Biografia dei due santi patriarchi di Costantinopoli
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Gregorio
(330-389/390) fu un uomo di grandi amicizie. L'amico per
eccellenza fu Basilio, conosciuto prima durante l'adolescenza a
Cesarea di Cappadocia, e poi ad Atene, dove i due si erano recati
a perfezionare i loro studi. “Sembrava che fossimo un'anima sola
in due corpi” (Discorsi 43, 20), scriverà più tardi
rievocando quegli anni. L'affetto tra i due non venne mai meno,
anche se conobbe, come sovente accade nell'amicizia, momenti di
grande tensione. |
La personalità
forte ed energica di Basilio si scontrava con quella di Gregorio,
dotato di un animo poetico, emotivo, propenso alla solitudine e alla
contemplazione.
Basilio diede vita a
una comunità monastica ad Annisoi, nel Ponto, ma Gregorio, che pur
aveva aderito al progetto di vita concepito insieme negli anni
ateniesi, lo abbandonò e preferì tornarsene nella casa paterna
sognando di poter condurre una vita più solitaria e ritirata. Verso
la fine del 361, o l'inizio del 362, venne, suo malgrado, ordinato
presbitero dal padre, Vescovo di Nazianzo. “Mi piegò con la forza”
(Autobiografia 348), scrive ricordando quell'evento. Reagì a
quella violenza nel modo che gli era più usuale: con la fuga. Poi,
dopo alcuni mesi, assunse in piena obbedienza il suo ministero,
accettando, come più volte gli accadrà nel corso della vita, di
essere condotto là dove non voleva andare (cf. Gv 21, 18).
A distanza di una
decina d'anni, sarà lo stesso Basilio, che pure conosceva così bene
i suoi sentimenti, a imporgli la consacrazione episcopale. Basilio,
eletto Vescovo di Cesarea nel 370, si era visto costretto dalla
politica ariana dell'imperatore Valente a moltiplicare il numero delle
diocesi dipendenti da Cesarea, in modo da assicurare un certo numero
di Vescovi fedeli a Nicea, che fossero in grado di fronteggiare
l'avanzata dell'arianesimo. Gregorio, contro ogni suo desiderio, fu
ordinato Vescovo di Sasima, un paesino di frontiera tra la Cappadocia
prima e la Cappadocia seconda, nel quale, a dire il vero, non entrerà
mai. Avrebbe dovuto entrarci con le armi in pugno, poiché Sasima,
insignificante sotto l'aspetto pastorale, si trovava in una posizione
strategica da un punto di vista economico e politico ed era contesa da
un altro Vescovo ariano.
Ma Gregorio continua a
sostenere l'amico Basilio con la sua amicizia; come era intervenuto,
anni prima, a mettere pace tra lui, ancora presbitero e il Vescovo
Eusebio, così, durante gli anni dell'episcopato, lo difende da chi lo
accusa di essere troppo prudente nel proclamare la divinità dello
Spirito Santo, e lo consola con le sue numerose lettere. Nel 379
Basilio muore e Gregorio, malato, non può essere accanto all'amico.
Nel 380, l'imperatore
Teodosio chiamò Gregorio a Costantinopoli a guidare la piccola
comunità cristiana fedele a Nicea e in questa città, Gregorio
pronunciò i cinque discorsi che gli meritarono l'appellativo di “Teologo”.
Ma Gregorio stesso precisa nei suoi scritti che la teologia non è “tecnologia”,
non è un'argomentazione umana, ma nasce da una vita di preghiera, da
un dialogo assiduo con il Signore. In qualità di Vescovo di
Costantinopoli, Gregorio partecipò al concilio del 381 e, dopo la
morte di Melezio che ne aveva guidato la prima parte, fu chiamato alla
presidenza. Le sessioni conciliari furono quanto mai tribolate: i
sostenitori dei due candidati alla presidenza della Chiesa di
Antiochia non trovavano una via d'intesa; e lo stesso Gregorio fu
accusato di occupare illegittimamente la sede di Costantinopoli,
poiché era già stato nominato Vescovo di Sasima. Si ripeteva, ancora
una volta, quello che già un tempo Gregorio aveva proclamato con
parole accorate: “Abbiamo diviso Cristo, noi che tanto amavamo Dio e
Cristo! Abbiamo mentito gli uni agli altri a motivo della Verità,
abbiamo nutrito sentimenti di odio a causa dell'Amore, ci siamo divisi
l'uno dall'altro!” (Discorsi 6, 3). Gregorio, confessandosi
incapace di fare opera di comunione, lascia il concilio. “Lasciatemi
riposare dalle mie lunghe fatiche, abbiate rispetto dei miei capelli
bianchi ... Sono stanco di sentirmi rimproverare la mia
condiscendenza, sono stanco di lottare contro i pettegolezzi e contro
l'invidia, contro i nemici e contro i nostri. Gli uni mi colpiscono al
petto, e fanno un danno minore, perché è facile guardarsi da un
nemico che sta di fronte. Gli altri mi spiano alle spalle e arrecano
una sofferenza maggiore, perché il colpo inatteso procura una ferita
più grave ... Come potrò sopportare questa guerra santa? Bisogna
parlare di guerra santa così come si parla di guerra barbara. Come
potrei riunire e conciliare questa gente? Levano gli uni contro gli
altri le loro sedi e la loro autorità pastorale e il popolo è diviso
in due partiti opposti ... Ma non è tutto: anche i continenti li
hanno raggiunti nel loro dissenso, e così Oriente e Occidente si sono
separati in campi avversi” (Discorsi 42, 20-21). È il mese
di giugno del 381. Nell'autunno del 382 accetta la guida della
comunità di Nazianzo: vi resta un anno e poi si ritira in solitudine
ad Arianzo, dove proprio lui, uomo della Parola, trascorre un'intera
Quaresima in assoluto silenzio, quale segno e monito che la parola era
stata svilita, ridotta a chiacchiera vana e ad arma da usare contro
l'altro. Negli anni compose il poema Sulla sua vita, una
rilettura in versi del suo cammino umano e spirituale, e numerose
poesie. Nulla sappiamo degli ultimi anni di solitudine e di
preparazione all'incontro con il Signore, che avvenne verso il 390;
forse in questi versi sono racchiusi i suoi sentimenti: “Fu soltanto
tirannia? Sono venuto al mondo. Perché sono sconvolto dai flutti
tempestosi della vita? Dirò una parola audace; sì, audace, ma la
dirò. Se non fossi tuo, o mio Cristo, quale ingiustizia!” (Poemi
II, 1, 74).
Gregorio è un uomo
mite, un uomo di pace, che ha lottato lungo tutta la sua vita per fare
opera di pace nella Chiesa del suo tempo, tribolata e divisa dalla
controversia ariana, dalle rivalità e gelosie tra i pastori; ma è
anche un uomo che con audacia evangelica sa vincere la sua timidezza,
il suo carattere incline al silenzio per proclamare la verità senza
paura. Scrittore fecondo, ha composto numerosi Discorsi: i 45
giunti fino a noi sono stati pronunciati per la massima parte a
Costantinopoli, negli anni 379-381 e comprendono i 5 discorsi
teologici, le invettive contro Giuliano, alcune omelie liturgiche,
alcuni panegirici, i discorsi di circostanza in cui difende il suo
operato, l'addio a Costantinopoli e i discorsi sulla povertà. Oltre
alle numerose lettere, da lui stesso pubblicate, Gregorio compose
17.533 versi in 185 opere poetiche, un'attività che ha qualcosa di
prodigioso a prescindere dai risultati artistici che può aver
conseguito. Molte di queste poesie sono autobiografiche. Il poema più
lungo (1949 versi) è quello dedicato alla narrazione della propria
vita dalla nascita alla partenza da Costantinopoli. Aveva scritto: “Servo
della Parola io aderisco al ministero della Parola; che io non
consenta mai di esserne privato. Questa vocazione io l'apprezzo e la
gradisco, ne traggo più gioia che da tutte le altre cose messe
insieme” (Discorsi 6, 5). E ancora: “Ho lasciato tutto il
resto a chi lo vuole, la ricchezza, la nobiltà, la gloria, la potenza
... abbraccio solo la Parola” (Discorsi 4, 10).
Il numero dei
panegirici pronunciati in onore di Gregorio testimonia eloquentemente
il culto di cui godette nella tradizione bizantina. I sinassari
celebrano la sua festa il 30 gennaio nel gruppo dei tre “gerarchi”,
insieme con Basilio e Giovanni Crisostomo, ma lo commemorano più
solennemente, e da solo, il 25 dello stesso mese. L'introduzione del
culto di Gregorio in Occidente è meno documentata. Nel calendario
latino è festeggiato il 2 gennaio insieme a san Basilio.
Giovanni
Crosostomo
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“Crisostomo”, vale
a dire “bocca d'oro”, fu il soprannome dato a Giovanni a motivo
del fascino suscitato dalla sua arte oratoria. Nato ad Antiochia in
una data non precisabile tra il 344 e il 354, Giovanni si dedicò agli
studi di retorica sotto la direzione del celebre Libanio; pare che
questi lo stimasse a tal punto da rispondere a chi gli chiedeva chi
volesse come suo successore: “Giovanni, se i cristiani non me lo
avessero rubato!” |
Dopo aver ricevuto il battesimo, Giovanni
frequentò la cerchia di Diodoro, il futuro Vescovo di Tarso: nel
gruppo di discepoli che si radunavano attorno a costui imparò a
leggere le Scritture secondo il metodo antiocheno, attento alla
spiegazione letterale dei testi, e compì i primi passi lungo quel
cammino spirituale che lo condurrà a lasciare la città e a vivere
alcuni anni in solitudine sul monte Silpio, nei pressi di Antiochia.
Rientrato in città, fu
ordinato diacono dal Vescovo Melezio nel 381 e, cinque anni più
tardi, presbitero dal Vescovo Flaviano, che gli fu maestro non solo di
eloquenza, ma anche di carità e saldezza nella fede. Furono anni di
intensa predicazione: Giovanni commentava le Scritture secondo i
principi esegetici della scuola antiochena, aliena da ogni allegorismo
e sostanzialmente fedele alla lettera del testo biblico. La
predicazione di Giovanni si traduceva sovente in esortazione morale:
ora, veniva presa di mira la passione per gli spettacoli che eccitava
i cristiani di Antiochia, ora la rilassatezza dei costumi. Con grande
zelo esorta a radicare la propria vita di credenti nella conoscenza
delle Scritture, a vivere un'intensa vita spirituale senza ritenere
che essa sia riservata soltanto ai monaci, a praticare la carità
nella cura sollecita per il “sacramento del fratello”. “È un
errore mostruoso credere che il monaco debba condurre una vita più
perfetta, mentre gli altri potrebbero fare a meno di preoccuparsene
... Laici e monaci devono giungere a un'identica perfezione” (Contro
gli oppositori della vita monastica 3, 14).
Nel 397 Giovanni fu
chiamato a Costantinopoli quale successore del Patriarca Nettario.
Nella capitale dell'impero il nuovo Patriarca si dedicò con grande
zelo alla riforma della Chiesa: depose i Vescovi simoniaci, combatté
l'usanza della coabitazione di preti e diaconesse, predicò contro
l'accumulo delle ricchezze nelle mani di pochi e contro l'arroganza
dei potenti, e destinò gran parte dei beni ecclesiastici a opere di
carità. Anche a Costantinopoli continua il suo ministero di
predicatore della Parola e di operatore di pace. La sua opera di
evangelizzazione si estende ai goti e ai fenici. Intransigente quando
la fede è minacciata, predica l'amore per il peccatore e per il
nemico. “Il popolo lo applaudiva per le sue omelie e lo amava”,
afferma lo storico Socrate (Storia ecclesiastica 6, 4).
Tutto questo gli
procurò molti amici e molti nemici: amato dai poveri come un padre,
fu osteggiato dai potenti, che vedevano in lui una temibile minaccia
per i loro privilegi. L'inimicizia nei suoi confronti crebbe con
l'ascesa al potere dell'imperatrice Eudossia. Costei, nel 403, con
l'appoggio del Patriarca di Alessandria, Teofilo, indisse un processo
contro Giovanni e lo fece deportare e condannare all'esilio. Il
decreto di condanna fu revocato dopo poco tempo e Giovanni poté
rientrare in diocesi, ma solo per pochi mesi. Durante la celebrazione
della Pasqua del 404 le guardie imperiali fecero irruzione nella
cattedrale della città provocando uno spargimento di sangue; vi
furono disordini per diversi giorni. Poco dopo la festa di Pentecoste,
Giovanni fu arrestato e nuovamente condannato all'esilio. Per evitare
mali ulteriori, il Patriarca lasciò la casa episcopale uscendo da una
porta secondaria; si congedò dai Vescovi riuniti in sacrestia e fece
chiamare la diaconessa Olimpia e le sue compagne, che conducevano una
vita comunitaria a servizio della chiesa nella casa accanto a quella
del Vescovo. “Venite, figlie, ascoltatemi. Per me è giunta la fine,
lo vedo. Ho terminato la corsa e forse non vedrete più il mio volto”
(Palladio, Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo, 10). Con
queste parole il padre si accomiata dalle sue figlie spirituali.
Giovanni fece appello
al papa Innocenzo I, che ne riconobbe l’innocenza; ma ciò
nonostante fu costretto a lasciare Costantinopoli. Alla sua partenza
vi furono tumulti in città: venne appiccato fuoco a una chiesa
adiacente al palazzo del senato e questo fornì un pretesto alle
autorità imperiali per arrestare e perseguitare i seguaci di
Giovanni. Questi fu confinato a Cucuso, una piccola città
dell'Armenia, ma anche in questo luogo sperduto era raggiunto dalle
manifestazioni di affetto dei suoi fedeli, e così i suoi nemici
provvidero a farlo partire per una sede ancora più lontana. Avrebbe
dovuto raggiungere Pizio, sul Ponto, ma morì lungo il viaggio, a
Comana, stremato dalle marce forzate a cui era stato sottoposto. Era
il 14 settembre 407.
“Gloria a Dio in
tutto: non smetterò di ripeterlo, sempre dinanzi a tutto quello che
mi accade!” (Lettere a Olimpia, 4). In queste parole
troviamo condensata la testimonianza di Giovanni; anche in mezzo alle
molte tribolazioni che occorre attraversare per entrare nel regno dei
cieli (cf. At 14, 22), Giovanni “Boccadoro” ci insegna a cogliere
la luce della risurrezione che già si sprigiona dalla croce e a
portare la croce nella luce del Cristo risorto. Allora ogni discepolo
può proclamare con gioia: “Gloria a Dio in tutto!”.
Il Martirologio
romano, come pure i sinassari orientali, hanno iscritto la festa
di Giovanni al 27 gennaio, anniversario del ritorno del corpo a
Costantinopoli. Attualmente nel calendario romano la sua festa è
celebrata il 13 settembre. Nello stesso giorno la festa è celebrata
presso i siri. La Chiesa bizantina lo festeggia anche il 30 gennaio,
insieme a San Basilio e a San Gregorio di Nazianzo, e il 13 novembre,
giorno del suo ritorno dall'esilio. In Oriente si incontrano molti
monasteri a lui dedicati. Dottore della Chiesa, Giovanni circonda con
i Santi Atanasio, Ambrogio e Agostino, la Cattedra del Bernini
nell'abside della Basilica Vaticana. Papa Giovanni XXIII pose il
Concilio Vaticano II sotto la sua protezione.
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[Fonte: Santa Sede, nov 2004]