Carlo Maria
Martini
"PACE E GUERRA NEL XXI
SECOLO" FORUM DI RELAZIONI INTERNAZIONALI
Convegno Roma Palazzo
Rospigliosi, 12.07.2000
INTRODUZIONE
Sono lieto di partecipare a questo momento di studio e di riflessione
promosso dal Forum di Relazioni internazionali, allo scopo di individuare
i contenuti che i concetti di pace e di guerra vanno assumendo oggi,
all'alba del XXI secolo.
Saluto e ringrazio tutte le autorità
politiche, militari ed ecclesiali qui presenti, come pure i rappresentanti
delle Organizzazioni internazionali, del mondo accademico e delle
organizzazioni umanitarie, i relatori e tutti i partecipanti a questo
incontro.
La riflessione da voi promossa nasce dalla consapevolezza che
le gravi instabilità e ingiustizie del nostro tempo provocano interventi
militari, interventi tesi in teoria a garantire, ristabilire o imporre il
rispetto dei diritti fondamentali di persone e collettività e che tuttavia
suscitano gravi interrogativi di ordine morale, politico e anche militare
in chi ha la responsabilità della decisione e dell'esecuzione di tali
interventi.
Tale riflessione, inoltre, si impone all'alba del nuovo
millennio, dopo un secolo - il XX - che, per un verso, è stato uno dei
periodi più tragici dell'intera storia umana e, per un altro verso è stato
il secolo in cui si sono levati i più alti appelli alla pace.
L'ultimo
secolo, infatti, "è stato un secolo segnato da odio e da profondo
disprezzo nei confronti dell'umanità, odio e disprezzo che non
rinunciavano a nessun mezzo e metodo per annientare e sterminare l'altro"
. È stato un secolo di guerre, intervallate da periodi più o meno lunghi,
non di pace, ma di tregua: oltre alle due guerre mondiali, molti altri,
circa centoottanta, sono stati i conflitti armati interni a singoli Stati
o a livello internazionale, i quali - secondo attendibili stime
internazionali - tra il 1950 e il 1990 hanno provocato circa quindici
milioni di morti nel mondo. Né si possono dimenticare le incalcolabili
sofferenze che queste innumerevoli guerre hanno inflitto all'umanità:
hanno causato milioni e milioni di morti e di feriti, distrutto famiglie,
gettato nella miseria popoli interi, creato maree di profughi, condannato
al sottosviluppo interi continenti.
Lungo lo stesso secolo, si è pure
instaurata una corsa agli armamenti più distruttivi e più sofisticati che
non ha nemmeno lontanissimi paragoni nei secoli precedenti: se tutto
questo non ha portato all'olocausto nucleare, pur avendolo sfiorato varie
volte, non è stato - come alcuni hanno giustamente osservato - per
rinsavimento o per saggezza, ma per timore, perché ci si è resi conto che
in una guerra atomico-nucleare, combattuta su tutto il pianeta con l'uso
di armi nucleari strategiche, non ci sarebbero stati né vinti né
vincitori, ma la fine della storia umana . Il secolo XX, nel contempo,
è stato il secolo nel quale l'idea e l'azione per la pace hanno
indubbiamente conosciuto una significativa accelerazione.
È stato,
infatti, il secolo della proclamazione dei Diritti dell'uomo,
dell'affermazione della democrazia e della sconfitta dei totalitarismi,
della fine del colonialismo, delle creazione di grandi organismi
internazionali e, in particolare, dei primi tentativi - con la Società
delle Nazioni e con l'ONU - di realizzazione di una sorta di governo
mondiale, con lo scopo di mantenere la pace e di "preservare le nazioni
future dal flagello della guerra" . È stato anche il secolo nel quale ha
preso avvio una cultura della pace, che si è espressa con personalità come
Leone Tolstoj, Gandhi e, in Italia, nel "Movimento non-violento per la
pace" di Capitini. In campo cattolico, infine, oltre all'affermazione,
specialmente nella seconda metà del secolo, di un forte movimento
pacifista, va indubbiamente ricordato il ricchissimo magistero soprattutto
pontificio da Benedetto XV a oggi e la presa di posizione del Concilio
Vaticano II.
Siamo posti di fronte così a uno dei temi - quello della
guerra-pace - tra i più ardui e complessi della convivenza umana e della
morale sociale, che ha accompagnato la riflessione della coscienza umana e
cristiana lungo tutta la storia e che oggi, con lo straordinario mutamento
dovuto all'avvento delle armi atomiche e nucleari, si pone con
caratteristiche significativamente diverse dal passato. E' per tutti
questi motivi che anch'io mi sento profondamente interpellato da questo
tema, pur non avendo di esso competenza specifica. Vi rifletto a voce alta
di fronte a voi con la mia coscienza di cristiano e di vescovo, alla
ricerca di parametri etici e alla luce del messaggio evangelico, pur
consapevole della complessità dei problemi che altri potranno approfondire
in maniera più precisa e concreta.
Le mie fonti di ispirazione sono
naturalmente anzitutto le Sacre Scritture e la dottrina sociale della
Chiesa. Risento dunque anzitutto in me la parola di Gesù "Beati gli
operatori di pace,perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9), il suo
invito provocatorio "Ma io vi dico, amate i vostri nemici" ( Mt 5,44) e
guardo al futuro con la speranza del profeta Isaia "Forgeranno le loro
spade in vomeri, le loro lance in falci" (Is 2,4), tenendo conto nello
stesso tempo del lungo cammino storico dei popoli e delle coscienze per
interiorizzare e attuare un tale messaggio, in costante conflitto con le
infedeltà e gli egoismi umani.
In questo contesto intendo proporre
alcuni spunti di riflessione generale su quattro punti:
1. La coscienza
cristiana di fronte alla guerra;
2. L'edificazione della pace nella
giustizia e nella solidarietà;
3. In questa luce, qualche riflessione
sulla cosiddetta ingerenza umanitaria;
4. Principi per una
riconsiderazione dell'attuale assetto internazionale.
1. LA COSCIENZA CRISTIANA DI FRONTE ALLA
GUERRA
Quella della Chiesa e dei cristiani verso la guerra è una storia e una
riflessione che ha accompagnato i due millenni di cristianesimo fin qui
trascorsi. Essa - come è stato giustamente notato - "sembra avere subito
numerosi mutamenti lungo i 20 secoli che stanno concludendosi. Infatti è
passata da un atteggiamento più o meno pacifista nei primi quattro secoli
alla formulazione della teoria della guerra giusta, poi al sostegno di
politiche destinate a costruire la pace" . In ogni caso, a partire dal
dato storico e dalla dottrina recepita, sembra affiori progressivamente
entro la tradizione cristiana una linea convergente nel tentativo di
ridurre sempre di più dimensioni e conseguenze di ogni intervento
bellico. In questo senso va letta anche la dottrina della "guerra
giusta", sostenuta per molti secoli dalla teologia, senza essere mai
sancita in modo "ufficiale" dal Magistero della Chiesa.
Tale dottrina,
infatti, - nell'accezione condivisa dalla morale cattolica e diversamente
da quella deviazione interpretativa che se ne è data a partire dal
Rinascimento, allorché venne utilizzata per arrecare una parvenza di
legittimazione morale alle diverse ambizioni nazionali - "non è animata
dall'intenzione di "giustificare" nel senso di promuovere o incoraggiare
il ricorso alla guerra. Al contrario, essa mira a ridurre il più possibile
tale ricorso. "Il più possibile", in quanto non esclude a priori che - in
particolari situazioni - l'astensione da interventi militari avrebbe
effetti controproducenti proprio rispetto al fine che sempre deve essere
perseguito: quello di assicurare le condizioni per una convivenza umana
"pacifica", libera, cioè, dal dominio della violenza incontrollata e del
"potere" arbitrario" . Il presupposto di tale teoria consisteva nella
convinzione che la guerra, che in ogni caso costituisce una disgrazia e
comporta mali grandi e orrendi, in alcune circostanze potrebbe apparire
come in qualche modo "inevitabile" o "necessaria".
In ogni caso l'intento
di tale teoria, intento di stampo prettamente pedagogico, era quello di
fare appello alla coscienza perché rinunciasse alla violenza - aiutandola
a liberarsi dai condizionamenti della passione, del desiderio di vendetta,
e di ogni sorta di sopraffazione - e decidesse se, in quel momento preciso
e concreto, il ricorso alla violenza fosse in qualche maniera ammissibile
e giustificabile. Per raggiungere tali scopi, questa teoria individuava
condizioni e regole molto precise e severe - anche se spesso concretamente
inattuabili, considerata la logica stessa della guerra, che mira a
infliggere al nemico danni gravissimi, assai superiori a quelli
probabilmente indispensabili per conseguire il pur giusto fine per cui si
fa la guerra - perché una guerra potesse dirsi "giusta".
La guerra -
come appare anche dalla teoria appena ricordata della "guerra giusta" - è
sempre un male e, come tale, va evitata o almeno - quando essa apparisse
come inevitabile - va limitata il più possibile nelle sue dimensioni e
nelle sue conseguenze. Ciò è ancora più evidente e urgente a mano a mano
che si passa alla guerra moderna, a una guerra, cioè, che per sua natura
comporta armi e distruzione di massa, che sfuggono al controllo dell'uomo
e che, seppure in misura diversa, si qualifica pressoché sempre come
"guerra totale", anche quando non si usassero armi chimiche o
termonucleari, ma armi cosiddette convenzionali . Come sottolinea,
infatti, anche Giovanni Paolo II, oggi "non è difficile affermare che la
potenza terrificante dei mezzi di distruzione, accessibili perfino alle
medie e piccole potenze, e la sempre più stretta connessione, esistente
tra i popoli di tutta la terra, rendono assai arduo o praticamente
impossibile limitare le conseguenze di un conflitto".
Alla luce di
questi radicali cambiamenti intervenuti nel modo di fare la guerra e nel
concetto stesso di guerra, si comprende come, nel secolo XX, con gli
interventi del magistero, da Benedetto XV a Giovanni Paolo II, si sia
passati dalla considerazione delle condizioni classiche per l'affermazione
di una "guerra giusta" all'affermazione della impossibilità di dichiarare
"giusta" una guerra totale, o condotta con armamenti strategici
ultimamente incontrollabili, fino all'affermazione della necessità di
evitare, fin dove possibile, ogni guerra, in un contesto come l'attuale,
nel quale un conflitto appare non facilmente delimitabile una volta
avviato, nel quale, civili vengono di solito ad essere molto più coinvolti
dei militari stessi e dove le conseguenze creano facilmente effetti
negativi destinati a perdurare ben oltre la durata delle operazioni
belliche.
Come, infatti, già si esprimeva Giovanni XXIII nella Pacem in
terris, superando così il concetto di "guerra giusta", "Nell'era atomica è
irrazionale [alienum est a ratione] pensare che la guerra possa essere
utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati" . E il
Concilio, che per lo più non ha voluto pronunciare anatémi, su questo
punto ha avuto una parola ferma e dura: "Ogni atto di guerra che
indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste
regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa
umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato".
Secondo questi interventi, si deve, quindi, concludere che la guerra
moderna è di fatto quasi sempre immorale . Essa, inoltre, è anche inutile,
dannosa e irrazionale, perché non solo non risolve, se non apparentemente
e momentaneamente, i problemi che l' hanno scatenata, ma li aggrava e ne
crea di nuovi ancora più gravi. Come ha scritto Giovanni Paolo II, "il
secolo XX ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono
spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano
situazioni di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle
persone. Esse, in genere, non risolvono i problemi per i quali vengono
combattute e pertanto, oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano
anche inutili.
Con la guerra, è l'umanità a perdere" . Ne segue l'accorato
appello risuonato già sulle labbra di Paolo VI prima, nel suo intervento
all'ONU , e poi ripreso solennemente anche da Giovanni Paolo II nella
Centesimus annus: ""Mai più la guerra!". No, mai più la guerra, che
distrugge la vita degli innocenti, che insegna a uccidere e sconvolge
egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico
di rancori e di odi, rendendo più difficile la giusta soluzione degli
stessi problemi che l'hanno provocata!".
In questo quadro, che
concorre ad affermare che oggi non esistono "guerre giuste" e non esiste
un "diritto di 'fare' la guerra", l'unico spiraglio che rimane
praticamente aperto in ordine alla "legittimità" - e non tanto e ancora
alla "doverosità" - di un intervento bellico è quello che riguarda la
cosiddetta guerra difensiva, in presenza di un'aggressione ingiusta in
atto . È, per altro, uno spiraglio molto piccolo, se si considera
soprattutto il tema della "proporzionalità" tra il bene che ci si aspetta
di conseguire e i danni da infliggere e i costi da sostenere.
Come dice,
infatti, il Concilio, "fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non
ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci,
una volta esaurite tutte le possibilità d'un pacifico accomodamento, non
si potrà negare ai governi il diritto d'una legittima difesa" . È un
diritto, questo ribadito anche recentemente nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, che precisa anche gli attuali rigorosi criteri di legittimità
morale, la cui "valutazione morale spetta al giudizio prudente di coloro
che hanno la responsabilità del bene comune" . In forza di tali criteri,
"occorre contemporaneamente: - che il danno causato dall'aggressione alla
nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; - che
tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o
inefficaci; - che ci siano fondate condizioni di successo; - che il
ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da
eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso
la potenza dei moderni mezzi di distruzione".
Ne segue che, anche in
questo caso, - come ho ricordato fin dall'inizio - la logica e l'intento
di fondo è di ridurre sempre più dimensioni e conseguenze dell'intervento
bellico e, positivamente, di sollecitare un'azione articolata e
convergente che porti a superare le cause di un possibile conflitto. Si
tratta, tra l'altro, di proseguire non soltanto nella linea di una
delimitazione degli effetti negativi degli armamenti, ma in quella della
accurata reinterpretazione del concetto stesso di "difesa".
Per un verso,
superata la prospettiva tradizionale della "difesa del territorio
nazionale e della popolazione ad esso inerente", si potrebbe accedere a
sempre nuove identificazioni dei "mali sociali" o "strutture di peccato"
cui una o più nazioni, anche solidalmente, sono chiamate a rispondere, con
la conseguente predisposizione di tattiche e mezzi idonei allo scopo. Per
un altro verso, si tratterebbe di dare spazio a diversificate e
convergenti azioni di difesa, non esclusa anche la difesa non-violenta.
Occorre, infatti, - come ricordavo in occasione della Giornata Mondiale
della Pace del 1984 - "avere il coraggio di esigere che i responsabili
programmino forme di difesa militari e civili non offensive, che non sono
la rassegnazione totale, ma non sono neppure la deterrenza e la
dissuasione offensiva che è al centro del dibattito morale oggi.
Bisogna
osare la via realistica della dissuasione puramente difensiva, che è poi
la versione moderna della "legittima difesa", la quale ultima è troppo
spesso confusa con la legittima offesa. Gli scienziati e i tecnici vanno
mobilitati non per scoprire armi più vulneranti (anche se si dice che
rimarranno solo a scopo di minaccia e di monito), ma modi di neutralizzare
l'offesa così da scoraggiarla perché priva di risultati adeguati. È così
che gli Stati moderni intendono la legittima difesa all'interno delle loro
strutture civiche. Perché non deve essere lo stesso anche tra gli Stati,
in attesa di un'autorità definitiva che regoli i conflitti con i soli
mezzi del dialogo?".
Con la condanna del ricorso alla guerra, infine,
la coscienza cristiana è andata progressivamente condannando la corsa agli
armamenti e superando la logica della deterrenza, intesa come accumulo di
armi - a livello quantitativo e, oggi soprattutto, a livello qualitativo e
di tecnologie avanzate - allo scopo di dissuadere qualsiasi avversario dal
compiere atti di guerra. "Riguardo a tale mezzo di dissuasione - come si
legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica - vanno fatte severe riserve
morali" . Esso infatti - come afferma il Concilio e gli fa eco lo stesso
Catechismo - "non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il
cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e
stabile. Le cause di guerre, anziché venire eliminate da tale corsa,
minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente.
E mentre si spendono
enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile
arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente"
. In altri termini - come ha detto il Papa il 23 agosto 1982 - "la logica
della deterrenza nucleare non può essere considerata come uno scopo finale
o un mezzo appropriato e sicuro per salvaguardare la pace internazionale".
Ancora più precisamente - come ha affermato lo stesso Giovanni Paolo II
nel suo Messaggio all'ONU dell'11 giugno 1982 - "Nelle condizioni attuali,
una "deterrenza" fondata sull'equilibrio, non certo come un fine in se
stesso ma come una tappa sulla via di un disarmo progressivo, può ancora
essere giudicata moralmente accettabile. Tuttavia, per assicurare la pace,
è indispensabile non essere soddisfatti di questo minimum che è sempre
esposto al reale pericolo dello scoppio di una guerra".
A dire, cioè,
che la politica della deterrenza può essere moralmente accettabile solo
se, nello stesso tempo, si fa sinceramente e concretamente ogni sforzo per
imboccare la via del negoziato, allo scopo di giungere al disarmo e se si
lavora per mutare il clima di sfiducia e di paura nei rapporti
internazionali. Ne segue che essa non è, invece, moralmente accettabile
quando non fosse controbilanciata da una politica di riduzione o
limitazione degli armamenti e di disarmo progressivo e multilaterale . Ne
segue pure che, tale politica va tanto più superata quanto più crescono il
negoziato, il disarmo, la fiducia tra gli Stati. Come sottolineavo nella
già citata mia omelia per la Giornata Mondiale della Pace del 1984, "la
sicurezza non deve essere intesa solo come sicurezza militare, ma deve
consolidarsi attraverso un potenziamento del dialogo, dei sistemi
democratici, degli organismi di controllo internazionali.
La stessa
dissuasione deve farsi forte non solo di quell'atteggiamento così disumano
che è la forza violenta, ma anche e soprattutto di quelle risorse più
degne dell'uomo che sono la solidarietà internazionale, le sanzioni
giuridiche, l'isolamento di chi usa prepotenza, ecc." . E aggiungevo:
"Occorre anche sviluppare tecniche e addestramenti di difesa civile non
violenta, e investire per questo in programmi adeguati. L'insieme di
questi mezzi costituirebbe una reale alternativa alla deterrenza
offensiva. Sarebbe una efficace dissuasione difensiva che ci permetterebbe
di affrontare tutti con cuore più disponibile il tema del disarmo, in
parte anche di un disarmo unilaterale. […] Non ci vengano dunque a dire
che non c'è alternativa realistica alla deterrenza offensiva. C'è, e
bisogna trovarla con tutte le forze, se non si vuole che la dissuasione
aggressiva che è poi la garanzia del mutuo annientamento, tollerata ora
come male minore e come ripiego provvisorio e solo alla condizione di
trovare vie di uscita più umane e pacifiche, diventi un'abitudine, una
pratica accettazione della spirale degli armamenti, e infine una trappola
di morte per l'umanità".
2. L'EDIFICAZIONE DELLA PACE NELLA
GIUSTIZIA E NELLA SOLIDARIETÀ
Da quanto detto fin qui risulta che non bastano la ribellione
morale alla guerra e alla corsa agli armamenti e il rifiuto della politica
della deterrenza. Occorre, insieme e positivamente, impegnarsi per
costruire la pace, la quale - come insegna la Pacem in terris - è fondata
sulla verità, sulla giustizia, sull'amore, sulla libertà . Ne seguono -
quale sfida urgente e improcrastinabile anche per il XXI secolo - la
necessità e il dovere di impegnarsi per eliminare dal nostro mondo le
disuguaglianze sociali e gli squilibri economici tra i popoli, le
condizioni di oppressione e lesione dei diritti umani più essenziali, le
minacce per l'umanità connesse con ogni tipo di totalitarismo politico o
ideologico.
"Il mobilissimo e impegnativo compito della pace, insito
nella vocazione dell'umanità ad essere e a riconoscersi come famiglia" -
ha scritto Giovanni Paolo II nell'ultimo Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace introducendo la questione della solidarietà come
condizione ineliminabile per la pace - "ha un suo punto di forza nel
principio della destinazione universale dei beni della terra". E
aggiungeva: "Nessuno si illuda che la semplice assenza di guerra, pur così
auspicabile, sia sinonimo di pace duratura. Non c'è pace vera se ad essa
non si accompagnano equità, verità, giustizia e solidarietà. Resta
destinato al fallimento qualsiasi progetto che ritenga separati due
diritti indivisibili e interdipendenti: quello alla pace e quello ad uno
sviluppo integrale e solidale".
A questo proposito, l'edificazione
della pace, soprattutto in un contesto di globalizzazione come l'attuale,
richiede che si abbia a far maturare un'autentica cultura della
solidarietà. Nel fare ciò va superata ogni concezione
"assistenzialistico-sentimentale" della solidarietà stessa, vedendola
piuttosto come responsabilità per il bene comune.
Si deve pure riconoscere
il nesso che intercorre tra efficienza e solidarietà, convinti che
quest'ultima, proprio in quanto risponde a un principio etico superiore di
fraternità verso chi si trova in condizioni di bisogno, può essere
considerata anche una "convenienza" per lo stesso funzionamento
complessivo della società.
Essa, inoltre, può essere realizzata mediante
una pluralità di "reti di sostegno", capaci di attuarsi in ordine a una
molteplicità di situazioni, che di per sé non riguardano soltanto i
"poveri". Infine, va attuata riconoscendo anche il "vincolo" e il "debito"
che ci lega a tutto il patrimonio ambientale, economico, culturale,
sociale lasciatoci in dono dalle generazioni che ci hanno preceduto: ciò
esige - proprio in nome della solidarietà - che ci si assuma la
responsabilità di consegnarlo "migliorato" alle generazioni future. In
altre parole, la sfida che ci attende è quella di assicurare "una
globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza
marginalizzazione".
Va pure sottolineato, in particolare, - come ha
sottolineato Giovanni Paolo II nell'enciclica Sollicitudo rei socialis -
che "il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente
raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma
anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci
insegnano a vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una
società nuova e un mondo migliore" . Il riferimento a queste "virtù" mi
suggerisce una parola di richiamo al ruolo fondamentale e irrinunciabile
dell'educazione per l'edificazione della pace.
Si tratta, infatti, di far
crescere le persone nella libertà, purificandola da ogni falsificazione o
riduzione e rispettandola e promovendola con saggezza e prudenza. Si
tratta di condurre un'opera paziente e coraggiosa di responsabilizzazione
che aiuti ogni persona a crescere in quella solidarietà che - per
riprendere ancora alcune espressioni del Papa - è "la determinazione ferma
e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di
tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti" .
Si tratta, in ogni ambito educativo e nella concretezza dell'esperienza
quotidiana, di comunicare alcuni valori fondamentali - quali il rispetto
dell'altro, il senso della giustizia, la sincerità, l'onestà,
l'accoglienza cordiale, il dialogo, la disponibilità disinteressata, il
servizio generoso - che soli possono concorrere a far crescere uomini
veri, giusti, generosi, forti e buoni, quegli uomini cioè che possono
contribuire positivamente all'edificazione di una convivenza umana più
pacifica. Tutto questo nasce dalla convinzione che - come si legge in un
documento della Commissione "Giustizia e pace" della Conferenza episcopale
italiana - la pace chiama certamente in causa le istituzioni, "ma è sempre
il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo,
la competizione e la solidarietà" . Ne segue che il pur necessario
cambiamento delle istituzioni resta impresa vana e impossibile se non
cambia il cuore dell'uomo e se, quindi, attraverso l'opera educativa,
l'uomo non viene aiutato ad essere pienamente se stesso, nel
riconoscimento dell'altro e in un rapporto di prossimità e di fratellanza
con tutti.
È, infine, un'azione, quella dell'edificazione della pace,
che invita l'intera umanità a impegnarsi su vie nuove e a sviluppare la
collaborazione fattiva di tutte le forze ideali che, riconoscendo il
valore superiore dell'ideale della pace, partecipano alla sua costruzione.
Ne segue la necessità di un dialogo, non ingenuo e cieco, ma lucido, tra
le parti sociali delle diverse civiltà: un dialogo che orienti e induca a
guardare alla pace non soltanto come a un'assenza di guerra, imposta con
la forza, ma come a un'opera di giustizia inscritta nella realtà. In altri
termini, oggi si chiede a tutti di costruire la pace, guardando agli
interessi globali dell'intera umanità e adoperandosi per uno sviluppo
solidale nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. E proprio in
riferimento a queste esigenze di solidarietà e di difesa dei diritti
possono essere ripresi e reinterpretati i criteri individuati nel passato
per la problematica della "guerra giusta" .
Ciò significa che autorità
competente, giusta causa, retta intenzione, preoccupazione per le
popolazioni civili, considerazione e rispetto delle proporzioni possono
essere aspetti di una "griglia di lettura" che permette ai popoli di
giudicare se l'agire quotidiano dei loro governi rafforzi o metta in
pericolo la pace. E tale "griglia di lettura" può costituire il nucleo di
una "teologia della pace", che teologi, politici e militari devono
elaborare insieme.
3. QUALCHE RIFLESSIONE SULLA COSIDDETTA
INGERENZA UMANITARIA
Un'altra questione - da distinguere opportunamente da quelli fin qui
affrontati della guerra e dell'intervento armato a scopo difensivo - è
quella che riguarda un intervento armato, o comunque supportato dall'uso
di armi, orientato a finalità di carattere umanitario, attuato sia nel
tentativo di comporre i rapporti tra differenti Paesi o di prevenire un
conflitto, sia per ristabilire livelli accettabili di convivenza
all'interno di un singolo Stato, i cui poteri pubblici non sono o non
sarebbero più in grado di provvedervi in modo autonomo.
Il presupposto
che fonda e spiega la possibilità di questa cosiddetta "ingerenza
umanitaria" è dato dalla convinzione, che i diritti umani, da un lato, in
quanto strettamente connessi con la dignità della persona umana, sono
anteriori e preminenti a qualsiasi differenziazione o specificazione e,
dall'altro lato, proprio per questo non hanno frontiere, perché sono
universali e indivisibili. Ne segue - come ha scritto il Papa nel
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno - sia che "chi
offende i diritti umani offende la coscienza umana in quanto tale, offende
l'umanità stessa", sia che "il dovere di tutelare tali diritti trascende i
confini geografici e politici entro cui essi sono conculcati", per cui "i
crimini contro l'umanità non si possono considerare affari interni di una
nazione".
Ne segue che, soprattutto in un tempo di interdipendenza come
il nostro, il principio di non-ingerenza tra gli Stati, se inteso in modo
assoluto, si rivela anacronistico e antistorico, oltre che non rispettoso
della posta in gioco allorquando vengono conculcati i diritti degli uomini
e dei popoli.
A partire da tutto ciò, contro ogni presunta "ragione"
della guerra, va anzitutto affermato "il valore preminente del diritto
umanitario e pertanto il dovere di garantire il diritto all'assistenza
umanitaria delle popolazioni sofferenti e dei rifugiati" e, nello stesso
tempo, "il dovere di individuare tutti quei modi, istituzionali e non, che
possono concretizzare al meglio le finalità umanitarie" . Si apre qui un
capitolo molto vasto e interessante, che non è possibile ora sviluppare,
circa il senso, le condizioni e i limiti degli interventi delle diverse
organizzazioni umanitarie e, in particolare, di quelle di ispirazione
cristiana.
Dalle medesime considerazioni e quando i soli interventi
umanitari non fossero sufficienti, deriva anche la legittimità-doverosità
della più diretta "ingerenza umanitaria" che preveda anche l'eventuale uso
delle armi. Così si esprime il proposito il Papa nel più volte citato
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno:
"Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto
i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della
politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino
doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l'aggressore" .
Una legittimità-doverosità che deve rispondere a precise e rigorose
condizioni, così espresse: "Queste tuttavia devono essere circoscritte nel
tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del
diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello
soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi".
Si tratta di un principio di carattere etico-giuridico prima che
politico e militare, che sancisce il diritto-dovere della comunità
internazionale di intervenire anche con la forza, se necessario, negli
affari interni di uno Stato, quando sono in gioco i diritti fondamentali
dei cittadini. Come tale esso sembrerebbe da considerare - più che nella
linea della difesa da un male - nella logica degli interventi di
ristabilimento dell'ordine pubblico. Si tratta, quindi, di interventi che
possono anche arrivare a prevedere l'uso delle armi, ma come "extrema
ratio" e dopo avere utilizzato tutta una serie di altri mezzi, oltre a
quelli dovuti alla prevenzione e alla diplomazia. Siamo di fronte, in
altre parole, a un intervento armato di tipo sussidiario, sia come
"affiancamento" o "protezione" di operazioni umanitarie in corso, sia come
modalità di "ristabilimento" dell'ordine pubblico.
È evidente che tale
principio richiede una vera riconsiderazione dell'attuale assetto
internazionale, in cui la sovranità dei singoli Stati è piena ed
indiscussa, così da mettere in atto e portare a ulteriore sviluppo
processi virtuosi di autolimitazione di essa da parte di ogni singolo
Paese e da creare effettivamente spazi e condizioni per un'azione
efficace, accolta e riconosciuta di organismi internazionali, come l'ONU,
a loro volta riformati almeno quanto a poteri e a capacità
rappresentativa.
Si apre qui, tra l'altro, anche il grosso capitolo della
giustizia internazionale e del suo ristabilimento: un ambito vastissimo e
comprendente tutto quanto attiene al problema dello sviluppo e che va ben
oltre il campo degli interventi estremi di carattere armato. Questi
ultimi, comunque, andranno presi in considerazione là dove non ci fosse
altra possibilità realistica, sempre però secondo quella logica
sussidiaria a cui ho già accennato e che, come tale, è complementare ad
altri interventi, anche di carattere punitivo o restrittivo della "libertà
statuale", se così si può dire, in linea con la logica della "giustizia
penale" che si applica all'interno degli Stati.
4. PRINCIPI PER UNA RICONSIDERAZIONE
DELL'ATTUALE ASSETTO INTERNAZIONALE
Da tutto quanto siamo venuti dicendo fin qui, appare con sufficiente
chiarezza la sempre più urgente necessità di dare vita ed efficienza ad
istituzioni sovrastatali per il trattamento dei diversi conflitti. Lo
richiedono sia la crescente interdipendenza a livello mondiale, sia il
potere incredibilmente devastante degli armamenti, sia il già richiamato
principio dell'ingerenza umanitaria. Tutto ciò rende, infatti, «
impensabile che si possa provvedere a un giusto "ordine internazionale" -
e, forse, alla stessa sopravvivenza dell'umanità - senza mettere in
discussione il consueto modo d'intendere la "sovranità statale"» .
La
pace, in questo senso, richiede strutture politiche sovranazionali davvero
efficaci nell'arginare le possibili sopraffazioni. Era già questo
l'auspicio di Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite: egli, infatti,
- partendo dalla convinzione che il bene comune universale pone oggi
problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente
affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza,
strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di Poteri pubblici cioè, che
siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale - così si
esprimeva: "Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a
instaurare un'autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano
giuridico e politico?" .
"Si apre qui" - come ha sottolineato Giovanni
Paolo II anche nell'ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace -
"un campo di riflessione e di deliberazione nuovo sia per la politica che
per il diritto, un campo che tutti auspichiamo venga coltivato con
passione e con saggezza". E aggiungeva: "È necessario e non più
procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle
istituzioni internazionali che abbia nella preminenza del bene
dell'umanità e della persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza
e il criterio fondamentale di organizzazione".
Nel cercare di
assolvere a questo compito importante e sempre più urgente, è necessario
ripensare l'idea stessa di nazione. È necessario, infatti, superare ogni
forma di nazionalismo e aprirsi ad una convivenza più accogliente e
solidale. Si tratta di distinguere adeguatamente tra nazionalismo e
patriottismo; di discernere tra sentimenti nazionali positivi e negativi;
di riconoscere e difendere i diritti delle minoranze contro la tendenza
all'uniformità; di rispettare e promuovere il diritto di ogni nazione di
preservare la propria sovranità nazionale; di ricercare formule che,
superando l'immediata identificazione tra "Stato" e "nazione", consentano
a popoli diversi di vivere in un'unica entità statale vedendo ampiamente
salvaguardati i propri diritti e la propria identità. L'ottica per
realizzare questo necessario e urgente ripensamento dovrebbe essere quella
della "cultura della nazione", vista come luogo nel quale si manifesta la
sovranità fondamentale della società, quella sovranità per la quale l'uomo
è supremamente sovrano: è proprio mediante tale cultura che la nazione
esiste ed è in forza del diritto a tale cultura che la nazione ha diritto
ad esistere.
E, tuttavia, tutto ciò non si può né si deve identificare
con nessuna sorta di nazionalismo. Le differenze nazionali non devono
scomparire, ma piuttosto devono essere mantenute e coltivate come
fondamento di solidarietà. Nello stesso tempo, però, non si può
dimenticare che la stessa identità nazionale non si realizza se non
nell'apertura verso gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi.
Ne segue che la stessa nozione e realtà della nazione va mantenuta e
interpretata entro la tensione vitale tra universalità e particolarità che
caratterizza la condizione umana. In questa ottica, l'autonomia nazionale
è sì un valore importante, ma non assoluto: prima degli interessi
nazionali, infatti, ci sono gli uomini con la loro inalienabile dignità e,
al di sopra delle tradizioni particolari dei singoli gruppi umani, si pone
la comunità universale, da costruire nella giustizia, nella solidarietà e
nella pace. In ogni caso, la nazione non si identifica a priori e
necessariamente con lo Stato. Si danno e si devono dare, quindi, diverse
possibili forme di configurazione giuridica della singole nazioni e di
aggregazione tra di esse e ciò dovrebbe sempre avvenire, oltre che nel
rispetto dei diritti delle minoranze, in un clima di vera libertà,
garantito dall'esercizio dell'autodeterminazione dei popoli.
C'è pure
bisogno - oggi più che mai in un contesto segnato da interdipendenza,
globalizzazione, mondializzazione dei fenomeni economici, sociali e
politici - di dare vita a un nuovo diritto internazionale. Le diverse
iniziative politiche interne dei diversi Paesi non bastano più; occorrono
la concertazione fra i Paesi e il consolidamento di un ordine democratico
internazionale, tendenzialmente planetario, con istituzioni nelle quali
siano equamente rappresentati gli interessi legittimi di tutti i popoli.
Si tratta, quindi di mirare a un "governo mondiale", di cui quelli
"regionali", compreso quello europeo, sono da vedere come tappa e, in
qualche modo, prefigurazione.
Perché ciò possa avvenire occorre puntare
al superamento della sovranità assoluta degli Stati. Questa è la Strada
maestra per dare al mondo un ordine più giusto e una sicurezza stabile,
arrivando ad una forma democratica e partecipata di governo mondiale,
ossia a quella "autorità pubblica universale [...] dotata di efficace
potere per garantire a tutti i popoli la sicurezza, l'osservanza della
giustizia e il rispetto dei diritti", come si esprime il Concilio Vaticano
II . Si deve, quindi, pervenire a una sempre più reale e corretta
limitazione del principio di sovranità degli Stati. Questa idea mette in
discussione le forme tradizionali della collaborazione internazionale, che
si fonda ancora su relazioni pattizie tra gli Stati ed è diretta a
contemperare i loro interessi particolari.
È una strada da percorrere con
saggezza e con decisione, nella certezza che, se la sovranità degli Stati
- così come storicamente si è andata realizzando - ha rappresentato uno
strumento di gestione particolaristica ed egoistica degli interessi
nazionali, la sua limitazione non può che significare l'avvio concreto di
un processo istituzionale capace di sfociare in un assetto di governo che
serva un'autentica cultura di solidarietà internazionale. Si tratta, in
altri termini, di porre in atto quei mutamenti anche istituzionali capaci
di "elevare i rapporti tra le nazioni dal livello "organizzativo" a
quello, per così dire, "organico", dalla semplice "esistenza con" alla
"esistenza per" gli altri, in un fecondo scambio di doni, vantaggioso
innanzitutto per le nazioni più deboli, ma in definitiva foriero di
benessere per tutti. Solo a questa condizione si avrà il superamento non
soltanto delle "guerre guerreggiate", ma anche delle "guerre fredde"; non
solo l'eguaglianza di diritto tra tutti i popoli, ma anche la loro attiva
partecipazione alla costruzione di un futuro migliore; non solo il
rispetto delle singole identità culturali, ma la loro piena
valorizzazione, come ricchezza comune del patrimonio culturale
dell'umanità".
Da un punto di vista più propriamente etico-culturale,
occorre lasciarsi ispirare e guidare da quel concetto di "famiglia delle
nazioni", lanciato nello stesso discorso tenuto dal Papa all'ONU. Giovanni
Paolo II sottolineava allora che "il concetto di "famiglia" evoca
immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o
della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una
comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul
rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il dominio dei forti;
al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza,
doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello della
"famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere, prima ancora
del semplice diritto, le relazioni fra i popoli".
CONCLUSIONE
Concludendo questo mio intervento, vorrei partire da una considerazione
di ordine pratico, che ci dice come, ancora oggi, purtroppo, in qualche
caso, la guerra appare come inevitabile: quando non vi è un diverso modo
di difendere un popolo che appare destinato all'annientamento, non c'è
altra scelta.
A tale "inevitabilità", però, non ci si può arrendere.
Dobbiamo continuamente porci la domanda circa quale possa essere
l'alternativa all'uso delle armi. Tale alternativa va pensata, cercata,
anche quando sembra impossibile. In questo senso, dobbiamo augurarci che
la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi
ulteriori.
Nel frattempo, occorre che la mobilitazione contro il male
sia accompagnata da un' opera progettuale, che dia nuova consistenza alla
pace, alla sicurezza, alla stessa dissuasione. Non ci si può rassegnare
alla logica della guerra o della dissuasione armata: vorrebbe dire finire
in una trappola mortale per l'umanità.
Come ho avuto modo di
sottolineare in altre occasioni, si tratta di "disarmare gli animi,
armando la ragione". È un invito e un appello che tutti ci coinvolge e che
mi auspico possa essere accolto, così da dare un volto più bello e più
umano - perché più pacifico - al secolo XXI.
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