (9) Acta et decr. SS. Conciliorum rec. , col. 602. (10) Acta et decr. SS. Conciliorum rec., col. 603. (11) Acta et decr. SS. Conciliorum rec. , col. 606. (12) Cf. PIUS IX, Litt. Omnem sollicitudinem (13.5.1874), citans GREGORIUM XVI, Inter gravissimos: Pii IX Acta, VI, 317. (13) Epist. ad Episcopos Istriae: Acta Conc. Oecum., IV, II, 107. |